Buona EDUCAZIONE
per i
“Millennials”
di UMBERTO FOLENA
Educare si può, senza
se e senza ma. E quindi educare si deve. Al titolo del libro del sociologo
Franco Garelli ( Educazione, Il Mulino, pagine 157, euro 12)
potremmo mettere un punto esclamativo. È un pamphlet, ossia l’opera di un
tifoso che non nasconde la sua passione per questa 'Parola controtempo', dal
nome della collana in cui è inserito il libro. Ma è anche lo studio di un
navigato sociologo tutt’altro che ingenuo, che corrobora la sua passione
(educatore è lui per primo e da una vita) con una logica stringente.
Garelli non nasconde
il suo fastidio: «Provo una forte allergia nei confronti del pessimismo cosmico
che da tempo sta condizionando il nostro Paese», e domanda provocatoriamente:
«Perché non si è prodotto un moto di ribellione (o di indignazione) collettiva
verso queste analisi estremamente riduttive della situazione educativa del
Paese», molto ingenerose nei confronti di chi invece sull’educazione scommette
la propria vita e si impegna senza parsimonia.
Le parole associate a
“educazione” sono di solito negative: crisi, emergenza, rischio, impasse,
smarrimento... Garelli preferisce sfida. Non si crogiola nel rimpianto di un
passato in cui l’educazione poggiava su solidi punti di riferimento e valori, e
famiglia, scuola, chiese e associazioni agivano in armonia; anche perché quella
pretesa “epoca d’oro” non era esente da limiti, a cominciare dall’autoritarismo
e dall’indottrinamento. Oggi, però, u- na cappa di stereotipi negativi avvolge
i giovani, racchiusa in espressioni come «generazione nichilista », «deserto di
senso» e simili. Garelli i giovani li incontra tutti i giorni nella sua aula
universitaria a Torino, nelle scuole, nelle ricerche condotte su di loro. E
conclude: «L’insieme dei giovani è meglio di come essi vengono perlopiù
pubblicamente rappresentati». Le immagini fornite (innanzitutto dai media) sono
appiattite su facili equazioni: giovani uguale disagio, bullismo, nichilismo...
Non tengono conto della varietà.
Certo, il contesto in
cui stanno crescendo i millennials è cambiato, nel segno di autosufficienza,
libertà e autonomia. Di stimoli sproporzionati. Della consapevolezza della
precarietà, che può indurre alcuni, forse molti, a un «piccolo cabotaggio della
vita». Di un diverso stile di socializzazione. Di appartenenze molteplici.
«Dentro il sistema, ma con il cuore altrove», con l’effetto di dare maggiore
spazio a emozioni e sentimenti, e meno a ideali e progetti. Eppure giovani
forti di conquiste consolidate, come un rapporto di coppia paritario.
Garelli passa in
rassegna alcune agenzie educative come la famiglia e la scuola. Famiglie
indaffaratissime, che finiscono per offrire più 'cura' che educazione. Nega che
si possa parlare sbrigativamente di «eclissi dei padri». Semmai c’è un
attivismo in parte disordinato, nel «difficile passaggio da un modello
autoritario a uno persuasivo, dalla cultura dell’imposizione a quella
dell’autorevolezza». «Un conto – scrive Garelli, parlando del “prendersi cura”
– è cercare di offrire ai figli risorse utili grazie alle quali essi possano
crescere e maturare in modo autonomo le proprie scelte. Altro conto è riempirli
di attenzioni e di preoccupazioni lasciando che sia l’esperienza a formali,
ritenendo troppo invadente o impegnativo o anacronistico fornir loro una
prospettiva di vita nella società plurale».
E la scuola, l’altra
'agenzia educativa'? Sarà davvero, come talvolta le viene rimproverato,
«responsabile di tutto»? Di sicuro appare attraversata da 'anime' e progetti
contrastanti. Ma davvero gli studenti sono quei 'pappamolle' che troppi media
amano mettere alla berlina? Garelli, manco a dirlo, scuote il capo e cita un
libro americano mai tradotto in Italia (forse non a caso, visto che complica le
letture piatte tanto in voga in Italia), America’s Teenagers. Motivated but
Directionless, frutto del lavoro di un gruppo di ricerca di Chicago, The
Ambitious Generation.
Motivati ma in cerca
di una direzione: difficile da noi, commenta Garelli, pensare in questo modo ai
giovani: «Da noi si mette molto l’accento sui problemi più che sugli stimoli,
con il rischio di 'disagiare' la condizione giovanile nel suo complesso». Ma
proprio qui, sembra di capire, attorno al «motivare e orientare» sta il cuore
dell’educazione. I giovani – è la convinzione di Garelli – non sono insensibili
al fascino dell’educazione e gli adulti impegnati in ruoli formativi hanno una
grande responsabilità nell’orientare e motivare le nuove generazioni.
Ci può essere una vera
conclusione, che “chiuda” il discorso, attorno all’educazione, se è un processo
continuamente in atto? No. Ma alcune certezze Garelli le confida. Come questa:
«Sono del tutto convinto che il segreto di una buona educazione risieda più in
quello che non si dice che in quello che si rende manifesto». Più che
affastellar parole, meglio puntare a fatti, presenze, attenzioni. Per dire ai
giovani: ci state a cuore, meritate il nostro sguardo, siete per noi persone
preziose.
I giovani non sono
insensibili ai sani insegnamenti e gli adulti hanno la responsabilità di
orientarli Il segreto è in ciò che non si dice più che nelle parole. Sono importanti i fatti, la presenza, le
attenzioni.
Il sociologo Garelli nel suo saggio
smonta i luoghi comuni di una società che non riesce a vedere nei giovani una
risorsa ma ne sottolinea solo i problemi Sullo sfondo resta la grande sfida per
scuola e famiglia.
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