Forse
la maggior parte di noi, davanti al can can che si è scatenato in
questi giorni sul ddl Cirinnà e sul Family day, ha provato un senso
profondo di stanchezza e ha avuto la tentazione di spegnere l’audio, se
non altro per motivi di igiene mentale.
Questa tentazione si fa ancora più forte quando scopriamo che in
Italia «le coppie composte da un uomo e da una donna sono 13 milioni e
990 mila. Il 99,95 per cento. Lo dice il censimento nazionale
dell'Istituto nazionale di statistica. Le coppie dello stesso sesso che
nel 2011 si autodichiarano famiglia sono, invece, soltanto 7.513 (...).
Seguendo le risposte del 2011, si scopre che su 7.513 coppie
autodichiaratesi “dello stesso sesso”, solo 529 avevano figli.
Rappresentano - le coppie gay con figli - lo 0,0005 per cento delle
coppie italiane» (C. Zunino, I numeri delle famiglie gay. Sono meno di 8mila e solo in 500 hanno figli”, in «Repubblica» del 1 febbraio 2016).
Valeva la pena di mobilitarsi in trecentomila per una minaccia
lillipuziana? E, sul fronte opposto, di rivendicare con toni così
drammatici un diritto che riguarda in realtà poche migliaia di persone,
in un momento in cui ci sono milioni di famiglie in gravissime
difficoltà di ogni tipo?
Una prima risposta a questi comprensibili interrogativi potrebbe
essere che l’importanza di un problema non si misura solo in termini
quantitativi. Qui è in gioco un principio giuridico. E’ in nome di esso
che i movimenti LGBT si battono, chiamando in causa gli artt. 2 e 3
della Costituzione, che sanciscono l’uguaglianza dei diritti di tutti i
cittadini. Così come è in nome di esso che, all’opposto, altri -
appellandosi all’art. 29 della stessa Costituzione, dove si consacra il
valore della famiglia – hanno manifestato nel Family day.
Il vero nodo, però, ...
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