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giovedì 21 novembre 2024

OLTRE L'OSCURO DEI VETRI

TORTURE  IN CARCERE

 

         

-         - di Giuseppe Savagnone*

-          Ha suscitato viva impressione nell’opinione pubblica la notizia che ben 46 agenti penitenziari del carcere di Trapani, di cui 11 sono già stati arrestati, da anni sistematicamente torturavano, umiliavano e picchiavano i detenuti.

 Persone costrette a denudarsi e a camminare senza vestiti lungo i corridoi, sbeffeggiate con commenti sui genitali, percosse, oggetto di secchiate di acqua e urina mente dormivano nelle loro celle.

 Ha colpito il fatto che non si sia trattato di un episodio isolato, attribuibile a uno squilibrato, ma di uno stile abituale che coinvolgeva un numero così rilevante di rappresentanti dello Stato. Così come è stato sconvolgente, per gli inquirenti, scoprire che da molto tempo nell’istituto di pena trapanese tutti sapevano di queste pratiche disumane e consideravano un inferno la “zona blu”, la parte dell’edificio priva di telecamere dove esse per lo più si svolgevano, ma nessuno interveniva.

 Tutto questo viene alla luce pochi giorni dopo le parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in occasione della presentazione della nuova vettura della Polizia penitenziaria per il trasporto dei detenuti in regime di 41 bis.

 Riferendosi al fato che i vetri dei finestrini di questi veicoli sono affumicati, Delmastro aveva detto: «L’idea di veder sfilare questo potente mezzo (…) e far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia».

 Le espressioni usate dal rappresentante del governo avevano suscitato dure reazioni. In difesa di Delmastro era intervenuto l’on. Giovanni Donzelli, autorevole esponente di FdI, il quale aveva bollato queste proteste come «polemiche surreali». Per lui, le parole del sottosegretario «hanno il chiarissimo significato di non dare tregua e fiato ai mafiosi al 41 bis e quindi alla criminalità organizzata nel suo complesso».

 Ma le persone si identificano con i loro crimini?

Secondo questa lettura, dunque, Delmastro avrebbe scaricato il suo odio per la criminalità organizzata sulle persone a bordo delle auto della Polizia penitenziaria. Perché in ogni caso è evidente che «dietro quel vetro oscurato» delle auto della Polizia non  c’è la presenza fisica della mafia, bensì quella dei  mafiosi detenuti.

 Ma è proprio questo transfert, forse, la cosa più significativa ed inquietante nel discorso del sottosegretario (stando alla lettura benevola del suo compagno di partito). Nei confronti del delinquente, si ritiene legittima qualunque violenza – in questo caso solo verbale, ma potenzialmente anche fisica – perché in lui si vede l’incarnazione del male di cui si è reso colpevole, mettendo tra parentesi il fatto che si tratta comunque di un essere umano.

 Se Donzelli ha ragione, questo è il corto-circuito sotteso dall’esternazione di Delmastro. «Incalzare», «non lasciare respirare» le persone dei criminali è il modo pratico di tradurre la determinazione delle istituzioni   nel fronteggiare il crimine. Nessuna pietà per i colpevoli, perché essa sarebbe una sottile complicità con la loro colpa. È esattamente questa la logica in cui si sono mossi gli agenti penitenziari di Trapani.

 Una logica, quella del nostro sottosegretario e degli agenti, che implica in realtà il misconoscimento del valore unico e irripetibile della persona umana, che nessun suo comportamento criminoso può mai cancellare. Non si può ridurre un uomo, una donna, alle sue colpe. Per quanto abbrutiti essi possano essere, per quanto gravi siano stati i loro atti, per quanta giusta compassione si possa provare per le loro vittime, quest’uomo, questa donna, sono molto più del male che c’è in loro e di quello che hanno causato.

 Essi hanno una storia che nessuno, tranne loro, conoscerà mai e che forse aiuterebbe a capire, se non a giustificare, le loro scelte sbagliate. Senza cadere in un inaccettabile determinismo fatalistico, che farebbe attribuire la loro colpa a un inesorabile “destino”, è chiaro che un ruolo importante hanno avuto nella loro vita l’ambiente in cui sono cresciuti, le circostanze che hanno dovuto fronteggiare, le persone che hanno incontrato.

 Tutto ciò non elimina il margine di libertà che giustifica la pena per i loro delitti, ma evidenzia i condizionamenti a cui questa libertà è stata soggetta e apre lo spazio per una riflessione su ciò che essa potrebbe fare se essi venissero meno.

 La funzione rieducativa della pena

È in questo spazio che si colloca l’idea, sostenuta dalla nostra Costituzione, secondo cui il criminale può accedere a una vita diversa e può averla proprio grazie alla pena inflittagli dalla società, che perciò non può avere solo una funzione punitiva, ma deve privilegiare quella rieducativa.

 Una funzione che trova il suo riconoscimento nel 3° comma dell’articolo 27 della Carta costituzionale, il quale sancisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

 Tutto ciò suppone che, contrariamente a quanto appare dalle parole di Delmastro e del suo interprete Donzelli, il criminale non si identifichi col suo crimine, ma abbia una identità umana ben più ricca e complessa e possa perciò lasciarselo dietro le spalle restando se stesso, anzi diventandolo più pienamente.

 Perciò la punizione di coloro che violano le leggi e tutte le misure necessarie per impedire a questo soggetti di fare ancora del male non hanno lo scopo  di «non lasciarli respirare», bensì, al contrario, quello di permettere loro, finalmente, di tirare un sospiro di liberazione dalla vita sbagliata che hanno avuto e di intraprenderne un’altra diversa. E di potersi così reinserire, con uno stile nuovo, nella vita sociale.

 Purtroppo, il nostro sistema penitenziario, in radicale contrasto con la Costituzione, non è impostato in modo da rendere possibile questa “seconda occasione”, a cui ogni essere umano dovrebbe avere diritto.

 La rieducazione, sbandierata sulla carta, resta così una vetrina delle buone intenzioni, cui accedono solo pochi fortunati che per puro caso si sono trovati a scontare la loro pena in un istituto penale il cui direttore è particolarmente illuminato e può avvalersi di circostanze favorevoli sia all’interno del carcere – personale di custodia ed educatori disponibili – sia nell’ambiente esterno (che offra, per esempio, la possibilità di svolgere lavori socialmente utili). I detenuti del carcere di Trapani non hanno avuto questa fortuna. E non sono i soli, in Italia.

Il sovraffollamento delle carceri e i sucidi

Ma il dettato costituzionale non viene clamorosamente violato solo per quanto riguarda la  funzione rieducativa della pena: lo è anche là dove vieta «trattamenti contrari al senso di umanità». La vicenda del carcere di Trapani rivela in tutta la sua terribile verità uno stile che contraddice totalmente questa normativa. Ma è solo punta dell’iceberg. Ci sono a monte problemi strutturali che la rendono inapplicabile.

 Emblematico è quello, drammatico, del sovraffollamento delle nostre carceri. Alla data del 16 settembre di quest’anno i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840, a fronte di 46.929 posti disponibili: l’esubero, quindi, è di 14.911 persone, con un indice di sovraffollamento pari al 130,59%.

Da queste condizioni disumane di vita deriva ovviamente un malessere profondo, che si manifesta nel drammatico fenomeno dei suicidi. Il suicidio risulta essere di gran lunga la prima causa di morte negli istituti di pena in Italia. Nel quinquennio 2020-24, che si sta per concludere, degli 810 decessi registrati in tutti gli istituti penitenziari della Penisola, 340 sono di persone che si sono tolte volontariamente la vita (il 42% del totale). Nel solo 2024, fino a settembre, ci sono stati  ben 72 casi di suicidio.

 Guardando i singoli casi, risulta immediatamente evidente la forte relazione tra tassi di sovraffollamento e numero di eventi critici. Dei dieci penitenziari con maggior numero di suicidi, ben nove presentano tassi di affollamento effettivo di gran lunga superiori alla media nazionale, già di per sé inaccettabile, del 130%.

 Erano comunque criminali… dirà cinicamente qualcuno. Non è vero: il 40% dei suicidi si è registrato tra detenuti in attesa di giudizio, costretti a vivere in un inferno senza neppure essere mai stati giudicati e tanto meno condannati, e spesso senza aver fatto nulla di male.  Non c’è da stupirsi se il carcere, piuttosto che a rieducare i criminali, finisce per far diventare criminali coloro che non lo sono, capovolgendo paradossalmente la funzione assegnatagli dalla Costituzione.

 Questa situazione è stata recentemente stigmatizzata nell’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, (luglio 2024), aggiornato al 31 gennaio 2023, in cui si dipinge per l’Italia un quadro peggiore di quello ungherese, per il quale ci si è giustamente indignati in occasione delle detenzioni di Ilaria Salis. In Ungheria il tasso di sovraffollamento è del 111,5 per cento!

 Per una giustizia che non assomigli alla vendetta

Emerge in tutta la sua forza la necessità improcrastinabile di dare sempre maggiore spazio alle pene alternative al carcere. È dimostrato che il detenuto a cui viene concessa una misura alternativa al carcere ha una recidività minore rispetto a chi sconta la propria pena all’interno di una cella.

 Nello specifico, la recidiva, trascorsi sette anni dalla conclusione della pena, si colloca intorno al 19% in caso di pena alternativa, mentre raggiunge il 68,4% quando la stessa viene eseguita in carcere (ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria).

 Da dove emerge che una radicale riforma del nostro sistema carcerario non è solo importante per garantire il rispetto delle persone dei detenuti e aprire loro la speranza di un futuro, ma anche per la nostra società, che dovrebbe essere interessata non a una giustizia punitiva, molto simile alla pura e semplice vendetta, ma al recupero di soggetti che non riproducano indefinitamente i loro comportamenti criminali.

Il punto è che una simile trasformazione richiede l’attenzione e il coinvolgimento di tanti onesti cittadini che del sistema carcerario conoscono a stento l’esistenza e che non sanno, né vogliono sapere nulla dei problemi di coloro che vi sono rinchiusi. Molti di loro non provano, come l’on. Delmastro, un’«intima gioia», ma semplicemente sono del tutto indifferenti a ciò che accade all’interno delle mura dei penitenziari.  Possiamo solo sperare che la vicenda di quello di Trapani porti qualcuna di queste brave persone a riflettere sul fatto che i detenuti, oltre che criminali, sono prima di tutto delle persone. E a fare lo sforzo di vedere, oltre i vetri oscurati, i volti degli uomini e delle donne che stanno dietro di essi.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu

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IL RESPIRO DEL VENTO


 Il telefono del Centro Monte Adone, nel cuore dell’Appennino emiliano, squilla quasi trenta volte al giorno. Spesso a rispondere è Mirca, che l’ha fondato nel 1989 insieme al marito Rudi, ma alzano la cornetta anche la figlia Elisa e i tanti volontari che da anni fanno parte della «famiglia salvanimali». 

Le emergenze sono le più diverse: un fenicottero avvistato in strada, un procione tenuto come animale da compagnia, un lupo ferito da soccorrere, un esemplare esotico maltrattato. 

È il caso di Kuma e Kora, due cuccioli di leone sfruttati dal circo, o dello scimpanzé Oliver, talmente abituato agli umani da non riconoscerei suoi simili. Ma anche del lupo Navarre, salvato da Elisa con un’eccezionale respirazione bocca-muso, e delle tante altre specie ospitate dalla struttura. 

Ogni intervento è una sfida: recuperare, soccorrere, prendersi cura degli ospiti senza cadere nella tentazione di umanizzarli, e poi imparare a dire addio, spesso per restituirli al bosco, talvolta perché nessuna terapia è servita. 

Questo libro è il punto di incontro, diverso e possibile, tra il mondo animale e quello umano: un incontro improntato alla convivenza non invasiva, al rispetto reciproco e all’amore, nella consapevolezza che la dignità di un essere vivente non può piegarsi ai nostri desideri o stare chiusa in gabbia. Ma è anche una richiesta di ascolto verso le esigenze di chi non ha la parola, ma ha ugualmente diritto a vivere libero secondo la propria natura

 

Elisa Berti ha tredici anni quando i genitori, Mirca e Rudi, decidono di lasciare Bologna per fondare un centro recupero a Sasso Marconi (BO), per il soccorso, la cura e la riabilitazione degli animali selvatici. Ben presto il Centro si apre anche agli animali esotici sequestrati (leoni, scimpanzé, pappagalli...), che ospita in via permanente. Elisa è stata testimone e parte attiva del progetto, facendo proprio il sogno dei genitori. In oltre trentacinque anni a fianco della famiglia e dei volontari, si è specializzata nella riabilitazione e nel rilascio degli animali selvatici, sviluppando un particolare interesse per i lupi. Ha contribuito alla stesura di protocolli e linee guida per la gestione della fauna selvatica, ed è stata relatrice a incontri e corsi di formazione per forze dell’ordine, veterinari e operatori del settore. È direttrice del Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica Monte Adone.

Elisa Berti - Come il respiro del vento - Una storia vera - Ed. Sonzogno
pp. 224, 1° ed 2024

martedì 19 novembre 2024

COMPETENZE DIGITALI

 


Le competenze digitali dei giovani in ICILS 2023



L’indagine ICILS (International Computer and Information Literacy Study) è uno studio internazionale promosso dalla IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) giunto alla terza edizione, dopo quelle del 2013 e del 2018. Il focus dell’indagine è posto sulle competenze digitali degli studenti del terzo anno della scuola secondaria di primo grado. Vediamo quali sono gli aspetti che hanno caratterizzato l’edizione 2023.

 Dal 2013, anno in cui si è svolta la prima edizione di ICILS, sono oltre 30 i Paesi che hanno partecipato all’indagine, volta a raccogliere informazioni sul possesso da parte degli studenti di quelle competenze digitali e informatiche che li rendono capaci di partecipare attivamente ed efficacemente alla vita sociale.

La presentazione dei risultati di IEA ICILS 2023

Il 12 novembre 2024 sono stati presentati i risultati dell’Indagine ICILS 2023.

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VEDI I RISULTATI DI ICILS 2023

Cosa misura ICILS 2023

Lo scopo della rilevazione 2023 è stato valutare le capacità dei ragazzi di utilizzare le tecnologie in modo produttivo, andando oltre un uso di base, in relazione a scopi diversi e alle opportunità crescenti che la cittadinanza digitale apre ai giovani.

Gli aspetti della competenza informatica misurati sono in particolare due:

  • Literacy digitale (CIL – Computer and information Literacy), relativa alla capacità degli studenti di utilizzare il computer, di raccogliere e di produrre informazioni, di comunicare attraverso le nuove tecnologie
  • Pensiero computazionale (CT – Computational Thinking), circa la capacità dei ragazzi di utilizzare i processi mentali per definire le diverse operazioni necessarie per risolvere un problema su un computer o su un dispositivo digitale

La competenza digitale è una competenza chiave, strettamente legata alle altre competenze con le quali interagisce per creare un cittadino partecipe e responsabile: competenze linguistiche, scientifiche, civiche, per citarne solo alcune.

L’utilità dei dati

I risultati di questa indagine sono pertanto una fonte preziosa di informazioni per indirizzare le scelte dei diversi sistemi formativi nazionali che vi partecipano verso un miglioramento costante. Permettono infatti di:

  • monitorare il progresso dei Paesi verso l’Obiettivo 4 stabilito dall’UNESCO di garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti
  • identificare i fattori che influenzano la dimestichezza con le tecnologie informatiche, come il contesto familiare e il clima scolastico e di classe
  • comparare realtà nazionali differenti per individuare relazioni tra queste competenze degli studenti e la struttura del sistema educativo

I dati sono raccolti attraverso più strumenti:

  • Prova di Competenze Digitali e Informative per gli studenti
  • Questionario Studenti, per valutare il contesto socioeconomico degli alunni e il loro utilizzo di tecnologie informatiche
  • Questionario Insegnanti, per esplorare l’utilizzo del computer nella didattica, a cura del Dirigente Scolastico
  • Questionario Animatore Digitale, per informazioni sull’infrastruttura informatica e l’assistenza a disposizione degli insegnanti
  • Questionario Dirigente Scolastico, per osservare le caratteristiche generali della scuola e gli orientamenti relativi all’uso delle tecnologie

ICILS permette quindi di raccogliere e mettere a distinzione delle scuole un patrimonio di dati ricco e articolato, indispensabile per non disattendere la responsabilità di accompagnare tutti gli studenti nell’acquisizione di questo repertorio di competenze fondamentale per il loro presente e per il loro futuro.

Approfondimenti

 

GENTILEZZZA CERCASI


 Il mondo non è una biglia blu mare che danza secondo le leggi della fisica alla periferia di una delle infinite galassie dell'universo. 

 

- di Alessandro D’Avenia

 Mondo è la relazione che ciascuno stringe: con sé, con le cose e le persone. Ogni persona è e fa un mondo mai visto, da cui dipende il corso della storia umana, determinata dalla libertà più che dalla fisica. 

Perché mondo? Traduzione del greco kosmos (ordine/bellezza), armonia di elementi connessi tra loro; l'opposto è immondo (brutto/decomposto) come l'immondizia. E poiché salvo significava in origine unito, collegato, integro, allora il mondo è salvo quando i legami che lo costituiscono sono così forti che l'entropia (morte) non riesce a spezzarli. 

Ma per essere così saldi di che cosa devono esser fatti questi legami con sé stessi, con le cose e con le persone? Se per esempio in una catastrofe mondiale sopravvivesse solo la classe in cui sto facendo lezione, quello sarebbe il mondo intero. 

Che mondo sarebbe? Che cosa le permetterebbe di salvarsi e fare un mondo nuovo? 

La gentilezza, che non è il morbido sentimental-moralismo di facciata a cui è spesso ridotta oggi. Ho partecipato al Festival della Gentilezza, organizzato dal Corriere la scorsa settimana, nel tentativo di rianimare questa parola. Che cosa ho scoperto? 

 La gentilezza nella cultura individualistica in cui siamo immersi è spesso una finzione, una forma seduttiva per avere più potere. 

Siamo gentili fino a quando qualcuno non calpesta l'alluce al nostro ego, tolleranti fino a prova contraria. Quanti «gentili» in scena, dietro le quinte sono feroci, perché la loro gentilezza è manipolazione, seduzione, paternalismo, affettazione, posa, strategia... per far abbassare le difese altrui e ottenere più controllo. La gentilezza è l'opposto. Gentile viene infatti dall'antica radice del «dare vita» presente in: generoso, geniale, generare, genesi, ingegno... Anche gente viene dalla stessa radice, gens era infatti, a Roma, il clan allargato con il medesimo capostipite, e gentile era quindi chi apparteneva a quella stirpe (Cesare era della famiglia dei Cesari, della gens Iulia, e si chiamava Caio: Caio Giulio Cesare). 

Nel Medioevo, grazie soprattutto ad alcuni poeti, si spezza l'identificazione gentilezza-sangue, cortesia-corte, e la gentilezza diventa qualità dello spirito, cioè del cuore. I poeti dello Stilnovo (tra cui il giovane Dante) dicono che la gentilezza è la potenza umana che si attiva quando si è «generati» dall'amore. 

La donna gentile rende gentile l'innamorato, perché solo chi è già gentile rende tale chi lo è ancora solo in potenza. 

Gentilezza è quindi l'effetto dell'amore che mi conferma, gratuitamente, che sono degno di esistere, sono voluto, così come sono, nella vita. È infatti il «saluto» (stessa radice di salute e salvezza) fisico e metafisico di Beatrice a Dante a farlo entrare in una Vita nuova (titolo della sua prima opera). 

La gentilezza non è più nobiltà di sangue, ma di cuore. Esser nobile per questi poeti non è questione di «classe», ma di nascere a una vita che è il progressivo compimento della propria natura nel suo darsi unico e irripetibile. 

Il gentile viene generato e può quindi generare. Facciamo un salto nella modernità, sempre dove la lingua è madre, cioè dà vita, come accade per lo più nella poesia. Leopardi definisce «gentile» un fiore, non per effetto di un'emozione effimera ma di una profonda verità: gentile è la ginestra che fiorisce nel deserto di lava del Vesuvio. Per il poeta la gentilezza del fiore è l'eroica fedeltà a se stesso in favore dell'altro, compimento della propria originalità (origine). 

La ginestra infatti mostra all'uomo, illuso di esser padrone della vita con le sue «magnifiche sorti e progressive», dove alberga la sua reale grandezza: «tu siedi, o fior gentile, e quasi/ i danni altrui commiserando, al cielo/ di dolcissimo odor mandi un profumo,/ che il deserto consola». 

La gentilezza-ginestra è fedele a sé e agli altri, e non nonostante il deserto, ma proprio nel e per il deserto, dove ha le sue radici e il suo compito: ama, dà se stessa, profuma e consola. Questa gentilezza crea la famiglia umana, che Leopardi chiama «social catena» e basa sulla lotta degli uomini contro il loro nemico comune, la natura con la sua indifferenza. Ma neanche ciò basta, perché non tutti sono capaci di questo generoso eroismo. 

Dove attingere allora l'energia della gentilezza? L'unica cosa che tutti gli uomini hanno veramente in comune è essere figli, questo significa che l'esperienza della filiazione, quel radicale sentirsi e sapersi voluti nella vita, è l'unica condizione che consente di essere poi riconoscenti alla vita, cioè pronti a creare altra vita. 

Chi appartiene diventa gentile, ed è poi quindi generoso, geniale, ingegnoso. È «da» e quindi «per». Oggi è eroso proprio il senso di filiazione, di appartenenza alla vita, di ri-generazione continua. Più che figli ci sentiamo orfani. Questo dipende dalla morte di Dio certificata da Nietzsche, Dio non fa più mondo, non è più la fonte dei legami. 

E infatti il filosofo proponeva una via, eroica e solitaria, simile alla ginestra leopardiana. Ma chi ci riesce? Per esempio: come può essere gentile (generativa) una scuola basata sul precariato, che fa sentire orfani sia docenti che studenti. Serve uno stilnovo di gentilezza che rinnovi cuori e strutture sulla base del senso di filiazione, di appartenenza: essere generati per generare. 

A dispetto di quanto si dica in giro, Dio ci manca, e per questo Chesterton a proposito di guerra diceva che sono solo due le vie per la pace: «Uno consiste nel rimedio buddista dell’eliminazione di tutti i desideri. L’altro nel rimedio cristiano di una comune religione». Non a caso è la rivelazione del Figlio, cioè la rivelazione di una relazione e non di una religione, proprio quello che ci apprestiamo a festeggiare con il Natale. 

Quando Cartesio mise a fondamento della realtà il suo «Penso quindi sono», ci obbligò a «pensarci» soli e a «farci» da soli (self-made), conquistando, consumando, sottomettendo. In guerra. Invece, come dice il filosofo Emmanuel Lévinas, tornando inconsapevolmente al «saluto» di Beatrice a Dante: «Prima del cogito viene il buongiorno», prima dell'io viene il tu, prima dell'individuo la relazione, l'io è un figlio. Infatti a differenza della certezza cartesiana, la verità è di carne, ha un volto, e per questo comporta rischi e incertezze, come accade in ogni relazione. 

Il gentile non teme di morire perché viene sempre ri-generato, non si esaurisce perché riceve sempre vita e nessuno gliela può togliere, anzi è lui che la dona. Per salvare il mondo il «Penso dunque sono» deve cedere il passo al ben più reale e appassionante «Mi pensi dunque sono» e «Ti penso dunque sono». Chi mi pensa? A chi penso? La somma delle risposte fanno quanto siamo «gentili». 

Solo così quella classe, sopravvissuta alla catastrofe, potrà essere un mondo nuovo. Salvo. Gentile.

Alzogliocchiversoilcielo

Corriere della Sera

 

 

SEI GRANDE



 "Sei grande”: in un libro del Papa lo sguardo speciale del Creatore sulle sue creature

Nel volume pubblicato da Libreria Editrice Vaticana e Elledici, col sottotitolo “La bellezza di essere speciali”, Francesco, attraverso le sintesi di documenti, discorsi e messaggi, descrive l’amore di Dio nei riguardi di donne e uomini invitandoli a dare una risposta. Monsignor Dario Viganò firma l’introduzione: siamo “custodi di un amore donatoci senza fideiussioni”

 

Vatican News

 Opera delle mani di Dio, l’uomo è quanto di più prezioso agli occhi del suo Creatore. Egli ci conosce ad uno ad uno, con il nostro nome e il nostro volto, che è unico. Il Padre ci vede a immagine di Gesù, suo Figlio, e con il suo amore ci aiuta ad assomigliare sempre più a Lui. Nel libro “Sei grande! La bellezza di essere unici e speciali” (Libreria Editrice Vaticana e Elledici) Papa Francesco, profondo conoscitore dell’animo umano, ci dona attraverso le sue parole un percorso capace di tracciare un identikit delle donne e degli uomini del nostro tempo. Ne scaturisce un ritratto umano che fa dire a noi e a chi ci circonda, “Sei grande!”, grande e unico come ti ha pensato Dio stesso. Il percorso, attraverso i discorsi, i documenti e i messaggi del Pontefice, si snoda in due parti distinte. Il primo “Sei prezioso”, traccia l’amore di Dio per l’uomo. Il secondo, “Vivi, ama, sogna”, invita all’azione una volta scoperto questo amore per noi.

Nell’introduzione al volume, monsignor Dario Edoardo Viganò, vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, scrive che siamo “Unici e speciali non perché eroi, ma perché siamo custodi di un amore che ci è stato donato senza chiedere fideiussioni o garanzia di rendimento”. Siamo unici, spiega, “perché a ciascuno di noi, in forma singolare, Dio ha affidato il suo cuore chiedendoci di testimoniarlo nelle strade della vita a ogni uomo e a ogni donna che incontriamo”. E aggiunge: “Un cuore, quello del Padre, che non ha paura del tradimento e del peccato, del fallimento e del rifiuto: è un amore infinito, che non conosce soste di stanchezza e spazi di rivendicazione. Tu sei per me prezioso: sono le parole che in ogni istante l’amore di Dio ci sussurra al cuore”.

Monsignor Viganò si sofferma anche sulla “necessità dello sguardo”, prima di un’analisi sulle “relazioni nel contesto digitale”. “Non temere allora e giócati la tua vita con la fiducia del figlio che ha la certezza che in ogni momento un padre e una madre sanno accogliere e asciugare le lacrime dell’errore nell’abbraccio di chi sa amare – è il suo incoraggiamento -. Non si tratta di immaginare un orizzonte edulcorato senza fatiche e peccati: ogni giorno ingaggiamo una lotta con l’orgoglio che ci abita, che ci chiede conto, attimo dopo attimo, nelle nostre relazioni. Possiamo trovare un aiuto nelle preghiere dei Salmi che, nella fatica di tutti i giorni e nelle pieghe delle relazioni che a volte si ammalano, sono parole che risuonano nella vita come un balsamo”.


 

BEATI I MITI

 


LA MITEZZA

 PER 

ANTICIPARE

 UN MONDO 

MIGLIORE


«La mitezza consiste nel lasciar essere l'altro quello che è».

È il contrario della protervia e della prepotenza.

Il mite non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. Ma la mitezza non è remissività: mentre il remissivo rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione, il mite invece rifiuta la distruttiva gara della vita per un profondo distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più, per mancanza di quella vanagloria che spinge gli uomini nella guerra di tutti contro tutti.

Il mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio verso chicchessia. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità. Ecco quel "potere su di sé" di cui abbiamo già sentito.

Il mite può essere configurato come l'anticipatore di un mondo migliore.

Egli non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata.

Amo le persone miti, perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantastica e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale».

 #NorbertoBobbio, Elogio della mitezza, 1994

lunedì 18 novembre 2024

AL DI LA' DELLA LEZIONE FRONTALE


 Oltre il 70% dei docenti continua con la lezione frontale. Solo il 10% punta sulla didattica aperta. 

Di redazione

La didattica frontale resta la metodologia d’insegnamento prevalente in Italia. È quanto emerge da un sondaggio nazionale condotto da Erickson, presentato al convegno “Didattiche.2024” a Rimini.

Lo studio, che ha coinvolto quasi 2.000 docenti di ogni ordine e grado, rivela che oltre il 70% degli insegnanti continua a utilizzare la lezione frontale nella maggior parte delle ore di insegnamento.

La didattica aperta, che punta alla personalizzazione dell’apprendimento valorizzando le differenze, è invece poco diffusa: solo il 13% del campione la utilizza quotidianamente, mentre il 21% dichiara di non conoscerla.

Risultati simili per la didattica in contesti reali, usata con frequenza solo dal 12% degli insegnanti.

 Positivo, invece, il dato sull’utilizzo della tecnologia in classe: un docente su due dichiara di integrarla almeno in buona parte delle lezioni, in linea con gli investimenti governativi.

 Buona anche la diffusione di peer tutoring e didattica laboratoriale, utilizzate frequentemente da circa la metà degli insegnanti. Il sondaggio evidenzia però forti differenze tra gli ordini scolastici: nelle scuole secondarie di primo e secondo grado si fa ancora largo uso di metodi tradizionali, come la lezione frontale e lo studio individuale sui libri di testo.

L’analisi dei trend mostra un calo delle metodologie didattiche attive con l’aumentare del grado scolastico.

Lo stesso vale per la co-docenza inclusiva, praticata quotidianamente solo dal 17% del campione, con una netta diminuzione nelle scuole secondarie.

Orizzonte Scuola

 

IL DIO DEI NOSTRI PADRI

 

IL PIU GRANDE ROMANZO

 DELLA STORIA

Dopo averci condotto per mano lungo la storia millenaria dell’Impero romano e aver mostrato come sia ancora viva e presente nei nostri giorni, Cazzullo invita il lettore in un entusiasmante viaggio nella Bibbia, facendoci vedere che è il più grande romanzo che sia mai stato scritto.

Fino al tempo dei nostri nonni, gli uomini erano convinti di vivere sotto l’occhio di Dio, e la sua esistenza era certa come quella del sole che sorge e tramonta. Oggi abbiamo smesso di crederci, o anche solo di pensarci. E la Bibbia nessuno la legge più.

 Invece la Bibbia è un libro meraviglioso. Che si può leggere anche come un grande romanzo. L’autobiografia di Dio. Aldo Cazzullo fa con la Bibbia quel che aveva fatto con l’Inferno di Dante: ci racconta la storia, in modo chiaro e comprensibile a tutti, con continui riferimenti all’attualità, alla nostra vita, passando attraverso le vicende della storia e i capolavori dell’arte. 

La creazione, Adamo ed Eva, la cacciata dall’Eden, Caino e Abele, Noè e il diluvio. La storia di Giacobbe che lottò con Dio e di Giuseppe che svelò i sogni del faraone. Mosè, le piaghe d’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, i dieci comandamenti. 

E poi la conquista della terra promessa, da Giosuè che espugna Gerico a Davide che taglia la testa di Golia, da Sansone, l’eroe fortissimo ma tradito dal suo amore, a Salomone che innalza il tempio. 

Cazzullo rievoca storie dal fascino millenario. E racconta le grandi donne della Bibbia da Giuditta a Ester; l’angelo che salva Tobia e il diavolo che tormenta Giobbe; l’amore del cantico dei cantici e la disillusione dell’Ecclesiaste (“tutto è vanità”). 

Sino alla grande speranza dell’avvento di un messia che viene a salvare l’uomo e a farci risorgere a vita eterna, che per i cristiani è Gesù.

 Dettagli

Autore:  Aldo Cazzullo

Editore: HarperCollins Italia

Anno edizione: 2024

In commercio dal: 24 settembre 2024



 

domenica 17 novembre 2024

IL MALE DELLA SCUOLA


 Il male della scuola? 

Essere 

“un mondo a parte”


 La scuola non è ancora riuscita a collegare ciò che si impara fra le sue mura con il mondo fuori. Anzi, pretende di lasciare fuori dalla scuola pezzi di vita, per esempio gli smartphone. È lecito immaginare che alcuni ragazzi facciano fatica a sostenere questa schizofrenia temporale che gli chiediamo di vivere? Che soffrono di più questa distanza tra il dentro e il fuori? Una rilettura dell'abbandono scolastico che non si limita a dare la colpa ai ragazzi che se ne vanno

 

-di Giuseppe Moscato

 I giovani e la scuola sono tra gli argomenti meno affrontati dai media mainstream, in particolare si parla pochissimo di “drop-out”, ossia dei ragazzi che abbandonano la scuola prima di concludere gli studi: un fenomeno in realtà piuttosto diffuso.

Su VITA, nella veste di genitore di un ragazzo con sindrome di Down, ho già riflettuto sulla “pratica dell’inclusione”, ovvero sull’efficacia dell’apprendimento che si realizza attraverso l’esperienza concreta e condivisa. Questo tipo di approccio non riguarda solo le persone con disabilità intellettiva, ma anche moltissime ragazze e ragazzi che semplicemente fanno fatica a stare sui banchi di scuola.

Partiamo da un presupposto: la scuola non è scuola se ciò che si impara dentro le sue mura non è collegato con il mondo che è fuori.

 Il sogno degli anni Ottanta

All’inizio della mia carriera come docente della scuola primaria, verso la fine degli anni Ottanta, scoprii l’esistenza di tutto un filone di sperimentazione didattica basata su modelli collaborativi, un filone nato in Italia attorno agli anni Sessanta e che conta nomi prestigiosi come don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Loris Malaguzzi e prima ancora Maria Montessori. In quegli anni, durante l’esperienza di ricerca con il professor Roberto Maragliano dell’allora Laboratorio Tecnologie Audiovisive dell’Università Roma 3, insegnavo come maestro nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma e il mantra era proprio questo: i contenuti della scuola devono essere trattati attraverso una didattica che consenta di relazionarsi col mondo di fuori, per poterci stare dentro. All’epoca le tecnologie digitali iniziavano a entrare tra le nostre abitudini quotidiane ed eravamo convinti che anche la scuola doveva rinnovarsi.

La scuola non è scuola se ciò che si impara dentro le sue mura non è collegato con il mondo che è fuori. Ancora oggi non siamo riusciti a colmare quella distanza

Nonostante gli sforzi di tutto un movimento di docenti della scuola e delle università, ancora oggi non siamo riusciti a colmare quella distanza tra la scuola e il mondo che la circonda. Ci sono studenti che soffrono in modo particolare questa distanza, al punto tale da ritenere inutile frequentare la scuola: ecco il drop-out.

 I drop out e l’insostenibilità della “doppia vita”

Questi studenti spesso finiscono nel “paese dei dimenticati”, catalogati nel macro-contenitore della “dispersione scolastica”. Spesso sono ragazzi che non essendo stati accompagnati in modo adeguato dalla famiglia, vivono la scuola come mondo “altro” dal loro quotidiano. In molti casi la scuola definisce inadeguati questi ragazzi, spesso addossando le colpe ai loro genitori. Ed è qui a mio parere che il ragionamento deve prendere un’altra piega: invece di cercare la colpa dovremmo cercare la causa che alla fine dei conti condanna questi ragazzi.

Fra i giovani, specialmente nelle periferie delle grandi città, compaiono ogni giorno nuove manifestazioni di insofferenza che non trovano ancora un nome nel mare delle neuroscienze. Ragazzi e ragazze che non hanno riferimenti, che ricercano comunque e come possono un’identità dentro e fuori la scuola. Tra le varie problematiche comportamentali un esempio ormai diffuso è il disturbo oppositivo provocatorio, che si riferisce a coloro che si oppongono a quasi tutte le attività proposte dagli insegnanti. Ma non ci sono solo comportamenti definiti aggressivi: ci sono anche ragazzi, specialmente tra gli adolescenti, che non parlano mai, si isolano e per questo sono anche soggetti a fenomeni di bullismo. Fino a qualche tempo fa i ragazzi o le ragazze per cui veniva richiesto un insegnante di sostegno avevano una diagnosi, ma oggi le segnalazioni e le richieste aumentano anche in relazione a casi difficili, casi che spesso hanno a che fare con un comportamento che non si allinea con quello della maggior parte degli alunni della classe. Davvero non c’è nulla da fare per questi ragazzi?

Ci sono studenti che soffrono in modo particolare questa distanza, al punto tale da ritenere inutile frequentare la scuola: ecco il drop-out. Davvero non c’è nulla da fare?

Quanto può essere vera la famosa frase di don Milani quando definisce la scuola come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati»? Ma poi sono davvero malati questi studenti?

 La responsabilità della didattica

Al di là degli studi che vengono fatti per identificare le cause di tali comportamenti, vorrei porre l’attenzione innanzitutto sui modelli didattici proposti e che almeno in parte potrebbero avere un effetto benefico su tutti i ragazzi, sia per quelli definiti bravi, sia per quelli definiti meno bravi.

Cosa differenzia la didattica moderna da quella del passato? Detta in modo semplice, nel passato l’apprendimento si sviluppa quasi esclusivamente attraverso azioni esecutive e ripetitive. C’è un’immagine sintetizza quel modello: l’insegnante in cattedra che spiega, indica gli esercizi da fare e gli studenti che possono intervenire solo se interpellati (le interrogazioni). Nella didattica moderna al centro della classe sono gli studenti che in piccoli gruppi studiano e ricercano secondo modalità collaborative, soluzioni ai problemi (problem solving) che il docente pone loro. Lavorare per piccoli gruppi vuol dire anche mettere insieme studenti e studentesse con caratteristiche e capacità di apprendimento diverse: in questo modo non solo si impara a studiare insieme, ma si mette in pratica un atteggiamento fortemente inclusivo.

Nel nostro paese però la scuola è per lo più ancorata al passato e la conferma più evidente l’abbiamo nelle strutture edilizie fatiscenti: scuole vecchie per una didattica vecchia. Avere davanti i nostri occhi lo stesso scenario, lo stesso ambiente, la stessa aula di cento anni fa ci fa credere che l’unica immutabile realtà della scuola sia quella. Moltissimi dei nostri figli frequentano nel 2024 una scuola di cento anni fa. Come è possibile che un ragazzo o una ragazza possano vivano quotidianamente in due dimensioni temporali distinte? È lecito supporre che non tutti gli studenti riescano a governare agevolmente questa doppia dimensione?

 C’è un altro elemento che complica le cose: la socializzazione. Se da un lato la scuola rifiuta la tecnologia o al massimo la ripropone secondo il vecchio modello (la Lim, percepita come uno strumento nelle mani dell’insegnante), dall’altro i ragazzi comunicano quotidianamente a distanza attraverso gli smartphone, usando per un verso un linguaggio povero, essenziale (ad esempio con la messaggistica), ma per altri versi molto complesso grazie ad altre forme comunicative come il video, l’audio e l’Intelligenza Artificiale. Ma se non c’è cultura e conoscenza si diventa vittime di un flusso incontrollato di informazioni: sono la conoscenza e la cultura che possono invece aiutarci a cercare il bandolo della matassa. Non si tratta quindi di “vietare” uno strumento come lo smartphone, ma di imparare a gestirlo. Moltissime informazioni oggi passano da Internet e la scuola non può esimersi dall’usare strumenti che permettono di attingervi, piuttosto deve adottare nuove strategie per elaborarle.

 I dati che mancano

Dei tanti studi statistici che vengono fatti e portati all’attenzione pubblica, mancano numeri aggiornati dei ragazzi che abbandonano la scuola. Mancano i numeri dei risultati ottenuti nelle poche scuole dove invece viene praticata una didattica moderna verso le scuole che sono ancorate ad una didattica tradizionale. Mancano a livello nazionale i numeri collocati nel tempo di studenti e studentesse con problemi che usufruiscono di un insegnante di sostegno e dell’evoluzione del loro percorso. La comunicazione di massa si occupa di altro. Domandarsi cosa fanno i più giovani non è considerato tema di interesse. I giovani non sono valorizzati e i più capaci, con le idee chiare, sono costretti ad andare fuori dall’Italia. Non mi stupisco se i più giovani hanno una bassa considerazione degli adulti, d’altra parte loro imparano dagli adulti: gli adulti per primi non “ascoltano” i più giovani. Fare autocritica non va più di moda, eppure l’autocritica è il passpartout per entrare in contatto con un mondo diverso da quello che conosciamo oggi.

 *Giuseppe Moscato è docente di scuola primaria, ex comandato dal 2005 al 2024 presso Indire

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