DOBBIAMO TRASFORMARE UNA CRISI
IN OPPORTUNITÀ
di Dario Braga
La popolazione scolastica diminuirà drasticamente nei
prossimi anni. Il rapporto della Fondazione Agnelli dipinge un quadro di
tendenza molto chiaro. La riduzione della natalità di questi anni si rifletterà
nella dimensione delle coorti di studentesse e studenti che entreranno nella
scuola. Sempre stando alle proiezioni della Fondazione Agnelli, questa
diminuzione non sarà compensata che in minima parte dalla immigrazione.
Il nostro Paese avrà quindi meno giovani, meno studenti,
meno diplomati e meno forze intellettuali fresche. Questo è già di per sé un
problema. Altri Paesi monitorati nello stesso studio non mostrano tuttavia la
stessa tendenza.
In termini percentuali la popolazione di studenti è prevista
in crescita significativa in Svezia, in Germania e nel regno Unito, ed è
sostanzialmente stabile in Francia, mentre, come noi, Spagna e la Polonia
vedranno una diminuzione, anche se decisamente meno drastica.
Queste differenze
riflettono certamente le diverse politiche di supporto alla maternità dei diversi
Paesi durante il decennio della grande crisi. Supporto alla maternità che non
si risolve solo negli incentivi finanziari, più o meno una tantum,
ma che richiede una diversa struttura del lavoro femminile e una ben diversa
organizzazione scolastica, a cominciare dagli asili per arrivare alle scuole
medie. Si pensi solo al tempo pieno, praticato da noi in maniera disomogenea:
il nostro sistema scolastico è ancora largamente fondato sul concetto che “al
pomeriggio ci pensano la mamma o i nonni”.
La seconda conseguenza evidenziata dallo studio è la
riduzione di fabbisogno di insegnanti nei diversi ordini scolastici. Si parla
di oltre 50.000 (cinquantamila!) posti in meno da qui a 10 anni. Una riduzione
di questo genere ha conseguenze sociali non indifferenti. In primo luogo,
ovviamente, si prospetta una ulteriore riduzione dei posti di lavoro per
laureati. L’impatto sulla occupabilità di quanti entrano nell’università in
questo momento o nei prossimi anni avendo in mente l’insegnamento come prima
scelta (o come “piano B” in caso di mancato raggiungimento di altri obiettivi)
sarà notevole.
Che dire? In un mondo in cui la Politica si occupasse
veramente del futuro del Paese e non del fabbisogno immediato di posizioni di
potere (o del mantenimento di promesse elettorali insostenibili), ci si
metterebbe intorno a un tavolo per definire strategie di sistema.
Una strategia
di sistema è certamente quella di trasformare questa situazione di potenziale
crisi in opportunità, anche alla luce dell’altro dato inquietante, e sempre
presente, del basso numero di laureati nel nostro Paese. Proviamo ad assumere
che le forze politiche, in maniera bipartisan, concordino in primo
luogo di non diminuire la spesa complessiva per il corpo docente. I quasi due
miliardi di euro che sarebbero potenzialmente disponibili andrebbero utilizzati
in parte per agire sul livello stipendiale dei docenti, per accrescere la
capacità di attrazione dell’insegnamento in quelle aree (soprattutto
scientifiche e tecnologiche) dove la capacità di attrazione del privato è molto
più forte, e in parte per reclutare sì docenti, ma nell’ottica di ridurre il
numero di studenti nelle classi, e di espandere tempo pieno e attività di
supporto, tutoraggio e recupero dei ritardi di apprendimento. Si tratterebbe
quindi di agire in controtendenza, e di utilizzare nuovi docenti per accrescere
il periodo di presenza a scuola degli studenti, introducendo anche
sperimentazioni di nuovi modelli di apprendimento.
Bisognerebbe accrescere contestualmente la selettività dei
processi di formazione degli insegnanti – sulla base della vocazione e della
provata capacità didattica – rivedendo anche alcune distorsioni introdotte
negli anni passati sui titoli di studio che danno accesso all’insegnamento
(penso ad alcune lauree telematiche e a equipollenze inaccettabili in un Paese
avanzato). L’obiettivo ultimo sarebbe quello di aumentare il numero di studenti
in grado di proseguire con gli studi universitari dopo il secondo anno di
scuola superiore.
C’è poi il problema di quanti entrano oggi, o entreranno nei
percorsi universitari. Molti di loro saranno i docenti del prossimo decennio.
Credo che il quadro di decrescita indicato dalla Fondazione Agnelli chiami a
una riflessione sul rapporto tra lauree e sbocchi professionali. È il tema –
sempre controverso – della programmazione degli accessi. Servirebbe un piano
dei fabbisogni di docenza dei prossimi anni costruito sulla base dei trend di
trasformazione della popolazione studentesca da indicare alle Università – come
viene fatto per altri corsi di studio – per programmare il numero di laureati
da avviare alla docenza nei vari gradi scolastici.
Ovviamente non ci si può fermare qui, la diminuzione della
popolazione di studenti consentirà anche di concentrare investimenti – anche in
coordinamento con le sedi universitarie – per l’ammodernamento e il
potenziamento dei laboratori scientifici puntando anche ad aumentare il numero
di studenti che si dirigerà verso indirizzi di studio scientifici e
tecnologici, dove è più marcato il differenziale rispetto ai Paesi europei in
termini di numeri di laureati. Agendo sui tempi di presenza a scuola si potrà
mantenere alto il fabbisogno di docenti, diminuire le situazioni di
affollamento, aumentare il numero di studenti che prosegue con successo,
ridurre l’impatto della tempistica media scolastica di oggi sulla
organizzazione delle famiglie e quindi sul lavoro femminile. Non basta,
ovviamente. Ma i dati della Fondazione Agnelli devono spingere a “produrre
politica” – non slogan – né misure una tantum.
Direttore dell’Institute of
Advanced Studies Alma Mater Studiorum University of Bologna
da Il Sole 24 Ore
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