Pagine
martedì 31 dicembre 2024
SPRAZZI DI MEMORIA - SPRAZZI DI FUTURO
CONCEDICI LA TUA PACE
debiti:
concedici
la tua pace,
tema della
Giornata della Pace
2025
Il titolo scelto dal Papa
per il messaggio della 58.ma Giornata Mondiale, celebrata il 1° gennaio, si ispira alle
encicliche Laudato Sí e Fratelli tutti e ruota attorno ai
concetti di speranza e di perdono, cuore del Giubileo
Vatican News
“Rimetti a noi i nostri
debiti: concedici la tua pace” è il tema scelto dal Papa
per la prossima Giornata Mondiale della Pace 2025. Il titolo del Messaggio
della 58a Giornata Mondiale della Pace che sarà celebrata il 1° gennaio
2025 - spiega in una nota il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale
- manifesta una naturale consonanza con il senso biblico ed ecclesiale
dell’anno giubilare e si ispira in particolare alle lettere encicliche Laudato
Sí e Fratelli tutti, soprattutto attorno ai concetti di
Speranza e di Perdono, cuore del Giubileo: una chiamata alla conversione volta
non a condannare, ma a riconciliare e rappacificare.
Partendo
dall’osservazione della realtà dei conflitti e dei peccati sociali che
affliggono l’umanità oggi, sottolinea la nota, guardando alla speranza insita
nella tradizione giubilare della rimozione dei peccati/cancellazione dei debiti
e alla riflessione dei Padri della Chiesa, potranno emergere orientamenti
concreti che portino ad un cambiamento tanto necessario in ambito spirituale,
morale, sociale, economico, ecologico e culturale.
Soltanto da una vera
conversione, personale, comunitaria e internazionale, potrà fiorire una vera
pace che non si manifesti solo nella conclusione dei conflitti, ma in una nuova
realtà in cui le ferite siano curate e ad ogni persona venga riconosciuta la
propria dignità.
Vatican News
MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVIII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
NE SIAMO RESPONSABILI
DI CIASCUNO
DI NOI
-
di ENZO
BIANCHI
Un
altro anno finisce. Non è forse anche questo terminare degli anni una memoria
che per noi umani, che i greci chiamavano “mortali”, tutto finisce? Sì, per chi
ha avuto una vita lunga come la mia ed è entrato nei faticosi ottant’anni non è
una novità il finire di impegni, lavori, rapporti.
E
mi sembra di aver accompagnato un mutamento nella società e nella chiesa. Ho
osservato eventi catastrofici inattesi: dalla pandemia all’acuirsi della crisi
culturale in Europa, dalla rinascita della seduzione della guerra al naufragio
della cristianità fino a rischiare di essere ridotta a patrimonio culturale nel
nostro Occidente.
ETICA ED EMPATIA
- di Vito Mancuso
«Per praticare l’etica, l’empatia è importantissima, direi essenziale. A mio avviso essa costituisce buona parte della motivazione dell’azione etica, motivazione che è il problema etico per eccellenza, un problema cioè di tipo energetico, ben più che cognitivo, perché noi, anche se non sappiamo sempre perfettamente cos’è bene e cos’è male, il più delle volte lo sappiamo: sappiamo se stiamo mentendo o dicendo la verità, lavorando onestamente o in modo fraudolento, pagando le tasse o evadendo il fisco e i mille altri casi della vita quotidiana. Lo sappiamo fin da bambini. Il problema vero in ambito etico consiste piuttosto nello scoprire come alimentare l’intenzione di compiere il bene e di compierlo sempre, anche quando di per sé non conviene, e di non compiere il male e di non compierlo mai, anche quando di per sé conviene.
Ebbene, a mio avviso la carica energetica dell’etica è data dal sentimento; più precisamente, dal sentirsi non indifferenti al bene e al male degli altri, ma accomunati in qualche modo con loro. Anche #ImmanuelKant la pensava così e in sede motivazionale faceva leva sul sentimento, anche se specificava che il sentimento riguardava il rispetto della legge morale, e non la partecipazione alla vita degli altri esseri umani. #AlbertSchweitzer invece parlava di «riverenza verso la vita», e nella sua proposta etica il sentire il dolore e la gioia degli altri aveva molta più importanza. In ogni caso, provare empatia significa saper riconoscere le sensazioni e i sentimenti altrui ed entrare in consonanza con essi, ed è da qui che si genera il carburante motivazionale per la pratica dell’etica.
In questa prospettiva che sostiene il primato della relazione si tratta solo di seguire la natura originaria: sii te stesso e ama davvero, perché solo nell’amore tu ti potrai realizzare e starai bene».
#VitoMancuso #Eticapergiornidifficili #Garzanti
ESAME DI RICONOSCENZA
TERMINA UN ANNO
- di Alessandro D’Avenia
Il 2023 è stato per molti, me compreso, un anno di ripresa. Per questo avevo deciso di scrivere su un foglietto, ogni lunedì, la cosa più bella accaduta nella settimana precedente.
Avevo
bisogno di sapere di essere felice e ricordarmelo, verificando l’ipotesi di
G.K. Chesterton secondo cui la felicità è a misura della riconoscenza. In
italiano la gratitudine dipende dal verbo «riconoscere», rendersi pienamente
conto di qualcosa: riconoscente è solo chi ri-conosce. A gennaio del 2024 che
si chiude domani avevo quindi una scatola rossa, il mio «salva-donaio», piena
di 53 racconti dei doni che avevo riconosciuto: 53 riconoscenze, 53 felicità.
Non erano eventi necessariamente positivi, la grazia non è infatti
l’incantesimo che fa sparire i problemi ma un «colpo» che offre una visione
nuova e invita a creare una vita più bella. Nel 2024 l’esperimento è proseguito
con gli articoli del lunedì, che di fatto sono il racconto del colpo di grazia
ricevuto nella settimana precedente (non programmo i pezzi, li aspetto). E così
per gioco, in questi giorni di pausa, ho aperto il salvadonaio del 2023
pescando a caso qualche foglietto. Chesterton aveva ragione: la memoria di una
gioia, ri-conoscenza, è felicità «per sempre». Avevo infatti in mano 53 estasi
da ri-vivere a comando, 53 risvegli, 53 inviti a incarnare un destino, che non
erano invecchiati di un solo giorno, perché erano vita sempre viva, vita
strappata alla morte. E non è forse questa la gioia che tutti cerchiamo?
Dove?
Una vita mancata è quella che non ha incarnato il suo irripetibile destino. Il fine della vita non è infatti la sopravvivenza, ma la bellezza: chi compie il suo destino rende se stesso e il mondo più belli. L’arte è un promemoria di questa chiamata, artista è infatti chiunque lotti per rendere giustizia all’ispirazione ricevuta, come riassumeva il poeta Paul Valéry: il primo verso lo danno gli dei, il secondo è lavoro umano per rimanere all’altezza. Di queste ispirazioni che rompono il ripetersi stanco dei giorni e ci ricordano l’irripetibilità del destino che magari stiamo tradendo, ogni settimana ne riceviamo diverse sotto forma di parole, eventi, incontri, crisi... che spesso però non trovano il terreno interiore per attecchire e dare frutto.
Ribaltando Chesterton si potrebbe dire che «irriconoscenza è infelicità». La realtà offre continui risvegli dal torpore dell’abitudine, dal dolore incancrenito, dalla mania di controllo, che rendono il nostro cuore di pietra. La grazia lo riporta alla sua vera dimensione: la carne. La paura che pietrifica il cuore ha due forme: paura di vivere e paura di morire. Il cuore pietrificato si abbandona infatti all’impotenza (non valgo niente, non sono padrone della mia vita, non posso cambiare questa situazione, non ne vale la pena...) o fuga dalla realtà (era meglio ai miei tempi, è colpa degli altri, questa vita fa schifo mi ritiro...).
Questa pietrificazione rende impossibile la gioia, perché rende incapaci di stare nel presente, non lo ri-conosciamo più, e quindi diventiamo irriconoscenti, infelici. Ma puntuale un colpo di grazia viene a tirarci fuori da impotenza e fuga, ci spinge a stare nella realtà così com’è, ad affrontare la paura, perché la grazia è un invito ad abbracciare il qui e ora come luogo del destino, invito alla libertà per incarnare il modo unico in cui ciascuno di noi può rispondere all’incontro con la realtà. L’ispirazione non cambia il mondo, ma il nostro rapporto con il mondo.
In fondo l’evento alla base delle feste di questi giorni non è altro che la nascita di un bambino in condizioni precarie. Eppure dopo 2000 anni, proprio in questo periodo, ci ri-posiamo, cioè posiamo l’io di nuovo dentro il suo destino facendo ciò che amiamo di più. Immortaliamo la vita come vorremmo che fosse, infatti condividiamo foto di tavole eleganti e imbandite, vestiti belli e luminosi, famiglie unite e sorridenti, giornate spensierate e giocose: è il riconoscimento della vita come vorremmo che fosse, anche se a volte si tratta solo di un desiderio o magari di una facciata. Il tentativo annuale del cuore a tornare di carne...
Eppure, questo accade ogni settimana, se non ogni giorno. Se infatti prendo a caso uno dei fogli del 2023 scopro che il colpo di grazia di quella settimana era stata la telefonata di un padre in lacrime. Si era chiuso in macchina, oppresso dal dolore per la drammatica diagnosi di malattia della figlia giovanissima. Siamo rimasti al telefono qualche minuto, tra silenzi e balbettii. Una grazia questa? Perché? Perché mi ha risvegliato. Che senso ha? Non lo so, non ho spiegazioni al dolore innocente, come i bambini massacrati dalle guerre in corso. Che cosa posso fare? Stare in qualche modo vicino a quest’uomo. Si liberano energie creative, anche perché immediatamente evaporano le paure che pietrificano quelle energie, e la vita torna al suo malcelato splendore: ama di più, crea di più, lavora sul secondo verso. La grazia è un risveglio della libertà: la capacità di creare il nuovo, di aprire una via nella storia, di introdurre un’energia che non c’era, non sottomessa all’entropia, all’esaurirsi di tutte le cose, e che si chiama amore. Senza grazia non c’è libertà, senza libertà non c’è amore, senza amore non c’è creazione, senza creazione non c’è destino, e senza destino non c’è gioia.
Infatti, chi risponde alla grazia torna di nuovo protagonista della propria vita: la pietra diventa carne, che è la capacità di stare nel presente così com’è. In un altro dei 53 foglietti leggo di una passeggiata nel bosco in cui mi è stato ancora una volta evidente che il creato è un invito a fare altrettanta bellezza nella propria vita, tanto che quando dico che credo ai miracoli mi basta mostrare un albero. Vorrei saper fare anche io un bosco in cui la luce penetra tra i rami e apre nel sottobosco radure di luce, mentre un pulviscolo verde tradisce la conversazione segreta, aerea e sotterranea, tra le piante: le cose non sono cose, ma un cosmo. «Anche io, anche io» mi viene da dire, e da fare, come nel bellissimo racconto di Jean Giono: L’uomo che piantava gli alberi, in cui il protagonista riporta la vita in una zona desolata, con la sua paziente e silenziosa azione creativa: piantare ogni giorno 100 ghiande. Quell’uomo fa miracoli, eppure sta solo piantando degli alberi... è proprio così quando si incarna il proprio destino, quando si lavora bene sul secondo verso. Ho altri 51 foglietti da esplorare.
Questo pezzo e questo 2024 finiscono solo apparentemente, perché c’è un salvadonaio da inaugurare, per poter raccogliere almeno altri 53 reperti di grazia, per i più attenti potrebbero essere addirittura 365. Basterebbe fare ogni sera un minuto di «esame di riconoscenza»: qual è stata la cosa bella di oggi? Se non la troviamo o siamo stati distratti o non stiamo vivendo la nostra vita, ci si è pietrificato il cuore. Ogni giorno c’è un colpo di grazia che invita a vivere irripetibilmente, nel qui e ora, creando e non distruggendo. Solo così, ogni giorno, anche il lunedì, ogni settimana, anche la più faticosa, ogni anno, anche il più duro, diventano materiale del capolavoro di una vita, il lavoro che solo ciascuno di noi può fare dopo aver ricevuto il primo verso dal Dio della realtà. Solo così il 2025 sarà divino, cioè pieno di gioia. Ve lo auguro.
sabato 28 dicembre 2024
GIOVANI. ESSERE o APPARIRE ?
Ed
è proprio per tal motivo che una ragazza di ventun anni, Chiara, si rivolge al filosofo,
saggista e psicoanalista Umberto Galimberti per trovare delle risposte ad
alcuni suoi interrogativi.
Le
parole della ragazza celano, in realtà, le difficoltà e le insicurezze dei
giovanissimi alle prese con un mondo che pretende di plasmare ogni soggetto a
suo piacimento, trasformandolo e facendolo diventare diverso da ciò che è
realmente . L'influenza che subiscono è così forte ed incontrollabile che
inconsapevolmente le nuove generazioni si comportano non come vorrebbero ma
come la società ritiene più corretto ed opportuno, sottostando a delle rigide
regole che presuppongono l'approvazione degli altri per poter sentirsi bene con
se stessi, mostrando la propria immagine o meglio la maschera che, giorno dopo
giorno, si finisce con l'indossare, dimenticando chi si è realmente.
In
tale prospettiva il confine è labile e si finisce col perdersi, non
distinguendo più ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, i colori diventano
sbiaditi e la confusione predomina incontrastata, senza valori che svolgano una
funzione guida.
Da
ciò deriva la profonda solitudine e tristezza che connota i più giovani, spesso
disorientati ed incapaci di scegliere consapevolmente e responsabilmente,
insicuri e privi di una personalità forte.
A
tal fine Umberto Galimberti coglie l'occasione per sottolineare come oggi sia
più complicato "essere" che "apparire" all'interno di una
società in cui l'uomo stesso si è degradato al livello di merce e perciò si può
esistere solo mettendosi in mostra, pubblicizzando la propria immagine.
Di
conseguenza chi non si espone, chi non si mette in mostra, non viene
riconosciuto, quasi neppure ci si accorge di quella persona.
"Siamo
infatti nelle mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro
sentire, la nostra gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti
della nostra anima che abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal
"mi piace" o "non mi piace" espresso dagli altri, a cui ci
siamo consegnati con la nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi
stessi, è l'unica cosa che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri.
Ci siamo espropriati e alienati nel modo più radicale, perdendo ogni traccia di
noi", così sottolinea Galimberti.
Pur
di metterci in mostra abbiamo perso la nostra intimità, interiorità, essenza,
il nostro pudore. La spudoratezza diviene una virtù e viene meno la vergogna.
Di intimo è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà, che ciascuno cerca
di nascondere per non essere isolato dagli altri.
Ecco
dunque l'importanza per i giovani di riappropriarsi della loro identità, della
loro essenza, riscoprendo quei valori guida che indicano la strada giusta da
percorrere per non perdersi mai e che illuminano il cammino come un faro nella
notte così da permettere loro una crescita sana, all'insegna dell'essenza e non
dell'apparenza.
NEL SEGNO DI ERODE
nel segno di Erode
-
di Giuseppe Savagnone *
La
strage degli innocenti
Le
luci e il clima festoso del Natale hanno fatto dimenticare ormai da tempo alla
grande maggioranza delle persone, anche ai credenti, una delle feste liturgiche
che la Chiesa cattolica celebra ogni anno il 28 dicembre, all’indomani della
ricorrenza della nascita di Gesù, e che si collega strettamente ad essa, quella
dei Santi Innocenti.
La
storia, narrata nel vangelo di Matteo, è nota: il re Erode, allarmato da quanto
i magi gli hanno riferito sulla nascita in Bethlem di un misterioso “re dei
Giudei”, quando si accorge che essi, malgrado le sue raccomandazioni, non
torneranno per informarlo sull’identità del suo possibile concorrente al
trono, decide di mettersi al sicuro mandando i propri soldati ad
uccidere tutti i bambini del villaggio dai due anni in giù.
Un
racconto che ci appare rappresentativo della bestiale violenza a cui la
logica del potere può condurre chi lo assolutizza. Forse, però, dovremmo
chiederci se il mondo, dopo duemila anni, non sia ancora alle prese con il
triste fantasma di Erode e se la nostra giusta reazione non rischi di essere un
alibi per distogliere gli occhi dal presente di cui siamo protagonisti e in una
certa misura responsabili.
Bambini
deportati e massacrati
Perché
i bambini continuano ad essere le vittime innocenti dei conflitti che oggi
travagliano il nostro pianeta e dei giochi di potere che ne sono l’origine.
Emblematico ciò che è accaduto in Ucraina.
All’inizio
dell’aggressione di Putin, una delle prime misure degli invasori è stata la
deportazione di almeno 20.000 bambini ucraini, che sono stati strappati alle
loro famiglie e portati con la forza in Russia, dove si sta cercando di
cancellare ogni legame con la loro patria e di trasformarli a tutti gli effetti
in russi.
È
questa «deportazione illegale di popolazione (bambini)» il «crimine di guerra»
menzionato nel mandato di arresto emesso il 23 marzo 2023 dalla Corte penale
internazionale nei confronti di Vladimir Putin.
Non
meno impressionante quello che sta accadendo nella guerra che da ormai più di
un anno infuria tra Israele ed Hamas. Già nell’attacco di Hamas del 7 ottobre,
tra le vittime civili israeliane si contavano anche 33 minori uccisi e circa 30
rapiti.
Testimonianza
di una spietatezza che non rispetta neppure l’infanzia e che disonora chi se ne
rende responsabile. I piccoli sono ancora in mano ai terroristi. Un video
recentemente diffuso dall’organizzazione islamica attraverso i suoi canali
social mostra uomini armati che tengono in braccio o spingono nei
passeggini i bambini presi in ostaggio.
Ancora
più drammatici sono i numeri della strage che, in reazione a quel massacro, si
sta perpetrando da più di un anno nella Striscia di Gaza. Dall’inizio
della guerra al luglio scorso i bambini vittime dalle bombe e delle azioni di
terra dell’esercito israeliano erano 16.456, ma da allora ne sono morti altri.
Una nota dell’UNICEF di metà dicembre riferiva che solo dall’inizio di
novembre sono stati uccisi una media di quattro al giorno.
«Questa
guerra è una guerra contro i bambini», ha denunziato il responsabile
dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi,
sottolineando che, secondo i dati, il numero di quelli uccisi nella Striscia di
Gaza in soli quattro mesi supera il numero di bambini uccisi in tutti i
conflitti del mondo negli ultimi quattro anni.
Senza
contare quelli morti a causa della mancanza di cibi e di medicinali, per
il blocco effettuato dallo Stato ebraico e indicato come «crimine di guerra»
nel mandato di arresto della stessa Corte penale internazionale, questa volta
nei confronti del premier israeliano Netanyahu.
Noi
spettatori e protagonisti della strage
C’è
però una inquietante differenza rispetto al caso della violenza dei russi
contro i piccoli ucraini e di quella di Hamas nei confronti dei bambini
israeliani – entrambe ampiamente deprecate da tutti – , ed è che a Gaza il
massacro si svolge, da quattordici mesi, sotto gli occhi indifferenti
delle democrazie occidentali, (ad eccezione di Spagna e Irlanda), le quali fin
dall’inizio forniscono ad Israele la copertura politica e le armi per la sua
campagna, limitandosi a rivolgere di tanto in tanto vaghi inviti al rispetto
dei diritti umani, fingendo di non vedere che essi sono stati ormai da tempo
calpestati.
Ancora
più evidenti sono le responsabilità dei paesi “progrediti” nella violenza
contro i bambini nella sempre più rigida chiusura delle loro frontiere al
flusso dei migranti.
Pioniera
e sostenitrice di questa linea è la premier italiana Giorgia Meloni, il cui
governo si è prodigato fin dall’inizio per contrastare i viaggi verso
l’Italia ostacolando e rendendo più difficile il salvataggio dei
naufraghi nel Mediterraneo da parte delle navi delle ONG.
Quanti
bambini sono morti a causa di queste misure di “difesa dei confini”? Solo nei
primi mesi del 2023 l’UNICEF parlava di 289. Ma ogni settimana giungono
notizie di altri naufragi, in cui almeno alcuni dei morti sono minori.
Per
non parlare di quelli che, grazie agli accordi di Roma con la Libia e la
Tunisia, sono trattenuti in condizioni disumane nei lager creati da questi
paesi per impedirne la partenza verso l’Italia.
Ora
il modello Meloni viene apprezzato e fatto proprio anche da altri paesi
europei, che si stanno prodigando nell’alzare muri e nel creare lager di
smistamento per i rimpatri.
Quanto
agli Stati Uniti, Trump, in coerenza col proprio programma elettorale, è sul
punto di realizzare la «più grande deportazione di massa di migranti
illegali». Non disponiamo del numero dei bambini coinvolti in queste
operazioni, ma non è azzardato presumere che sia elevato.
Un
ultimo capitolo di questa odierna “strage degli innocenti” è il progressivo
assurgere della libertà delle donne di abortire ad emblema della loro
emancipazione e della loro recuperata dignità. Quello che dovrebbe
essere considerato un doloroso trauma, da affrontare come estremo rimedio a
situazioni di estremo pericolo per la gestante e per il bambino, è stato invece
inserito di recente nella Costituzione francese «in riconoscimento del
diritto delle donne di disporre liberamente del proprio corpo», come ha
orgogliosamente dichiarato il primo ministro Gabriel Attal su X. E poco dopo il
Parlamento europeo ha votato a favore dell’inserimento di un’analoga normativa
nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
L’embrione,
il feto, sono ancora privi di una vita biografica – e questo certamente li
differenzia dai bambini già nati –, ma ne hanno una biologica che, secondo
la scienza, li qualifica a tutti gli effetti come esseri umani.
Considerarli “disponibili” ad ogni manipolazione, come semplici parti del corpo
materno, secondo le parole del primo ministro francese, equivale a dire
che la terra è piatta e che il sole ruota intorno alla terra.
La
libertà delle donne non può prevalere sul diritto a vivere di altri esseri
umani. Ed è una triste mistificazione farla risiedere nel
diritto di uccidere i propri figli, invece che in quello di essere aiutate
dalla comunità civile ad averli e a mantenerli dignitosamente.
No,
non è un mondo per bambini. Si capisce anche dal fatto che ne nascono sempre di
meno. Mentre nei paesi poveri i bambini sono accolti come una benedizione,
l’Occidente evoluto fa sempre meno figli, ossessionato dalla paura di dover
dividere la propria libertà e la propria ricchezza con i nuovi venuti, quasi
fossero clandestini indesiderati anche loro.
Alla
viglia del nuovo anno
Il
28 dicembre, la festa liturgica della strage degli innocenti, precede di soli
tre giorni l’imminente Capodanno, con cui comincia un 2025 che, da questo punto
di vista, non sembra promettere niente di buono.
Nel
nuovo anno i piccoli ucraini torneranno alle loro case? I bambini israeliani
ostaggio di Hamas saranno finalmente liberati? Smetterà l’esercito dello Stato
ebraico di uccidere e di affamare quelli palestinesi? Si permetterà ai migranti
di portare i loro figli a vivere in ambienti più sicuri, dove farli crescere al
riparo dalle guerre e dalla fame? Si prenderà coscienza che anche i bambini non
ancora nati hanno il diritto avere un futuro?
Vorremmo
poter rispondere positivamente a queste domande, ma non possiamo. E non dipende
da noi. A ognuno di noi spetta però continuare a parlare, a scrivere, a lottare
come possiamo – come stiano facendo – per denunciare e combattere con tutte le
forze la triste ombra di Erode che si stende sul nostro mondo civilizzato.
*Editorialista
e scrittore. Pastorale della cultura dell’Arcidiocesi di Palermo.
Immagine: Guido Reni, La strage degli innocenti
LE COSE DEL PADRE MIO
DI GESU’
MARIA E GIUSEPPE
29
Dicembre 2024
1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
Commento di Matìas Augè*
Il vangelo ci racconta che Maria e Giuseppe si recano a Gerusalemme per la ricorrenza della Pasqua ebraica. Gesù, ormai dodicenne, accompagna i suoi genitori in questo pio pellegrinaggio. Ed ecco che al ritorno il bambino rimane a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano. Dopo tre giorni di angosciose ricerche, nel ritrovarlo seduto in mezzo ai dottori nel tempio, Maria non può far a meno di rimproverare affettuosamente suo figlio, come farebbe ogni mamma: “perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Gesù risponde: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. È la prima autorivelazione del suo destino. Il brano evangelico aggiunge che Maria e Giuseppe non compresero queste parole. Dice però che Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. La breve parentesi dell’autorivelazione di Gesù nel tempio di Gerusalemme prelude a quella della sua Pasqua di morte e risurrezione. I tre giorni di angosciosa ricerca da parte di Maria e Giuseppe anticipano i tre giorni del suo dramma finale.
L’odierna festa della Sacra Famiglia ci invita a riflettere sul mistero del figlio, d’ogni figlio, d’ogni uomo. “Eredità del Signore sono i figli” (Sal 127,3a). Perciò su ogni uomo che viene a questo mondo, Dio ha un suo progetto. La persona è chiamata ad uscire dall’ambito della famiglia e trovare nella obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita al di là di ogni tentazione di possesso personale dei propri genitori. Gesù affermerà più volte di avere Dio per Padre (cf. Lc 10,22; 22,29; Gv 20,17) rivendicando per sé un rapporto che oltrepassa quello paterno e anche quello materno. Le ultime parole del vangelo d’oggi ci fanno capire però che il progetto di Dio su di noi si realizza attraverso il passaggio di crescita e di maturazione in seno alla famiglia: “Scese, dunque, con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso…” Gesù vive e cresce in una famiglia dove Maria e Giuseppe offrono l’insegnamento della loro saggezza rimanendo sempre aperti al progetto di Dio sul loro figlio. La famiglia in cui la persona umana nasce e cresce è essenziale, ma la persona dovrà uscire dall’ambito familiare e trovare nell’obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita. La famiglia svolge il proprio compito quando non ostacola, ma si pone al servizio del pieno sviluppo umano e spirituale della persona.
Oggi si è passati dalla famiglia con un “ruolo normativo” in cui si trasmettevano principi morali e norme sociali, alla famiglia “affettiva” orientata a soddisfare i bisogni individuali dei figli, a evitargli sofferenze e frustrazioni. Stiamo assistendo ad un’educazione in cui lo stile affettivo tende a predominare su quello normativo al punto di metterlo in secondo piano.
Sarebbe esagerato ed anacronistico rimpiangere la figura autoritaria dei
genitori che impartivano divieti ed obblighi, così come risulterebbe eccessivo
da parte della famiglia considerare come primario l’aspetto affettivo e
delegare alla scuola il compito di insegnare le regole. Una fede matura e
vissuta coerentemente può essere il modo più adatto di trasmettere ai figli
quei valori che presto o tardi li aiuteranno a crearsi una visione adeguata e
cristiana della vita.
*
venerdì 27 dicembre 2024
PELLEGRINAGGIO o TURISMO ?
-
-di Piero
Stefani
Si
tratta del 25° capitolo del Levitico; una pagina – non sembri un paradosso –
dal carattere a un tempo utopico e giuridicamente molto dettagliato. Il periodo
delle 7 settimane di anni che scandisce il giubileo è definibile, in
particolare per chi si trova in condizioni disagiate, come una specie di
pellegrinaggio nel tempo. Nel 50° anno si ripristina la situazione precedente:
«Ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Lo
schiavo ebreo nell’anno giubilare «se ne andrà da te insieme ai suoi figli,
tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (Lv
25,41).
C’è un ritorno, non già uno sviluppo.
A
rendere possibile la reintegrazione nella condizione precedente è soltanto il
trascorrere del tempo.
Il
giubileo non prevede spostamenti collettivi in qualche luogo particolare, né vi
è un riferimento al Tempio. Il 50° anno non ha nulla da spartire con i «canti
delle salite» (Sal 120-134) e, tanto meno, con le tre feste di pellegrinaggio
(Pasqua, Settimane, Capanne; cf. Dt 16,16s). Gerusalemme non è meta
giubilare.
Il
giubileo biblico ha un carattere stanziale. Un suo irrinunciabile fondamento
sta nel fatto che la terra d’Israele è del Signore; di conseguenza, il popolo
risiede su di essa come forestiero e ospite (cf. Lv 25,23). Non è necessario
spostarsi in altri luoghi per sentirsi stranieri, né si è possessori del paese
per il semplice fatto d’avere nelle proprie mani qualche appezzamento di
terreno.
Una
visione esplicitata dalla tradizione giudaica successiva proietta il giubileo
in un avvenire «messianico». Secondo Mosè Maimonide esso non vige che in terra
d’Israele, purché ogni singola tribù sia stanziata nel suo territorio (cf. Gs
13–19) e non vi siano contrasti tra loro. (1) Ci si misura con una situazione
storicamente mai avvenuta. Per Maimonide il tempo del ripristino messianico non
è scandito dal succedersi misurabile di 7 settimane di anni; il suo avvento
avrà luogo in un futuro imprecisato. Quando sopraggiungerà, la situazione sarà
contraddistinta da un’ordinata stanzialità territoriale. In definitiva, la
visione biblica e giudaica del giubileo è saldamente legata sia al tempo sia
allo spazio (la terra d’Israele), ma non prevede alcun pellegrinaggio.
«Pellegrini
di speranza» (motto giubilare) è il titolo anche della XXXVI Giornata
per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, il 17
gennaio 2025. In esergo del sussidio redatto dalla CEI ci sono le parole: «È un
giubileo, esso sarà per voi santo» (Lv 25,12).
Il
breve messaggio dei vescovi scritto per l’occasione si chiude con questa frase:
«Ci auguriamo che l’anno giubilare, alla luce dei tempi che stiamo vivendo,
sia la rinnovata occasione, per cristiani ed ebrei, di ritornare ai testi
biblici letti insieme fraternamente secondo le proprie tradizioni». Il più
ampio messaggio dei rabbini d’Italia chiosa alcune caratteristiche del giubileo
biblico, ponendo l’accento soprattutto sulla giustizia sociale e ignorando,
coerentemente, ogni riferimento al pellegrinaggio.
Il
giubileo cattolico non è quello biblico
Perché
allora in ambito cattolico, a partire dalla sua istituzione nel 1300, il
giubileo implica l’effettuazione di pellegrinaggi? La risposta è semplice;
nonostante l’omonimia, il giubileo cattolico non ha alcun legame con quello
biblico. La riproposizione dell’ideale della remissione dei debiti, intesi,
specie a livello internazionale, in senso economico-finanziario, è un tema
apparso solo in epoca contemporanea, per trasformarsi poi rapidamente in una
costante (è richiamata anche al n. 16 della bolla d’indizione del prossimo
giubileo, Spes non confundit, sostenuta da un’allusione a Lv 25,23; cf.
Regno-doc. 11,2024,326).
All’origine
non si aveva alcun sospetto di ciò. La breve bolla di Bonifacio VIII Antiquorum
habet che istituì il primo giubileo della storia cristiana è, non a caso, priva
d’ogni riferimento biblico. (2) Gli ascendenti del giubileo vanno ricercati
altrove ed è proprio questa origine a evidenziarne il carattere pellegrinante.
Il suo antefatto più stringente lo si trova infatti nel pellegrinaggio armato
delle crociate.
San
Bernardo di Chiaravalle, nella sua predicazione e nelle sue lettere, aveva
presentato la seconda crociata (1144-1149) come un giubileo cristiano proprio a
causa delle indulgenze da essa concesse. I debiti venivano ormai intesi in
senso spirituale. Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), la mistica
della crociata avrebbe trovato il suo sostituto nel giubileo. L’indulgenza
plenaria venne collegata a luoghi più accessibili rispetto a quelli che
contraddistinguevano il pellegrinaggio armato a Gerusalemme.
La
derivazione del giubileo dalle crociate fu a lungo evocata senza alcun disagio.
Ancora a metà del XVIII secolo Benedetto XIV richiamava alla memoria il fatto
che Urbano II, nel 1096, aveva concesso che «quel viaggio» (la prima crociata)
fosse compiuto per chi vi partecipava «come penitenza totale». (3)
Si
tratta di una genealogia che suscita un forte disagio in epoca contemporanea;
essa perciò, nelle bolle di indizioni più recenti, viene semplicemente
ignorata. In Spes non confundit (n. 5; Regno-doc. 11,2024,322s) si indicano,
per esempio, come precedenti la «grande “perdonanza”» indetta da san Celestino
V nel 1294; si ricorda inoltre che quasi 80 anni prima, nel 1216, Onorio III
aveva accolto la supplica di san Francesco di concedere l’indulgenza a chi
avesse visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto; lo stesso si può
affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela in relazione a un
decreto di Callisto II (1122).
Pellegrinaggio
o turismo?
È
una tendenza tipica della Chiesa cattolica postconciliare auspicare ritorni a
visioni più bibliche della fede; tuttavia l’operazione è, a volte, condotta in
modo poco sorvegliato. L’anno santo cattolico conosce, fin dalle sue origini,
una pratica di corposi spostamenti collettivi che nulla ha da spartire con il
giubileo biblico.
La
presenza della folla è già ricordata da Dante in un paragone, a prescindere
dalle intenzioni dell’autore, oggettivamente imbarazzante a causa della sua
ambientazione infernale: la mobilità dei dannati è accostata a quella dei
pellegrini che sul ponte di Castel Sant’Angelo formavano un «essercito molto»
(cf. Inferno XVIII, 25-33). La Commedia coglie, in germe, un aspetto dell’anno
santo destinato a moltiplicarsi a dismisura nel corso del tempo: la presenza di
folle che giungono a Roma.
Nel
1300 il giubileo e le sue pratiche devozionali segnarono, per più aspetti, il
passaggio da una religione intesa come grande fattore di mobilitazione storica
a una spiritualità sempre più individuale. La meta ultima del cristiano
consisteva nella salvezza della propria anima.
A
oltre 700 anni di distanza, in società largamente secolarizzate e nelle quali
le convinzioni sulla sorte umana dopo la morte sono le più varie (anche fra i
cristiani), il pendolo sembra spostarsi di nuovo verso forme di «viaggi
religiosi», peraltro assai diversi da quelli antichi. Ormai le indulgenze si
possono lucrare, anche nel corso degli anni giubilari, in altri luoghi
stabiliti senza compiere grandi spostamenti. I viaggi giubilari sono perciò
sempre più slegati da una dimensione propriamente spirituale.
Il
turismo nacque, tra il XVII e il XIX secolo, come una forma secolarizzata
dell’antico (e antiquato) pellegrinaggio penitenziale. Per ammirare i
capolavori dell’arte, la bellezza della natura e le antichità classiche non c’è
bisogno d’avvertire alcun senso di peccato. Al fine di raggiungere la pace
interiore, gli antichi pellegrini si sentivano peccatori e si spostavano nello
spazio. I turisti, invece, si pensano sempre innocenti, anzi si ritengono, non
a torto, benefattori dei luoghi che li ospitano.
Oggi
le linee di confine tra pellegrinaggio e turismo sono diventate sempre più
indistinguibili; entrambi sono ormai fenomeni di massa e tra essi sono
tutt’altro che infrequenti ibridazioni reciproche. Il senso del peccato
(ammesso e non concesso che ci sia ancora) non è più una causa che sollecita a
spostarsi nello spazio.
Un
discorso almeno in parte diverso va fatto per la sofferenza. La malattia è
tuttora un fattore che induce a pellegrinare. Determinati luoghi, basti pensare
a Lourdes, sono mete di moltitudini di infermi; fermo restando che oggi, a
differenza di un tempo, sofferenza e peccato vengono colti come fattori tra
loro del tutto disgiunti.
Ciò
vale tanto sul versante negativo della causa («soffri perché hai peccato»),
quanto su quello positivo dell’espiazione («offro la mia sofferenza al Signore
in espiazione dei miei peccati e di quelli altrui»).
1
M. Maimonide, Il libro dei precetti, Carucci-DAC, Roma 1980, 169.
2
Cf. E. Lora (a cura di), Bollario dell’anno santo. Documenti di indizioni dal
giubileo del 1300, EDB, Bologna 1998.
3
Cf. Benedetto XIV, enc. Apostolica constitutio, 26.6.1749, in Bollario
dell’anno santo, § 325.
giovedì 26 dicembre 2024
UNA FAMIGLIA SACRA
nel mondo odierno?
-
- - di Francesco Sciacchitano
Accudendo
Gesù, lavandolo e giocando insieme a lui, la Madonna e San Giuseppe, mettevano
in pratica i dovuti atti di culto.
Vivevano
ogni istante della giornata come un sacramento.
Anche
oggi, la famiglia è chiamata a vivere la fede in casa ed essere testimone di
Cristo nel mondo.
In
fondo stiamo attraversando un’epoca in cui tutto rema contro la famiglia
cosiddetta “naturale”, smantellata nella sua stessa natura di unione feconda
tra un uomo e una donna; in cui divorzi e convivenze sembrano avere la meglio
sul matrimonio “per sempre”; in cui le giovani coppie non sono assolutamente
aiutate, né sotto il profilo sociale, né economico.
Un
mondo in cui la famiglia è, insomma, in crisi.
Eppure,
è forse proprio per questo motivo che la Festa che si celebra oggi è ancora più
importante: ci aiuta a mettere ordine alle priorità e ci fornisce anche degli
insegnamenti “pratici” per camminare come famiglia e come singoli, se siamo
disposti a metterci in gioco.
Maria
e Giuseppe sono un esempio per tutti gli sposi.
Oltre
a quanto riportato nella Bibbia, ci sono moltissimi scritti sulla vita della
Madonna o di Giuseppe che narrano la cura e l’attenzione che avevano l’uno per
l’altro: un “volere il bene dell’altro” prima del proprio.
Un
amore casto, puro, che non pretende nulla in cambio ma che dona tutto e che
“soffre con” e “soffre per”.
E,
in tal senso, Maria e Giuseppe sono un esempio per tutti i “coniugi”: portano
assieme il “giogo” della quotidianità che, nella gioia di avere con sé il
Figlio di Dio, non ha risparmiato loro sofferenze e fatiche, anzi.
Maria
e Giuseppe, infine, si santificano assieme.
L’uno
con l’altro e per l’altro. Compiendo con fiducia e fedeltà il proprio dovere,
diverso ma complementare, per dare sviluppo al disegno di Dio.
Maria
e Giuseppe non “pianificano” l’arrivo di Gesù… semplicemente Lo accolgono, Gli
fanno spazio e Lo amano di un amore gratuito.
E,
in fondo, i bambini non chiedono altro che questo: essere accolti e amati dai
loro genitori.
Un
bambino felice non è quello che ha i vestiti di marca, la cameretta tutta per
sé e tantissimi giochi che non utilizzerà mai: un bambino felice è un bambino
amato per quello che è.
E,
attenzione, l’amore è il contrario del possesso: oggi invece vediamo come tanti
bambini, magari figli unici e nati quando i genitori hanno ritenuto di “essere
pronti”, siano considerati un “possesso”, e questo una duplice ottica: da un
lato abbiamo gli adulti che riempiono i bambini di aspettative, per cui il
livello minimo cui il bambino deve tendere è semplicemente la perfezione;
dall’altra abbiamo dei bambini che, iper-desiderati e pieni di attenzione, si
trasformano in dei piccoli tiranni dei loro genitori.
Due
aspetti che, inutile dirlo, non fanno bene e che non si verificano in quelle
famiglie aperte alla vita, con tanti bambini e che hanno chiaro che i figli non
sono un “possesso”, bensì un dono che si riceve (chi può dirsi degno di essere
genitore?) e che, nel contempo, si fa alla società.
Maria
lo sapeva bene che suo figlio era chiamato a «occuparsi delle cose del Padre
Suo» e lo lascia libero di farlo, perché sa che il suo compito era quello di
donare il Figlio di Dio all’umanità, non di tenerlo per sé.
Un
ultimo aspetto: Maria e Giuseppe si fidano della Provvidenza.
Nel
fare questo, soprattutto Giuseppe che è umano come noi, talvolta fatica a
capire e per questo soffre interiormente e per i giudizi esterni.
Eppure,
i Santi sposi si fidano del disegno che c’è su di loro.
Non
scelgono la comodità o quello che forse sarebbe stato più confacente al loro
animo umile e riservato: si donano senza riserve, non tengono per sé neanche un
attimo della propria vita.
Oggi quanti sposi sanno affidarsi così? Pochi, pochissimi.
Forse
perché per farlo occorre una grande Fede, che nasce da una vita intensa di
preghiera… e non è facile.
Ma,
se il fine di ognuno è quello di farsi santi e se si è scelto il matrimonio
come «nuova via della propria santificazione», non solo significa che è
possibile ma significa anche che la famiglia è lo strumento per farlo… no?
Ed
allora proviamo a farci aiutare dalla Santa Famiglia recitando questa preghiera:
Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore dell’amore vero,
a voi con fiducia ci rivolgiamo.
Santa Famiglia di Nazareth,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole del Vangelo
e piccole Chiese domestiche.
Santa Famiglia di Nazareth,
mai più nelle famiglie si faccia esperienza
di violenza, chiusura e divisione:
chiunque è stato ferito o scandalizzato
conosca presto consolazione e guarigione.
Santa Famiglia di Nazareth,
il prossimo Sinodo dei Vescovi
possa ridestare in tutti la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
la sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltate, esaudite la nostra supplica.
Amen.