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lunedì 30 aprile 2018

AGLI ALGORITMI SERVE LA TESTA

Cosa resta dell’uomo 
in un mondo fondato 
sui big data?
Diversi ricercatori criticano l’attuale ossessione per il pensiero computazionale e sostengono invece lo studio della filosofia e della poesia. 
Solo la capacità di dare senso alle nostre azioni ci salverà dall’omologazione. 
Ecco perché le discipline umanistiche “governeranno” il digitale.


di SIMONE PALIAGA

«In quale situazione di grande svantaggio potremmo finire, noi e il mondo, se costringessimo le nostre menti ad affrontare tutti i problemi allo stesso modo», si chiede Josh M. Olejarz sulla “Harvard Business Review” dello scorso agosto in un articolo titolato esplicitamente “ Liberal Arts in Data Age”.
E sì! Un mondo ad altezza di algoritmi, pensiero computazionale e big data non potrebbe essere che un mondo a senso unico. Se ne avvede anche la prestigiosa rivista di management di una delle università faro del liberismo. A sottrarci a questa deriva sarebbero, secondo Oleajarz, filosofia, letteratura e poesia. Oggi in effetti non c’è azione o comportamento che non sia guidato da un algoritmo o tradotto in una serie di istruzioni meccanicisticamente risolvibili. In una realtà dove tutto è codificato, declinato in protocolli e interpretabile da algoritmi cosa resterebbe dell’uomo?
Nel 1956 Günther Anders definì l’essere umano al tempo delle tecno- logie diffuse come antiquato. Con questa espressione intendeva dire obsoleto, incapace di rimanere al passo con la “performatività” pretesa dal funzionamento delle tecnologie. Con azioni e comportamenti umani istantaneamente processati, anticipati o condizionati da algoritmi, vale a dire da una sequela di istruzioni preconfezionate, che spazio rimane all’imprevisto e dunque alla libertà degli uomini? Olejarz non esita a mettere sotto accusa l’attuale ossessione per il coding, il pensiero computazionale, e per le cosiddette Stem (acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics). Se trionfassero tutto il mondo adotterebbe le stesse strategie di pensiero e ragionerebbe alla stessa maniera. E non sarebbe certo uno spettacolo edificante vedere miliardi di uomini trovare le stesse soluzioni a problemi uguali.
Gli dà ragione Scott Hartley con il suo The Fuzzy and the Techie (Houghton Mifflin Harcourt, pagine 304, euro 16,99) il cui sottotitolo è sufficientemente esplicito: perché le discipline umanistiche governeranno il mondo digitale. Dall’esigenza di superare la dicotomia tra i nerd delle tecnologie e i secchioni umanisti (questione trita e ritrita dai tempi di Snow) il venture capitalist ricava però un problema delicato. Il mondo di oggi è così complesso, interdipendente e volto a repentini cambiamenti che agli studenti non deve essere offerto un percorso formativo incentrato solo su discipline scientifiche. Al centro del curricolo di studi dovrebbero trovare posto filosofia e poesia, arte e letteratura. Alle discipline umanistiche spetterebbe il compito di rendere elastiche e flessibili le menti dei giovani, capaci così di prospettare soluzioni innovative e scenari controfattuali. Non si potrebbe spiegare altrimenti il successo del filosofo Stewart Butterfield a capo di Slack e cofondatore di Flickr. O di Jack Ma, al timone di Alibaba con un cursus studiorum di anglistica, e Susan Wojcicki, Ceo di YouTube dopo studi di storia e letteratura. O ancora di Brian Chesky, esperto di belle arti, che capitana Airbnb. «Naturalmente – precisa Hartley – non che non si abbia bisogno di esperti tecnici ma occorrono anche persone che comprendano i perché e i come del comportamento umano».
Eppure Hartley, probabilmente per formazione, motiva la difesa della filosofia e della letteratura mostrandone il peso nel successo economico. Diversa invece è la posizione di Gary Saul Morson e Morton Schapiro nel loro Cents and Sensibility( Princeton University Press, pagine 320, euro 22,50). Il docente di letteratura russa e l’economista della Northwestern University riabilitano la letteratura. Essa non sarebbe una disciplina residuale ma uno strumento per rendere aderenti alla realtà predizioni e analisi degli economisti. Anche perché l’homo oeconomicus, richiamato dalle scienze economiche, nella realtà non esiste. Letteratura e economia, «due culture, un fine comune: costruire un mondo – scrivono – che non attinga esclusivamente all’economia, alla medicina, all’ingegneria e alla scienza per rendere le vite solo più lunghe e prospere. Ma in cui le discipline umanistiche e le arti possano rendere quelle vite migliori. Integrare il rigore quantitativo, l’attenzione all’organizzazione e la logica economica con l’empatia, la prudenza e la saggezza proprie delle discipline umanistiche », è la via per sottrarsi ai diktat degli algoritmi.   
Se invece dovessero prevalere rischierebbe di sfuggirci il senso del nostro operare. E proprio Sensemaking si intitola il libro di Christian Madsbjerg (Hachette Books, pagine 240, euro 17,56) che difende «l’indispensabilità delle discipline umanistiche nell’epoca degli algoritmi». Secondo Madsbjerg la fissazione per i dati spesso maschera incredibili carenze con rischi per l’umanità. La devozione cieca ai numeri mette in pericolo le imprese, il mondo della scuola, i governi e le vite dei singoli. Solo la capacità di dare senso alle nostre azioni, il sensemaking appunto, proveniente da filosofia e poesia «insegna – ammonisce l’autore – a individuare cosa meriti la nostra attenzione e a stabilire cosa realmente conti».

Da Avvenire

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