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sabato 2 novembre 2024

IL SUICIDIO DELLA DEMOCRAZIA


 ISRAELE METTE AL BANDO L'ONU

 




-         di Giuseppe Savagnone*

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Un voto che ignora le pressioni internazionali

Le logiche inesorabili del circo mediatico hanno concesso ben poca visibilità alla notizia che il 28 ottobre la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato con una maggioranza schiacciante – 92 voti favorevoli e 10 contrari – una legge che mette al bando l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Eppure, non si tratta di una decisione di poco conto.

Lo dimostrano, se non altro, le unanimi pressioni internazionali volte a scongiurarla. Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, in un briefing con la stampa, aveva dichiarato: «Abbiamo chiarito al governo israeliano che siamo profondamente preoccupati per questa proposta di legge e lo abbiamo invitato a non approvarla», sottolineando «il fondamentale ruolo svolto dall’agenzia delle Nazioni Unite nella distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza».

Poco prima, sul profilo X del ministro degli Esteri britannico, David Lammy, era apparso un appello a Israele affinché garantisse «che l’Unrwa possa continuare a lavorare per salvare vite umane a Gaza e in Cisgiordania».

E al governo di Tel Aviv era stata inviata una lettera di Canada, Australia, Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud e Regno Unito (notiamo di passaggio l’assenza dell’Italia), in cui si chiedeva di non bloccare gli «aiuti umanitari essenziali e salvavita» garantiti dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Tutto è stato inutile.

E questa volta – a sfatare la tesi corrente che il solo responsabile, in questa guerra, sia il premer Benjamin Netanyahu – i partiti di governo e quelli di opposizione sono stati compatti nel votare la legge.
La motivazione è l’accusa, nei confronti dell’Agenzia dell’ONU, di essere complice di Hamas. Un’accusa gravissima, già mossa all’indomani dell’attacco del 7 ottobre e che – anche se riguardava in realtà solo 9 dipendenti sui 13.000 dell’Unrwa, peraltro subito licenziati, in via precauzionale – , aveva determinato l’immediata sospensione dei finanziamenti all’Agenzia da parte dei governi occidentali.

Ma, in aprile, il rapporto di una Commissione internazionale indipendente aveva preso atto che Israele non era stato in grado di produrre alcuna prova delle sue accuse e, uno dopo l’altro, gli Stati che avevano interrotto la loro collaborazione l’avevano ripresa.
Da parte del governo israeliano invece, è rimasta ed è cresciuta l’ostilità nei confronti sia dell’Unrwa, sia dell’ONU nel suo insieme – definita da Netanyahu, nella sua recente visita all’Assemblea delle Nazioni Unite, una «palude antisemita» -, fino al punto di bollare il suo segretario generale, Guterres, come «persona non grata», impedendogli così un eventuale ingresso in Israele.

Il voto della Knesset giunge al culmine di questo esasperato crescendo, che mette lo Stato ebraico praticamente al di fuori di ogni dialogo ragionevole con l’organizzazione rappresentativa del resto del mondo. E soprattutto come abbiamo visto – essa avrà conseguenze devastanti per la popolazione palestinese.

Un apparente paradosso

Né rassicura il fatto che Netanyahu abbia detto, di fronte alle critiche, che il suo governo è «pronto» a fornire aiuti, visto che è proprio per ordine suo che da diversi mesi l’esercito israeliano ha effettuato il blocco dei rifornimenti di generi alimentari e di altri beni essenziali alla popolazione di Gaza.

Un blocco che anche il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro della difesa Lloyd Austin avevano deplorato, in una lettera inviata proprio pochi giorni fa, il 15 ottobre, alle autorità dello Stato ebraico.

«Ci sono dei cambiamenti che vogliamo vedere immediatamente» si diceva nella lettera, «non entro trenta giorni». E per la prima volta si ventilava la possibilità che, in mancanza di una svolta, venga rimessa in discussione la fornitura di armi americane a Israele.

Il cambiamento ora c’è stato, ma in senso opposto alla richiesta. Confermando un atteggiamento, da parte israeliana, che ha ormai da tempo assunto i toni di una sfida aperta al suo principale alleato, le cui pressioni sono state finora sistematicamente deluse e contraddette, senza peraltro mai, finora, a far vacillare il suo decisivo appoggio militare e politico .

A spiegare questo paradosso non sembra possa essere l’orientamento dell’opinione pubblica americana, scossa anch’essa, soprattutto nella fascia giovanile, dalla violenza della reazione israeliana.

Nel 2023 da un sondaggio Gallup risultava che il 64% dei giovani americani aveva un’opinione positiva di Israele; nel 2024 lo stesso sondaggio rilevava che quegli stessi giovani avevano cambiato idea e che solo il 38% lo apprezzava.
Si è ipotizzato un ruolo decisivo delle potenti lobbies ebraiche, soprattutto alla viglia delle imminenti elezioni presidenziali.

Per contro, però, la candidata democratica alla Casa Bianca, Kamala Harris, ha indebolito la sua posizione alcuni Stati-chiave, dove la minoranza di origine araba si apertamente dissociata, fin dalle primarie, dalla politica di fatto filo-israeliana della presidenza democratica.

Secondo la grande maggioranza degli opinionisti, a spiegare l’infinita pazienza del presidente Biden di fronte ai continui schiaffi ricevuti dal suo omologo di Tel Aviv è, da un lato, la necessità di sostenere il solo regime democratico del Medio Oriente, dall’altro l’inconfessato disegno di lasciar fare a Israele il “lavoro sporco” contro gruppi terroristici, come Hamas ed Hezbollah, che anche gli Stati Uniti vogliono vedere distrutti, ma che possono essere colpiti solo con un costo di vite umane innocenti troppo alto per gli standard occidentali.

Da qui il comportamento oggettivamente ambiguo dell’amministrazione americana, che, mentre continua a esprimere «preoccupazione» per quanto accade a Gaza, non ha mai cessato di fornire a Israele le armi che lo rendono possibile.

Da qui anche l’appoggio della stampa e della maggior parte dei governi occidentali alla linea dello Stato ebraico, addebitando le numerose manifestazioni di protesta popolare alla rinascita dell’antisemitismo.

Democrazia e violenza

In questo senso va un editoriale pubblicato sul «Corriere della sera» del 31 ottobre e firmato da uno dei suoi più autorevoli opinionisti, lo storico Ernesto Galli della Loggia.

La domanda da cui egli parte pone, giustamente, una questione di principio: «Può un Paese democratico, com’è senza dubbio Israele, e sia pure nel corso di una guerra, usare la violenza in modi che spesso appaiono smisurati e perciò crudeli? Un regime democratico non dovrebbe porsi dei limiti per non correre il rischio di contraddire i suoi stessi principi?».

La risposta dell’autore è che, «se la storia conta qualcosa, ebbene allora la storia della democrazia — cioè la democrazia reale, non quella che a noi piace immaginare — mostra che essa ha spesso e volentieri (per non dire quasi sempre) praticato la violenza».

E, in questa violenza, «il maggior numero dei morti non si è verificato tra i soldati ma tra i civili. Sì, tra i civili: precisamente come oggi sta accadendo a Gaza e dintorni, se è permesso ricordarlo. Gli Alleati ebbero la meglio sulla Germania nazista bombardando tutto quello che potevano bombardare, polverizzando scuole e ospedali senza preoccuparsi in alcun modo di chi ci stava dentro. Gli ordigni al fosforo piovuti su Amburgo o Dresda ammazzarono nel modo più atroce donne, vecchi e bambini, non schiere di Waffen SS pronte al combattimento. E si trattò, come sappiamo, solo di una blanda anticipazione di quello che sarebbe accaduto a Hiroshima e Nagasaki».

Dunque, alle folle che in tutto il mondo oggi protestano contro Israele per la violazione del diritto internazionale bisognerebbe spiegare, secondo Galli, che «le contese umane, lo scontro dei valori , le emozioni degli individui e dei popoli — tutto ciò che muove la politica e di cui allo stesso tempo la violenza si alimenta — non sopportano oltre una certa misura di essere racchiuse nella definizione formale e astratta delle fattispecie giuridiche» e che «a decidere è chiamato il nostro convincimento circa quello che in una determinata situazione l’insieme delle circostanze impone che “si debba” fare.

La massima espressione della politica sta per l’appunto nell’assumersi questa responsabilità di decidere e nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte (…). Affidando il giudizio ultimo su una tale decisione e sulle sue conseguenze non a un tribunale, ma solo alla storia». Le proteste di piazza contro lo Stato ebraico non tengono conto di questa problematicità, credono di «conoscere la risposta giusta e non esitano a gridarla ai quattro venti».

Il suicidio della democrazia

Il punto debole di questa raffinata e a prima vista convincente assoluzione della democrazia di Israele è che essa ha una portata ben più vasta del caso a cui Galli la applica, perché l’ “etica della situazione”, secondo cui nessuno, se non la storia, avrebbe il diritto di giudicare le violenze dello Stato ebraico, potrebbe valere per tutte le scelte politiche ed essere invocata anche dai responsabili di regimi non democratici. In base a questo criterio, anche Putin poteva chiedere di essere giudicato dalla storia e non dalla Corte penale internazionale, che ora è chiamata a emettere la sua sentenza anche su Netanyahu.

Ma in questo modo, verrebbe meno anche il motivo per ritenere la democrazia una formula politica preferibile alle altre, perché più rispettosa della dignità e dei diritti degli esseri umani.

È vero, la storia ci impedisce di illuderci. E, agli esempi che l’autore adduce per il passato – le bombe su Dresda, Hiroshima e Nagasaki – , se ne potrebbero aggiungere molti altri riguardanti il presente, a cominciare dalle ingiustizie sociali che le nostre democrazie non riescono ad eliminare.

Ma essi ne dimostrano solo l’imperfezione e ne spiegano la debolezza, oggi più evidente che mai. Assumerli come giustificazione di ciò che sta facendo Israele, per dimostrare che le proteste contro la sua disumanità è solo frutto di ingenuità, significa adottare come modello della democrazia il suo lato più oscuro, quello da cui dovrebbe liberarsi, e a cui deve contrapporsi con tutte le sue forze, se non si vuole suicidare.

*Scrittore ed editorialista

Pastorale della Cultura - Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu

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FARE MEMORIA

Novembre è il mese dei morti, non della morte. 

Ci educa a fare memoria, ci chiede di ripercorrere la trama della nostra vita a partire dalle relazioni e dagli affetti. Coloro che non ci sono più, ci sono stati e, soprattutto, ci sono stati per noi. Anche la nostalgia che nasce dalla loro assenza ci ricorda che ci sono stati, hanno fatto parte della nostra vita. Forse, non andremo più a trovare i nostri morti nei cimiteri, ma dovremo fare della memoria il luogo del nuovo culto dei morti.


 di Marinella Perroni

Biblista


Nell’immaginario collettivo, novembre è il mese dei morti. Compaiono lumini rossi nei supermercati, le zone intorno ai cimiteri si congestionano di traffico, venditori più o meno autorizzati si improvvisano fiorai.

Ma, forse, bisognerebbe ormai usare i verbi all’imperfetto perché, sia pure lentamente e in particolare nelle grandi città, il culto dei morti ha uno spazio nelle nostre vite sempre più ridotto. E, ci dicono, sarà sempre più così per le generazioni successive, per le quali sembra già che i cimiteri non esistano: da diverso tempo, ormai, sociologi e teologi insistono sul fatto che il nostro mondo moderno ha progressivamente preso le distanze dalla morte. Eppure, forse anche perché per molti di noi l’età avanza e perché tutti oggi conosciamo molta gente, la morte ci incalza, la sua impudente prepotenza a volte ci travolge. L’abbiamo “esternalizzata”, ospedalizzata — è vero — ma non è raro che siamo costretti a guardare alla vita a partire dalla morte. “Sorella morte”, sì, ma non per questo meno impegnativa, a volte inattesa, troppo spesso ingiusta. 

In molti modi le religioni hanno cercato di spiegare, lungo la loro storia spesso millenaria, il possibile rapporto tra la morte e la divinità. Un rapporto molto diversificato perché, tra l’altro, fortemente connesso con due fattori decisivi: da una parte, l’aspettativa di vita e dall’altra, ancora più importante, il riconoscimento dato alla persona umana, spesso riservato anche nella morte solo a ricchi e potenti. Dal canto suo, la tradizione biblica ci lascia intravvedere che la morte è “scandalosa”, costituisce cioè un inciampo, un ostacolo nei confronti dell’idea di un Dio unico e, soprattutto, di un Dio benevolo. Non è un caso allora che i miti biblici della creazione, senza preoccuparsi troppo della logica, attribuiscano la colpa della morte agli umani e non a Dio, né può stupire che per Israele le anime non potessero avere dopo la morte nessun rapporto con Dio e vagassero nello Sheol, luogo di silenzio e di tenebra. «Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» esclama l’autore del libro della Sapienza (11,26). 

Sarà abbastanza tardi e solo in alcuni gruppi religiosi che si farà strada l’idea di una risurrezione, di una vita dopo la morte e sarà proprio da qui che scaturirà la fede dei discepoli del profeta galileo che lo riconosceranno come il Risorto, il primo, la primizia di quanto avverrà per ogni uomo e ogni donna di ogni tempo. «Eliminerà la morte per sempre», aveva profetizzato Isaia (25,8) e il Nuovo Testamento si concluderà con la visione della «tenda di Dio con gli uomini» in cui Egli «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,3-4). Gesù lo aveva affermato con forza di fronte all’incapacità dei sadducei di credere nella resurrezione che il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe, cioè il Dio di Israele, «Non è il Dio dei morti, ma dei viventi!» (Matteo 22,32), includendo tra i viventi anche coloro che risusciteranno nell’ultimo giorno. 

Tutta la storia del pensiero umano religioso o no, d’altra parte, è un serrato dialogo con la morte, rabbioso o pacato poco importa. E non può essere che così. 

Novembre, però, è il mese dei morti, non della morte. Ci educa a fare memoria, ci chiede di ripercorrere la trama della nostra vita a partire dalle relazioni e dagli affetti. Coloro che non ci sono più, ci sono stati e, soprattutto, ci sono stati per noi. Anche la nostalgia che nasce dalla loro assenza ci ricorda che ci sono stati, hanno fatto parte della nostra vita. Forse, non andremo più a trovare i nostri morti nei cimiteri, ma dovremo fare della memoria il luogo del nuovo culto dei morti. Dovremo imparare a curarla, anzi, anche a socializzarla. La Chiesa ci ha provato, a suo modo, ma le messe “offerte per l’anima di un defunto” di cui si dice a mezza voce il nome sono ben poca cosa. Dovremmo inventare occasioni, nei nostri luoghi di aggregazione, per elaborare insieme la memoria dei nostri morti. Luoghi in cui celebriamo la vita, non quella astratta, ma quella “nostra”. Perché la memoria dei nostri morti ci aiuta a rendere grazie per ciò che abbiamo avuto e a prendere sulle spalle i pesi gli uni degli altri per quanto, a volte, ci è stato tolto troppo presto. Ciascuno dei nostri morti è stato per noi, nella buona e nella cattiva sorte, presenza, appello, dono. 

In un piccolo libro ormai datato, un grande teologo gesuita tedesco del secolo scorso, Karl Rahner, proponeva brevi ma incisive meditazioni. Una aveva come titolo Dio dei miei morti. Quelli che ciascuno di noi ha amato in vita non possono essere imprigionati nel paese delle tenebre e dell’oblio né a loro può essere negato ogni rapporto con Dio. I nostri morti continuano a parlarci e a raccontarci storie, e quando facciamo memoria di loro ci parlano del “Signore amante della vita”.

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