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martedì 31 dicembre 2024

SPRAZZI DI MEMORIA - SPRAZZI DI FUTURO

 

RICORDI, EMOZIONI, INCONTRI, ESPERIENZE, PROPOSTE  ... 

Dieci "veterani" dell'Associazione si raccontano e raccontano,
per una associazione che fa memoria, ringrazia, s'interroga, progetta il suo cammino ....


TESTIMONIANZE



CONCEDICI LA TUA PACE




Rimetti a noi i nostri

 debiti: 

concedici

 la tua pace

tema della 

Giornata della Pace

 2025




Il titolo scelto dal Papa per il messaggio della 58.ma Giornata Mondiale,  celebrata il 1° gennaio, si ispira alle encicliche Laudato Sí e Fratelli tutti e ruota attorno ai concetti di speranza e di perdono, cuore del Giubileo

Vatican News

“Rimetti a noi i nostri debiti: concedici la tua pace” è il tema scelto dal Papa per la prossima Giornata Mondiale della Pace 2025. Il titolo del Messaggio della 58a Giornata Mondiale della Pace che sarà celebrata il 1° gennaio 2025 - spiega in una nota il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale - manifesta una naturale consonanza con il senso biblico ed ecclesiale dell’anno giubilare e si ispira in particolare alle lettere encicliche Laudato Sí e Fratelli tutti, soprattutto attorno ai concetti di Speranza e di Perdono, cuore del Giubileo: una chiamata alla conversione volta non a condannare, ma a riconciliare e rappacificare.

Partendo dall’osservazione della realtà dei conflitti e dei peccati sociali che affliggono l’umanità oggi, sottolinea la nota, guardando alla speranza insita nella tradizione giubilare della rimozione dei peccati/cancellazione dei debiti e alla riflessione dei Padri della Chiesa, potranno emergere orientamenti concreti che portino ad un cambiamento tanto necessario in ambito spirituale, morale, sociale, economico, ecologico e culturale.

Soltanto da una vera conversione, personale, comunitaria e internazionale, potrà fiorire una vera pace che non si manifesti solo nella conclusione dei conflitti, ma in una nuova realtà in cui le ferite siano curate e ad ogni persona venga riconosciuta la propria dignità.

Vatican News

MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVIII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2025



NE SIAMO RESPONSABILI


 LA RESPONSABILITA' 

DI CIASCUNO 

DI NOI


-             di ENZO BIANCHI

 

Un altro anno finisce. Non è forse anche questo terminare degli anni una memoria che per noi umani, che i greci chiamavano “mortali”, tutto finisce? Sì, per chi ha avuto una vita lunga come la mia ed è entrato nei faticosi ottant’anni non è una novità il finire di impegni, lavori, rapporti.

 E così con questo testo di oggi termina la mia rubrica Altrimenti su questo giornale. Sono stati sette anni interessanti e soddisfacenti perché a ogni articolo numerosi tra voi lettori reagivano scrivendomi o commentando. Sono molto grato ai direttori di Repubblica che mi hanno offerto questo impegno anche perché risultava essere una voce “altra”. Un cristiano, un monaco, che con una certa distanza dalla vita del mondo osserva, pensa per poi condividere i pensieri preoccupato di dialogare anche con i non cristiani. Perché ciò che mi interessa è l’umanità, quella reale che s’incontra qui e ora sulle diverse strade percorse insieme.

E mi sembra di aver accompagnato un mutamento nella società e nella chiesa. Ho osservato eventi catastrofici inattesi: dalla pandemia all’acuirsi della crisi culturale in Europa, dalla rinascita della seduzione della guerra al naufragio della cristianità fino a rischiare di essere ridotta a patrimonio culturale nel nostro Occidente.

 Il paesaggio umano e religioso è cambiato, un mutamento destinato a continuare. Di questa mia lettura pensata e confrontata ho dato segni negli articoli pubblicati. Ho piena consapevolezza di essere stato a volte duro, radicale, quando me lo imponeva il Vangelo, ma in questo caso il primo a sentirmi ferito ero proprio io. Per questo spero di non aver offeso nessuno, anche perché da vecchi occorre essere disarmati per andarsene in pace. Scriverò ancora per rendere palese una parola a favore degli ultimi, degli oppressi, dei perseguitati, dei bisognosi e per ripetere che una chiesa domina non sarà mai la comunità che Gesù aveva in mente: una chiesa spoglia di ogni potere che chiede ai cristiani solo di credere al bene, alla giustizia, alla bellezza, all’accoglienza di tutti.

 Osservare una chiesa che è sempre più debole nella fede, senza una parola autorevole da parte dei pastori che faccia risuonare il Vangelo, che celebra liturgie non più cristiane e non solo sbiadite, fa male al cuore dei credenti.

 Sentinella, a che punto è la notte?”: questo il grido che risuona. E per quel che riguarda la società civile ho scritto che la barbarie avanza a piccoli passi, ma poi è piombata tra di noi e si è imposta con l’assenza di fiducia, il rancore, l’egoismo narcisista, sentimenti che hanno ottenebrato ogni orizzonte comune. Ho paura per la malattia delle nostre democrazie e l’instaurarsi di regimi autoritari in un’ora nella quale le guerre si moltiplicano. Ma a ciascuno di noi compete una precisa responsabilità e non ci è lecito disertare perché la lotta e la resistenza contro ogni disumanizzazione è ciò che è veramente umano, soltanto umano. Pensatemi comunque, cari lettori, ogni alba nella mia cella a leggere e pensare, anche con voi.

 

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ETICA ED EMPATIA

COMPIERE 
IL BENE 
COMPIERLO SEMPRE


- di Vito Mancuso

«Per praticare l’etica, l’empatia è importantissima, direi essenziale. A mio avviso essa costituisce buona parte della motivazione dell’azione etica, motivazione che è il problema etico per eccellenza, un problema cioè di tipo energetico, ben più che cognitivo, perché noi, anche se non sappiamo sempre perfettamente cos’è bene e cos’è male, il più delle volte lo sappiamo: sappiamo se stiamo mentendo o dicendo la verità, lavorando onestamente o in modo fraudolento, pagando le tasse o evadendo il fisco e i mille altri casi della vita quotidiana. Lo sappiamo fin da bambini. Il problema vero in ambito etico consiste piuttosto nello scoprire come alimentare l’intenzione di compiere il bene e di compierlo sempre, anche quando di per sé non conviene, e di non compiere il male e di non compierlo mai, anche quando di per sé conviene.

Ebbene, a mio avviso la carica energetica dell’etica è data dal sentimento; più precisamente, dal sentirsi non indifferenti al bene e al male degli altri, ma accomunati in qualche modo con loro. Anche #ImmanuelKant la pensava così e in sede motivazionale faceva leva sul sentimento, anche se specificava che il sentimento riguardava il rispetto della legge morale, e non la partecipazione alla vita degli altri esseri umani. #AlbertSchweitzer invece parlava di «riverenza verso la vita», e nella sua proposta etica il sentire il dolore e la gioia degli altri aveva molta più importanza. In ogni caso, provare empatia significa saper riconoscere le sensazioni e i sentimenti altrui ed entrare in consonanza con essi, ed è da qui che si genera il carburante motivazionale per la pratica dell’etica.

In questa prospettiva che sostiene il primato della relazione si tratta solo di seguire la natura originaria: sii te stesso e ama davvero, perché solo nell’amore tu ti potrai realizzare e starai bene».

#VitoMancuso #Eticapergiornidifficili #Garzanti


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ESAME DI RICONOSCENZA



TERMINA UN ANNO





- di Alessandro D’Avenia

Il 2023 è stato per molti, me compreso, un anno di ripresa. Per questo avevo deciso di scrivere su un foglietto, ogni lunedì, la cosa più bella accaduta nella settimana precedente.

Avevo bisogno di sapere di essere felice e ricordarmelo, verificando l’ipotesi di G.K. Chesterton secondo cui la felicità è a misura della riconoscenza. In italiano la gratitudine dipende dal verbo «riconoscere», rendersi pienamente conto di qualcosa: riconoscente è solo chi ri-conosce. A gennaio del 2024 che si chiude domani avevo quindi una scatola rossa, il mio «salva-donaio», piena di 53 racconti dei doni che avevo riconosciuto: 53 riconoscenze, 53 felicità. Non erano eventi necessariamente positivi, la grazia non è infatti l’incantesimo che fa sparire i problemi ma un «colpo» che offre una visione nuova e invita a creare una vita più bella. Nel 2024 l’esperimento è proseguito con gli articoli del lunedì, che di fatto sono il racconto del colpo di grazia ricevuto nella settimana precedente (non programmo i pezzi, li aspetto). E così per gioco, in questi giorni di pausa, ho aperto il salvadonaio del 2023 pescando a caso qualche foglietto. Chesterton aveva ragione: la memoria di una gioia, ri-conoscenza, è felicità «per sempre». Avevo infatti in mano 53 estasi da ri-vivere a comando, 53 risvegli, 53 inviti a incarnare un destino, che non erano invecchiati di un solo giorno, perché erano vita sempre viva, vita strappata alla morte. E non è forse questa la gioia che tutti cerchiamo? Dove? 

 Una vita mancata è quella che non ha incarnato il suo irripetibile destino. Il fine della vita non è infatti la sopravvivenza, ma la bellezza: chi compie il suo destino rende se stesso e il mondo più belli. L’arte è un promemoria di questa chiamata, artista è infatti chiunque lotti per rendere giustizia all’ispirazione ricevuta, come riassumeva il poeta Paul Valéry: il primo verso lo danno gli dei, il secondo è lavoro umano per rimanere all’altezza. Di queste ispirazioni che rompono il ripetersi stanco dei giorni e ci ricordano l’irripetibilità del destino che magari stiamo tradendo, ogni settimana ne riceviamo diverse sotto forma di parole, eventi, incontri, crisi... che spesso però non trovano il terreno interiore per attecchire e dare frutto. 

 Ribaltando Chesterton si potrebbe dire che «irriconoscenza è infelicità». La realtà offre continui risvegli dal torpore dell’abitudine, dal dolore incancrenito, dalla mania di controllo, che rendono il nostro cuore di pietra. La grazia lo riporta alla sua vera dimensione: la carne. La paura che pietrifica il cuore ha due forme: paura di vivere e paura di morire. Il cuore pietrificato si abbandona infatti all’impotenza (non valgo niente, non sono padrone della mia vita, non posso cambiare questa situazione, non ne vale la pena...) o fuga dalla realtà (era meglio ai miei tempi, è colpa degli altri, questa vita fa schifo mi ritiro...). 

 Questa pietrificazione rende impossibile la gioia, perché rende incapaci di stare nel presente, non lo ri-conosciamo più, e quindi diventiamo irriconoscenti, infelici. Ma puntuale un colpo di grazia viene a tirarci fuori da impotenza e fuga, ci spinge a stare nella realtà così com’è, ad affrontare la paura, perché la grazia è un invito ad abbracciare il qui e ora come luogo del destino, invito alla libertà per incarnare il modo unico in cui ciascuno di noi può rispondere all’incontro con la realtà. L’ispirazione non cambia il mondo, ma il nostro rapporto con il mondo. 

 In fondo l’evento alla base delle feste di questi giorni non è altro che la nascita di un bambino in condizioni precarie. Eppure dopo 2000 anni, proprio in questo periodo, ci ri-posiamo, cioè posiamo l’io di nuovo dentro il suo destino facendo ciò che amiamo di più. Immortaliamo la vita come vorremmo che fosse, infatti condividiamo foto di tavole eleganti e imbandite, vestiti belli e luminosi, famiglie unite e sorridenti, giornate spensierate e giocose: è il riconoscimento della vita come vorremmo che fosse, anche se a volte si tratta solo di un desiderio o magari di una facciata. Il tentativo annuale del cuore a tornare di carne... 

 Eppure, questo accade ogni settimana, se non ogni giorno. Se infatti prendo a caso uno dei fogli del 2023 scopro che il colpo di grazia di quella settimana era stata la telefonata di un padre in lacrime. Si era chiuso in macchina, oppresso dal dolore per la drammatica diagnosi di malattia della figlia giovanissima. Siamo rimasti al telefono qualche minuto, tra silenzi e balbettii. Una grazia questa? Perché? Perché mi ha risvegliato. Che senso ha? Non lo so, non ho spiegazioni al dolore innocente, come i bambini massacrati dalle guerre in corso. Che cosa posso fare? Stare in qualche modo vicino a quest’uomo. Si liberano energie creative, anche perché immediatamente evaporano le paure che pietrificano quelle energie, e la vita torna al suo malcelato splendore: ama di più, crea di più, lavora sul secondo verso. La grazia è un risveglio della libertà: la capacità di creare il nuovo, di aprire una via nella storia, di introdurre un’energia che non c’era, non sottomessa all’entropia, all’esaurirsi di tutte le cose, e che si chiama amore. Senza grazia non c’è libertà, senza libertà non c’è amore, senza amore non c’è creazione, senza creazione non c’è destino, e senza destino non c’è gioia. 

 Infatti, chi risponde alla grazia torna di nuovo protagonista della propria vita: la pietra diventa carne, che è la capacità di stare nel presente così com’è. In un altro dei 53 foglietti leggo di una passeggiata nel bosco in cui mi è stato ancora una volta evidente che il creato è un invito a fare altrettanta bellezza nella propria vita, tanto che quando dico che credo ai miracoli mi basta mostrare un albero. Vorrei saper fare anche io un bosco in cui la luce penetra tra i rami e apre nel sottobosco radure di luce, mentre un pulviscolo verde tradisce la conversazione segreta, aerea e sotterranea, tra le piante: le cose non sono cose, ma un cosmo. «Anche io, anche io» mi viene da dire, e da fare, come nel bellissimo racconto di Jean Giono: L’uomo che piantava gli alberi, in cui il protagonista riporta la vita in una zona desolata, con la sua paziente e silenziosa azione creativa: piantare ogni giorno 100 ghiande. Quell’uomo fa miracoli, eppure sta solo piantando degli alberi... è proprio così quando si incarna il proprio destino, quando si lavora bene sul secondo verso. Ho altri 51 foglietti da esplorare. 

 Questo pezzo e questo 2024 finiscono solo apparentemente, perché c’è un salvadonaio da inaugurare, per poter raccogliere almeno altri 53 reperti di grazia, per i più attenti potrebbero essere addirittura 365. Basterebbe fare ogni sera un minuto di «esame di riconoscenza»: qual è stata la cosa bella di oggi? Se non la troviamo o siamo stati distratti o non stiamo vivendo la nostra vita, ci si è pietrificato il cuore. Ogni giorno c’è un colpo di grazia che invita a vivere irripetibilmente, nel qui e ora, creando e non distruggendo. Solo così, ogni giorno, anche il lunedì, ogni settimana, anche la più faticosa, ogni anno, anche il più duro, diventano materiale del capolavoro di una vita, il lavoro che solo ciascuno di noi può fare dopo aver ricevuto il primo verso dal Dio della realtà. Solo così il 2025 sarà divino, cioè pieno di gioia. Ve lo auguro. 

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sabato 28 dicembre 2024

GIOVANI. ESSERE o APPARIRE ?

Galimberti, per esistere bisogna mettere in mostra la propria immagine ed è per questo che, almeno nella nostra società, è più complicato "essere" che "apparire".

 I giovani devono riappropriarsi della loro identità, della loro essenza, riscoprendo quei valori guida che indicano la strada giusta da percorrere.

 Nella società odierna l'apparenza sembra aver completamente preso il sopravvento sull'essenza all'insegna di un'esistenza priva di significato in cui i più giovani stentano a trovare una loro identità, omologandosi a stereotipi privi di senso, determinando ciò sicuramente degli effetti deleteri nel loro processo evolutivo di crescita.

Ed è proprio per tal motivo che una ragazza di ventun anni, Chiara, si rivolge al filosofo, saggista e psicoanalista Umberto Galimberti per trovare delle risposte ad alcuni suoi interrogativi.

Le parole della ragazza celano, in realtà, le difficoltà e le insicurezze dei giovanissimi alle prese con un mondo che pretende di plasmare ogni soggetto a suo piacimento, trasformandolo e facendolo diventare diverso da ciò che è realmente . L'influenza che subiscono è così forte ed incontrollabile che inconsapevolmente le nuove generazioni si comportano non come vorrebbero ma come la società ritiene più corretto ed opportuno, sottostando a delle rigide regole che presuppongono l'approvazione degli altri per poter sentirsi bene con se stessi, mostrando la propria immagine o meglio la maschera che, giorno dopo giorno, si finisce con l'indossare, dimenticando chi si è realmente.

In tale prospettiva il confine è labile e si finisce col perdersi, non distinguendo più ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, i colori diventano sbiaditi e la confusione predomina incontrastata, senza valori che svolgano una funzione guida.

Da ciò deriva la profonda solitudine e tristezza che connota i più giovani, spesso disorientati ed incapaci di scegliere consapevolmente e responsabilmente, insicuri e privi di una personalità forte.

A tal fine Umberto Galimberti coglie l'occasione per sottolineare come oggi sia più complicato "essere" che "apparire" all'interno di una società in cui l'uomo stesso si è degradato al livello di merce e perciò si può esistere solo mettendosi in mostra, pubblicizzando la propria immagine.

Di conseguenza chi non si espone, chi non si mette in mostra, non viene riconosciuto, quasi neppure ci si accorge di quella persona.

"Siamo infatti nelle mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro sentire, la nostra gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti della nostra anima che abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal "mi piace" o "non mi piace" espresso dagli altri, a cui ci siamo consegnati con la nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi stessi, è l'unica cosa che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri. Ci siamo espropriati e alienati nel modo più radicale, perdendo ogni traccia di noi", così sottolinea Galimberti.

Pur di metterci in mostra abbiamo perso la nostra intimità, interiorità, essenza, il nostro pudore. La spudoratezza diviene una virtù e viene meno la vergogna. Di intimo è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà, che ciascuno cerca di nascondere per non essere isolato dagli altri.

Ecco dunque l'importanza per i giovani di riappropriarsi della loro identità, della loro essenza, riscoprendo quei valori guida che indicano la strada giusta da percorrere per non perdersi mai e che illuminano il cammino come un faro nella notte così da permettere loro una crescita sana, all'insegna dell'essenza e non dell'apparenza.

 Scuola Oggi

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NEL SEGNO DI ERODE


 L’anno nuovo 

nel segno di Erode



 

-         di Giuseppe Savagnone *

  

La strage degli innocenti

Le luci e il clima festoso del Natale hanno fatto dimenticare ormai da tempo alla grande maggioranza delle persone, anche ai credenti, una delle feste liturgiche che la Chiesa cattolica celebra ogni anno il 28 dicembre, all’indomani della ricorrenza della nascita di Gesù, e che si collega strettamente ad essa, quella dei Santi Innocenti.

La storia, narrata nel vangelo di Matteo, è nota: il re Erode, allarmato da quanto i magi gli hanno riferito sulla nascita in Bethlem di un misterioso “re dei Giudei”, quando si accorge che essi, malgrado le sue raccomandazioni, non torneranno per informarlo sull’identità del suo possibile concorrente al trono, decide di mettersi al sicuro mandando i propri soldati ad uccidere tutti i bambini del villaggio dai due anni in giù.

Un racconto che ci appare rappresentativo della bestiale violenza a cui la logica del potere può condurre chi lo assolutizza. Forse, però, dovremmo chiederci se il mondo, dopo duemila anni, non sia ancora alle prese con il triste fantasma di Erode e se la nostra giusta reazione non rischi di essere un alibi per distogliere gli occhi dal presente di cui siamo protagonisti e in una certa misura responsabili.

Bambini deportati e massacrati

Perché i bambini continuano ad essere le vittime innocenti dei conflitti che oggi travagliano il nostro pianeta e dei giochi di potere che ne sono l’origine. Emblematico ciò che è accaduto in Ucraina.

All’inizio dell’aggressione di Putin, una delle prime misure degli invasori è stata la deportazione di almeno 20.000 bambini ucraini, che sono stati strappati alle loro famiglie e portati con la forza in Russia, dove si sta cercando di cancellare ogni legame con la loro patria e di trasformarli a tutti gli effetti in russi.

È questa «deportazione illegale di popolazione (bambini)» il «crimine di guerra» menzionato nel mandato di arresto emesso il 23 marzo 2023 dalla Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin.

Non meno impressionante quello che sta accadendo nella guerra che da ormai più di un anno infuria tra Israele ed Hamas. Già nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, tra le vittime civili israeliane si contavano anche 33 minori uccisi e circa 30 rapiti.

Testimonianza di una spietatezza che non rispetta neppure l’infanzia e che disonora chi se ne rende responsabile. I piccoli sono ancora in mano ai terroristi. Un video recentemente diffuso dall’organizzazione islamica attraverso i suoi canali social mostra uomini armati che tengono in braccio o spingono nei passeggini i bambini presi in ostaggio.

Ancora più drammatici sono i numeri della strage che, in reazione a quel massacro, si sta perpetrando da più di un anno nella Striscia di Gaza. Dall’inizio della guerra al luglio scorso i bambini vittime dalle bombe e delle azioni di terra dell’esercito israeliano erano 16.456, ma da allora ne sono morti altri. Una nota dell’UNICEF di metà dicembre riferiva che solo dall’inizio di novembre sono stati uccisi una media di quattro al giorno.

«Questa guerra è una guerra contro i bambini», ha denunziato il responsabile dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, sottolineando che, secondo i dati, il numero di quelli uccisi nella Striscia di Gaza in soli quattro mesi supera il numero di bambini uccisi in tutti i conflitti del mondo negli ultimi quattro anni.

Senza contare quelli morti a causa della mancanza di cibi e di medicinali, per il blocco effettuato dallo Stato ebraico e indicato come «crimine di guerra» nel mandato di arresto della stessa Corte penale internazionale, questa volta nei confronti del premier israeliano Netanyahu.

Noi spettatori e protagonisti della strage

C’è però una inquietante differenza rispetto al caso della violenza dei russi contro i piccoli ucraini e di quella di Hamas nei confronti dei bambini israeliani – entrambe ampiamente deprecate da tutti – , ed è che a Gaza il massacro si svolge, da quattordici mesi, sotto gli occhi indifferenti delle democrazie occidentali, (ad eccezione di Spagna e Irlanda), le quali fin dall’inizio forniscono ad Israele la copertura politica e le armi per la sua campagna, limitandosi a rivolgere di tanto in tanto vaghi inviti al rispetto dei diritti umani, fingendo di non vedere che essi sono stati ormai da tempo calpestati. 

Ancora più evidenti sono le responsabilità dei paesi “progrediti” nella violenza contro i bambini nella sempre più rigida chiusura delle loro frontiere al flusso dei migranti.

Pioniera e sostenitrice di questa linea è la premier italiana Giorgia Meloni, il cui governo si è prodigato fin dall’inizio per contrastare i viaggi verso l’Italia  ostacolando e rendendo più difficile il salvataggio dei naufraghi nel Mediterraneo da parte delle navi delle ONG.

Quanti bambini sono morti a causa di queste misure di “difesa dei confini”? Solo nei primi mesi del 2023 l’UNICEF parlava di 289. Ma ogni settimana giungono notizie di altri naufragi, in cui almeno alcuni dei morti sono minori.

Per non parlare di quelli che, grazie agli accordi di Roma con la Libia e la Tunisia, sono trattenuti in condizioni disumane nei lager creati da questi paesi per impedirne la partenza verso l’Italia.

Ora il modello Meloni viene apprezzato e fatto proprio anche da altri paesi europei, che si stanno prodigando nell’alzare muri e nel creare lager di smistamento per i rimpatri. 

Quanto agli Stati Uniti, Trump, in coerenza col proprio programma elettorale, è sul punto di realizzare la «più grande deportazione di massa di migranti illegali». Non disponiamo del numero dei bambini coinvolti in queste operazioni, ma non è azzardato presumere che sia elevato.

Un ultimo capitolo di questa odierna “strage degli innocenti” è il progressivo assurgere della libertà delle donne di abortire ad emblema della loro emancipazione e della loro recuperata dignità. Quello che dovrebbe essere considerato un doloroso trauma, da affrontare come estremo rimedio a situazioni di estremo pericolo per la gestante e per il bambino, è stato invece inserito di recente nella Costituzione francese «in riconoscimento del diritto delle donne di disporre liberamente del proprio corpo», come ha orgogliosamente dichiarato il primo ministro Gabriel Attal su X. E poco dopo il Parlamento europeo ha votato a favore dell’inserimento di un’analoga normativa nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

L’embrione, il feto, sono ancora privi di una vita biografica – e questo certamente li differenzia dai bambini già nati –, ma ne hanno una biologica che, secondo la scienza, li qualifica a tutti gli effetti come esseri umani. Considerarli “disponibili” ad ogni manipolazione, come semplici parti del corpo materno, secondo le parole del primo ministro francese, equivale a dire che la terra è piatta e che il sole ruota intorno alla terra.

La libertà delle donne non può prevalere sul diritto a vivere di altri esseri umani. Ed è una triste mistificazione farla risiedere nel diritto di uccidere i propri figli, invece che in quello di essere aiutate dalla comunità civile ad averli e a mantenerli dignitosamente.

No, non è un mondo per bambini. Si capisce anche dal fatto che ne nascono sempre di meno. Mentre nei paesi poveri i bambini sono accolti come una benedizione, l’Occidente evoluto fa sempre meno figli, ossessionato dalla paura di dover dividere la propria libertà e la propria ricchezza con i nuovi venuti, quasi fossero clandestini indesiderati anche loro.

Alla viglia del nuovo anno

Il 28 dicembre, la festa liturgica della strage degli innocenti, precede di soli tre giorni l’imminente Capodanno, con cui comincia un 2025 che, da questo punto di vista, non sembra promettere niente di buono.

Nel nuovo anno i piccoli ucraini torneranno alle loro case? I bambini israeliani ostaggio di Hamas saranno finalmente liberati? Smetterà l’esercito dello Stato ebraico di uccidere e di affamare quelli palestinesi? Si permetterà ai migranti di portare i loro figli a vivere in ambienti più sicuri, dove farli crescere al riparo dalle guerre e dalla fame? Si prenderà coscienza che anche i bambini non ancora nati hanno il diritto avere un futuro?

Vorremmo poter rispondere positivamente a queste domande, ma non possiamo. E non dipende da noi. A ognuno di noi spetta però continuare a parlare, a scrivere, a lottare come possiamo – come stiano facendo – per denunciare e combattere con tutte le forze la triste ombra di Erode che si stende sul nostro mondo civilizzato.

 

*Editorialista e scrittore. Pastorale della cultura dell’Arcidiocesi di Palermo.

 www.tuttavia.eu

Immagine: Guido Reni, La strage degli innocenti


 

LE COSE DEL PADRE MIO


 SANTA FAMIGLIA

 DI GESU’ 

MARIA E GIUSEPPE


29 Dicembre 2024


 1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

 Commento di Matìas Augè*

 Tutte e tre le letture bibliche odierne parlano della nascita dell’uomo all’interno della famiglia, ma tutte e tre affermano che il bambino è più grande della famiglia in cui nasce. Ciò la prima lettura lo dice di Samuele, il vangelo lo afferma di Gesù, e la seconda lettura lo applica ad ogni uomo, ad ogni battezzato, vero figlio di Dio. Il destino dell’uomo che viene a questo mondo è un destino che sovrasta i limiti della famiglia in cui nasce perché la dimensione ultima della sua vita trascende le realtà di questo mondo. Questo vale anzitutto per Gesù.

 Il vangelo ci racconta che Maria e Giuseppe si recano a Gerusalemme per la ricorrenza della Pasqua ebraica. Gesù, ormai dodicenne, accompagna i suoi genitori in questo pio pellegrinaggio. Ed ecco che al ritorno il bambino rimane a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano. Dopo tre giorni di angosciose ricerche, nel ritrovarlo seduto in mezzo ai dottori nel tempio, Maria non può far a meno di rimproverare affettuosamente suo figlio, come farebbe ogni mamma: “perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Gesù risponde: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. È la prima autorivelazione del suo destino. Il brano evangelico aggiunge che Maria e Giuseppe non compresero queste parole. Dice però che Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. La breve parentesi dell’autorivelazione di Gesù nel tempio di Gerusalemme prelude a quella della sua Pasqua di morte e risurrezione. I tre giorni di angosciosa ricerca da parte di Maria e Giuseppe anticipano i tre giorni del suo dramma finale.

 L’odierna festa della Sacra Famiglia ci invita a riflettere sul mistero del figlio, d’ogni figlio, d’ogni uomo. “Eredità del Signore sono i figli” (Sal 127,3a). Perciò su ogni uomo che viene a questo mondo, Dio ha un suo progetto. La persona è chiamata ad uscire dall’ambito della famiglia e trovare nella obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita al di là di ogni tentazione di possesso personale dei propri genitori. Gesù affermerà più volte di avere Dio per Padre (cf. Lc 10,22; 22,29; Gv 20,17) rivendicando per sé un rapporto che oltrepassa quello paterno e anche quello materno. Le ultime parole del vangelo d’oggi ci fanno capire però che il progetto di Dio su di noi si realizza attraverso il passaggio di crescita e di maturazione in seno alla famiglia: “Scese, dunque, con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso…” Gesù vive e cresce in una famiglia dove Maria e Giuseppe offrono l’insegnamento della loro saggezza rimanendo sempre aperti al progetto di Dio sul loro figlio. La famiglia in cui la persona umana nasce e cresce è essenziale, ma la persona dovrà uscire dall’ambito familiare e trovare nell’obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita. La famiglia svolge il proprio compito quando non ostacola, ma si pone al servizio del pieno sviluppo umano e spirituale della persona.

 Oggi si è passati dalla famiglia con un “ruolo normativo” in cui si trasmettevano principi morali e norme sociali, alla famiglia “affettiva” orientata a soddisfare i bisogni individuali dei figli, a evitargli sofferenze e frustrazioni. Stiamo assistendo ad un’educazione in cui lo stile affettivo tende a predominare su quello normativo al punto di metterlo in secondo piano.

Sarebbe esagerato ed anacronistico rimpiangere la figura autoritaria dei genitori che impartivano divieti ed obblighi, così come risulterebbe eccessivo da parte della famiglia considerare come primario l’aspetto affettivo e delegare alla scuola il compito di insegnare le regole. Una fede matura e vissuta coerentemente può essere il modo più adatto di trasmettere ai figli quei valori che presto o tardi li aiuteranno a crearsi una visione adeguata e cristiana della vita.

 Alzogliocchiversoilcielo

 *Matias Augé (Perafort, Spagna, 1936), clarettiano, è preside emerito dell'Istituto di teologia della vita consacrata Claretianum e professore onorario al Pontificio istituto liturgico Sant'Anselmo di Roma. Dal 1994 è consultore della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.


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venerdì 27 dicembre 2024

PELLEGRINAGGIO o TURISMO ?

 

GIUBILEO CATTOLICO
 e 
GIUBILEO BIBLICO

-    

     -di Piero Stefani




 Letto in chiave storica, il giubileo biblico è un’istituzione che, con ogni probabilità, non ebbe mai luogo; in ogni caso è certo che da lunghissimo tempo mancano le condizioni perché lo si effettui. Ci troviamo di fronte a una dimensione più ideale che reale. Il riferimento base è rappresentato da un testo e non da un fatto.

Si tratta del 25° capitolo del Levitico; una pagina – non sembri un paradosso – dal carattere a un tempo utopico e giuridicamente molto dettagliato. Il periodo delle 7 settimane di anni che scandisce il giubileo è definibile, in particolare per chi si trova in condizioni disagiate, come una specie di pellegrinaggio nel tempo. Nel 50° anno si ripristina la situazione precedente: «Ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Lo schiavo ebreo nell’anno giubilare «se ne andrà da te insieme ai suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (Lv 25,41).

 C’è un ritorno, non già uno sviluppo. 

A rendere possibile la reintegrazione nella condizione precedente è soltanto il trascorrere del tempo.

Il giubileo non prevede spostamenti collettivi in qualche luogo particolare, né vi è un riferimento al Tempio. Il 50° anno non ha nulla da spartire con i «canti delle salite» (Sal 120-134) e, tanto meno, con le tre feste di pellegrinaggio (Pasqua, Settimane, Capanne; cf. Dt 16,16s). Gerusalemme non è meta giubilare. 

Il giubileo biblico ha un carattere stanziale. Un suo irrinunciabile fondamento sta nel fatto che la terra d’Israele è del Signore; di conseguenza, il popolo risiede su di essa come forestiero e ospite (cf. Lv 25,23). Non è necessario spostarsi in altri luoghi per sentirsi stranieri, né si è possessori del paese per il semplice fatto d’avere nelle proprie mani qualche appezzamento di terreno. 

Una visione esplicitata dalla tradizione giudaica successiva proietta il giubileo in un avvenire «messianico». Secondo Mosè Maimonide esso non vige che in terra d’Israele, purché ogni singola tribù sia stanziata nel suo territorio (cf. Gs 13–19) e non vi siano contrasti tra loro. (1) Ci si misura con una situazione storicamente mai avvenuta. Per Maimonide il tempo del ripristino messianico non è scandito dal succedersi misurabile di 7 settimane di anni; il suo avvento avrà luogo in un futuro imprecisato. Quando sopraggiungerà, la situazione sarà contraddistinta da un’ordinata stanzialità territoriale. In definitiva, la visione biblica e giudaica del giubileo è saldamente legata sia al tempo sia allo spazio (la terra d’Israele), ma non prevede alcun pellegrinaggio. 

«Pellegrini di speranza» (motto giubilare) è il titolo anche della XXXVI Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, il 17 gennaio 2025. In esergo del sussidio redatto dalla CEI ci sono le parole: «È un giubileo, esso sarà per voi santo» (Lv 25,12). 

Il breve messaggio dei vescovi scritto per l’occasione si chiude con questa frase: «Ci auguriamo che l’anno giubilare, alla luce dei tempi che stiamo vivendo, sia la rinnovata occasione, per cristiani ed ebrei, di ritornare ai testi biblici letti insieme fraternamente secondo le proprie tradizioni». Il più ampio messaggio dei rabbini d’Italia chiosa alcune caratteristiche del giubileo biblico, ponendo l’accento soprattutto sulla giustizia sociale e ignorando, coerentemente, ogni riferimento al pellegrinaggio. 

Il giubileo cattolico non è quello biblico 

Perché allora in ambito cattolico, a partire dalla sua istituzione nel 1300, il giubileo implica l’effettuazione di pellegrinaggi? La risposta è semplice; nonostante l’omonimia, il giubileo cattolico non ha alcun legame con quello biblico. La riproposizione dell’ideale della remissione dei debiti, intesi, specie a livello internazionale, in senso economico-finanziario, è un tema apparso solo in epoca contemporanea, per trasformarsi poi rapidamente in una costante (è richiamata anche al n. 16 della bolla d’indizione del prossimo giubileo, Spes non confundit, sostenuta da un’allusione a Lv 25,23; cf. Regno-doc. 11,2024,326). 

All’origine non si aveva alcun sospetto di ciò. La breve bolla di Bonifacio VIII Antiquorum habet che istituì il primo giubileo della storia cristiana è, non a caso, priva d’ogni riferimento biblico. (2) Gli ascendenti del giubileo vanno ricercati altrove ed è proprio questa origine a evidenziarne il carattere pellegrinante. Il suo antefatto più stringente lo si trova infatti nel pellegrinaggio armato delle crociate. 

San Bernardo di Chiaravalle, nella sua predicazione e nelle sue lettere, aveva presentato la seconda crociata (1144-1149) come un giubileo cristiano proprio a causa delle indulgenze da essa concesse. I debiti venivano ormai intesi in senso spirituale. Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), la mistica della crociata avrebbe trovato il suo sostituto nel giubileo. L’indulgenza plenaria venne collegata a luoghi più accessibili rispetto a quelli che contraddistinguevano il pellegrinaggio armato a Gerusalemme. 

La derivazione del giubileo dalle crociate fu a lungo evocata senza alcun disagio. Ancora a metà del XVIII secolo Benedetto XIV richiamava alla memoria il fatto che Urbano II, nel 1096, aveva concesso che «quel viaggio» (la prima crociata) fosse compiuto per chi vi partecipava «come penitenza totale». (3)  

Si tratta di una genealogia che suscita un forte disagio in epoca contemporanea; essa perciò, nelle bolle di indizioni più recenti, viene semplicemente ignorata. In Spes non confundit (n. 5; Regno-doc. 11,2024,322s) si indicano, per esempio, come precedenti la «grande “perdonanza”» indetta da san Celestino V nel 1294; si ricorda inoltre che quasi 80 anni prima, nel 1216, Onorio III aveva accolto la supplica di san Francesco di concedere l’indulgenza a chi avesse visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto; lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela in relazione a un decreto di Callisto II (1122). 

Pellegrinaggio o turismo? 

È una tendenza tipica della Chiesa cattolica postconciliare auspicare ritorni a visioni più bibliche della fede; tuttavia l’operazione è, a volte, condotta in modo poco sorvegliato. L’anno santo cattolico conosce, fin dalle sue origini, una pratica di corposi spostamenti collettivi che nulla ha da spartire con il giubileo biblico. 

La presenza della folla è già ricordata da Dante in un paragone, a prescindere dalle intenzioni dell’autore, oggettivamente imbarazzante a causa della sua ambientazione infernale: la mobilità dei dannati è accostata a quella dei pellegrini che sul ponte di Castel Sant’Angelo formavano un «essercito molto» (cf. Inferno XVIII, 25-33). La Commedia coglie, in germe, un aspetto dell’anno santo destinato a moltiplicarsi a dismisura nel corso del tempo: la presenza di folle che giungono a Roma. 

Nel 1300 il giubileo e le sue pratiche devozionali segnarono, per più aspetti, il passaggio da una religione intesa come grande fattore di mobilitazione storica a una spiritualità sempre più individuale. La meta ultima del cristiano consisteva nella salvezza della propria anima. 

A oltre 700 anni di distanza, in società largamente secolarizzate e nelle quali le convinzioni sulla sorte umana dopo la morte sono le più varie (anche fra i cristiani), il pendolo sembra spostarsi di nuovo verso forme di «viaggi religiosi», peraltro assai diversi da quelli antichi. Ormai le indulgenze si possono lucrare, anche nel corso degli anni giubilari, in altri luoghi stabiliti senza compiere grandi spostamenti. I viaggi giubilari sono perciò sempre più slegati da una dimensione propriamente spirituale. 

Il turismo nacque, tra il XVII e il XIX secolo, come una forma secolarizzata dell’antico (e antiquato) pellegrinaggio penitenziale. Per ammirare i capolavori dell’arte, la bellezza della natura e le antichità classiche non c’è bisogno d’avvertire alcun senso di peccato. Al fine di raggiungere la pace interiore, gli antichi pellegrini si sentivano peccatori e si spostavano nello spazio. I turisti, invece, si pensano sempre innocenti, anzi si ritengono, non a torto, benefattori dei luoghi che li ospitano. 

Oggi le linee di confine tra pellegrinaggio e turismo sono diventate sempre più indistinguibili; entrambi sono ormai fenomeni di massa e tra essi sono tutt’altro che infrequenti ibridazioni reciproche. Il senso del peccato (ammesso e non concesso che ci sia ancora) non è più una causa che sollecita a spostarsi nello spazio. 

Un discorso almeno in parte diverso va fatto per la sofferenza. La malattia è tuttora un fattore che induce a pellegrinare. Determinati luoghi, basti pensare a Lourdes, sono mete di moltitudini di infermi; fermo restando che oggi, a differenza di un tempo, sofferenza e peccato vengono colti come fattori tra loro del tutto disgiunti. 

Ciò vale tanto sul versante negativo della causa («soffri perché hai peccato»), quanto su quello positivo dell’espiazione («offro la mia sofferenza al Signore in espiazione dei miei peccati e di quelli altrui»). 

 

1 M. Maimonide, Il libro dei precetti, Carucci-DAC, Roma 1980, 169. 

2 Cf. E. Lora (a cura di), Bollario dell’anno santo. Documenti di indizioni dal giubileo del 1300, EDB, Bologna 1998. 

3 Cf. Benedetto XIV, enc. Apostolica constitutio, 26.6.1749, in Bollario dell’anno santo, § 325.

 

Il Regno

 

giovedì 26 dicembre 2024

UNA FAMIGLIA SACRA


 Una festa anacronistica,

nel mondo odierno?

 

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   -   - di   Francesco Sciacchitano

 

Accudendo Gesù, lavandolo e giocando insieme a lui, la Madonna e San Giuseppe, mettevano in pratica i dovuti atti di culto.

Vivevano ogni istante della giornata come un sacramento.

Anche oggi, la famiglia è chiamata a vivere la fede in casa ed essere testimone di Cristo nel mondo.

In fondo stiamo attraversando un’epoca in cui tutto rema contro la famiglia cosiddetta “naturale”, smantellata nella sua stessa natura di unione feconda tra un uomo e una donna; in cui divorzi e convivenze sembrano avere la meglio sul matrimonio “per sempre”; in cui le giovani coppie non sono assolutamente aiutate, né sotto il profilo sociale, né economico.

Un mondo in cui la famiglia è, insomma, in crisi.

Eppure, è forse proprio per questo motivo che la Festa che si celebra oggi è ancora più importante: ci aiuta a mettere ordine alle priorità e ci fornisce anche degli insegnamenti “pratici” per camminare come famiglia e come singoli, se siamo disposti a metterci in gioco.

Maria e Giuseppe sono un esempio per tutti gli sposi.

Oltre a quanto riportato nella Bibbia, ci sono moltissimi scritti sulla vita della Madonna o di Giuseppe che narrano la cura e l’attenzione che avevano l’uno per l’altro: un “volere il bene dell’altro” prima del proprio.

Un amore casto, puro, che non pretende nulla in cambio ma che dona tutto e che “soffre con” e “soffre per”.

E, in tal senso, Maria e Giuseppe sono un esempio per tutti i “coniugi”: portano assieme il “giogo” della quotidianità che, nella gioia di avere con sé il Figlio di Dio, non ha risparmiato loro sofferenze e fatiche, anzi.

Maria e Giuseppe, infine, si santificano assieme.

L’uno con l’altro e per l’altro. Compiendo con fiducia e fedeltà il proprio dovere, diverso ma complementare, per dare sviluppo al disegno di Dio.

Maria e Giuseppe non “pianificano” l’arrivo di Gesù… semplicemente Lo accolgono, Gli fanno spazio e Lo amano di un amore gratuito.

E, in fondo, i bambini non chiedono altro che questo: essere accolti e amati dai loro genitori.

Un bambino felice non è quello che ha i vestiti di marca, la cameretta tutta per sé e tantissimi giochi che non utilizzerà mai: un bambino felice è un bambino amato per quello che è.

E, attenzione, l’amore è il contrario del possesso: oggi invece vediamo come tanti bambini, magari figli unici e nati quando i genitori hanno ritenuto di “essere pronti”, siano considerati un “possesso”, e questo una duplice ottica: da un lato abbiamo gli adulti che riempiono i bambini di aspettative, per cui il livello minimo cui il bambino deve tendere è semplicemente la perfezione; dall’altra abbiamo dei bambini che, iper-desiderati e pieni di attenzione, si trasformano in dei piccoli tiranni dei loro genitori.

Due aspetti che, inutile dirlo, non fanno bene e che non si verificano in quelle famiglie aperte alla vita, con tanti bambini e che hanno chiaro che i figli non sono un “possesso”, bensì un dono che si riceve (chi può dirsi degno di essere genitore?) e che, nel contempo, si fa alla società.

Maria lo sapeva bene che suo figlio era chiamato a «occuparsi delle cose del Padre Suo» e lo lascia libero di farlo, perché sa che il suo compito era quello di donare il Figlio di Dio all’umanità, non di tenerlo per sé.

Un ultimo aspetto: Maria e Giuseppe si fidano della Provvidenza.

Nel fare questo, soprattutto Giuseppe che è umano come noi, talvolta fatica a capire e per questo soffre interiormente e per i giudizi esterni.

Eppure, i Santi sposi si fidano del disegno che c’è su di loro.

Non scelgono la comodità o quello che forse sarebbe stato più confacente al loro animo umile e riservato: si donano senza riserve, non tengono per sé neanche un attimo della propria vita.

Oggi quanti sposi sanno affidarsi così? Pochi, pochissimi.

Forse perché per farlo occorre una grande Fede, che nasce da una vita intensa di preghiera… e non è facile.

Ma, se il fine di ognuno è quello di farsi santi e se si è scelto il matrimonio come «nuova via della propria santificazione», non solo significa che è possibile ma significa anche che la famiglia è lo strumento per farlo… no?

Ed allora proviamo a farci aiutare dalla Santa Famiglia recitando questa preghiera:

 

Gesù, Maria e Giuseppe,

in voi contempliamo

lo splendore dell’amore vero,

a voi con fiducia ci rivolgiamo.

Santa Famiglia di Nazareth,

rendi anche le nostre famiglie

luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,

autentiche scuole del Vangelo

e piccole Chiese domestiche.

Santa Famiglia di Nazareth,

mai più nelle famiglie si faccia esperienza

di violenza, chiusura e divisione:

chiunque è stato ferito o scandalizzato

conosca presto consolazione e guarigione.

Santa Famiglia di Nazareth,

il prossimo Sinodo dei Vescovi

possa ridestare in tutti la consapevolezza

del carattere sacro e inviolabile della famiglia,

la sua bellezza nel progetto di Dio.

Gesù, Maria e Giuseppe,

ascoltate, esaudite la nostra supplica.

Amen.