di Giuseppe Savagnone
In un racconto della tradizione ebraica si parla di un
discepolo che un giorno si recò dal proprio rabbi per confessargli di avere la
terribile tentazione di farsi cristiano. «E se fosse davvero venuto?», era la
domanda che lo tormentava.
Il
rabbi era seduto vicino a una piccola finestra, coperta da una tenda. Non disse
nulla ma, con una mano, scostò la tenda e guardò fuori. In strada c’erano un
mendicante cencioso che chiedeva l’elemosina, una prostituta che aspettava qualche
cliente, un uomo che picchiava un bambino. Lasciò ricadere la tenda e disse:
«No, non è venuto».
Del
Messia i profeti avevano parlato come di colui che avrebbe, a nome di Dio,
instaurato un regno di pace e di giustizia destinato a durare per sempre. Come
si legge nel libro di Isaia: «Egli sarà giudice fra le genti/e arbitro fra
molti popoli./Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,/ delle loro lance
faranno falci;/una nazione non alzerà più la spada/contro un’altra nazione,/non
impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4).
Se
si guarda a questa promessa, non si può non restare increduli davanti alla fede
dei cristiani, espressa nella festa del Natale, secondo cui il Messia è già
venuto nel mondo duemila anni fa. Proprio in questi giorni la cronaca ci parla
di fatti che fanno apparire questa festa come un’illusine, se non addirittura
come un ipocrita “buonismo”.
Possiamo
ancora credere nel Natale oggi, dopo quello che è successo a Berlino? Ma la
domanda si può riprendere e moltiplicare: possiamo ancora credere nel Natale
dopo quello che è accaduto ad Aleppo? dopo le atroci torture agli ostaggi da
parte dei membri dell’Isis a Dacca? dopo la strage di Nizza? dopo quella del
Bataclan a Parigi? ……..
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