Gesù apprezza la fatica,
ma rimprovera l'ipocrisia
Commento al Vangelo > XXXI Domenica
“In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi
discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i
farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro
opere, perché dicono e non fanno. (...) Tutte le loro opere le fanno per essere
ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano
posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle
piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il
vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla
terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi
chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più
grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi
si abbasserà sarà innalzato».
Il Vangelo di questa domenica
brucia le labbra di tutti coloro “che dicono e non fanno”, magari credenti, ma
non credibili. Esame duro quello della Parola di Dio, e che coinvolge tutti:
infatti nessuno può dirsi esente dall'incoerenza tra il dire e il fare. Che il
Vangelo sia un progetto troppo esigente, perfino inarrivabile? Che si tratti di
un'utopia, di inviti “impossibil”, come ad esempio: «Siate perfetti come il
Padre» (Mt 5,48)?
Ma Gesù conosce bene quanto sono
radicalmente deboli i suoi fratelli, sa la nostra fatica. E nel Vangelo vediamo
che si è sempre mostrato premuroso verso la debolezza, come fa il vasaio che,
se il vaso non è riuscito bene, non butta via l'argilla, ma la rimette sul
tornio e la riplasma e la lavora di nuovo. Sempre premuroso come il pastore che
si carica sulle spalle la pecora che si era perduta, per alleggerire la sua
fatica e il ritorno sia facile. Sempre attento alle fragilità, come al pozzo di
Sicar quando offre acqua viva alla samaritana dai molti amori e dalla grande
sete.
Gesù non si scaglia mai contro la
debolezza dei piccoli, ma contro l'ipocrisia dei pii e dei potenti, quelli che
redigono leggi sempre più severe per gli altri, mentre loro non le toccano
neppure con un dito. Anzi, più sono inflessibili e rigidi con gli altri, più si
sentono fedeli e giusti: «Diffida dell'uomo rigido, è un traditore» (W.
Shakespeare).
Gesù non rimprovera la fatica di
chi non riesce a vivere in pienezza il sogno evangelico, ma l'ipocrisia di chi
neppure si avvia verso l'ideale, di chi neppure comincia un cammino, e tuttavia
vuole apparire giusto. Non siamo al mondo per essere immacolati, ma per essere
incamminati; non per essere perfetti ma per iniziare percorsi.
Se l'ipocrisia è il primo
peccato, il secondo è la vanità: «tutto fanno per essere ammirati dalla gente»,
vivono per l'immagine, recitano. E il terzo errore è l'amore del potere. A
questo oppone la sua rivoluzione: «non chiamate nessuno “maestro” o “padre”
sulla terra, perché uno solo è il Padre, quello del cielo, e voi siete tutti
fratelli». Ed è già un primo scossone inferto alle nostre relazioni
asimmetriche. Ma la rivoluzione di Gesù non si ferma qui, a un modello di
uguaglianza sociale, prosegue con un secondo capovolgimento: il più grande tra
voi sia vostro servo.
Servo è la più sorprendente
definizione che Gesù ha dato di se stesso: Io sono in mezzo a voi come colui
che serve. Servire vuol dire vivere «a partire da me, ma non per me», secondo
la bella espressione di Martin Buber. Ci sono nella vita tre verbi mortiferi,
maledetti: avere, salire, comandare. Ad essi Gesù oppone tre verbi benedetti:
dare, scendere, servire. Se fai così sei felice.
(Letture: Malachia 1,14b-2,2b.8-10; Salmo 130; 1
Tessalonicési 7b-9.13; Matteo 23,1-12)
Ermes Ronchi
(tratto da www.avvenire.it)
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