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sabato 30 marzo 2024

PASQUA. IL SOFFIO DELLO SPIRITO

 


Pasqua da vivere 

nel soffio 

dello Spirito Santo



 - + Vincent Dollmann*

Preparazione in Chiesa all'effusione dello Spirito Santo


Se la Quaresima è caratterizzata dalla penitenza e dalla conversione per rinnovare il nostro attaccamento a Cristo, il tempo pasquale vuole aprirci alla gioia di vivere la sua vita risorta. La Pasqua è allora un tempo di approfondimento dell'azione dello Spirito Santo in noi. Questo Spirito è quello che Gesù stesso ha ricevuto al momento del suo battesimo per compiere fino in fondo la sua missione. Questo Spirito, frutto della morte e risurrezione di Gesù e portatore della vita di Dio, è stato donato agli apostoli perché lo trasmettessero a tutta l'umanità.

 Lo Spirito Santo è come il soffio della carità

 Il racconto degli Atti parla dello Spirito come di un vento violento. Questo vento non è solo un soffio che scuote la casa, ma trasforma i discepoli dal di dentro. Egli riempie tutta la casa, precisa il racconto degli Atti, e così stabilisce i discepoli in una nuova unità, segnata dai vincoli della carità. Così, più che un semplice sostegno esterno, lo Spirito rimane nella Chiesa e nel cuore di ogni battezzato, come in un tempio. I teologi dei primi secoli parlavano dello Spirito come dell'anima della Chiesa. È Lui che permette alla Chiesa di essere segno e mezzo del legame tra Dio e gli uomini, vincolo vivo di comunione.

 Lo Spirito Santo è come un fuoco ardente di carità

 A Pentecoste il libro degli Atti menziona un secondo segno, quello delle lingue di fuoco. Il soffio di Dio che trasforma il cuore dei discepoli arde come l'amore di Gesù stesso, un amore che ha salvato il mondo. Gesù aveva annunciato la sua morte e risurrezione, come fuoco gettato sulla terra (cfr Lc 12,49). I discepoli sarebbero rimasti arsi di questo amore per annunciare con ardore la risurrezione di Gesù. Accogliendo lo Spirito Santo al loro seguito, non ci sentiremo più orfani, ma saremo pieni di forza. Lo Spirito ci guiderà e ci assisterà in ogni luogo e in ogni momento. O meglio, è Gesù stesso che continuerà ad operare mediante lo Spirito Santo, come aveva promesso: «E io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

 Il Veni Creator, preghiera per il tempo pasquale

 Questa preghiera di invocazione allo Spirito Santo, attestata dal IX secolo, è prevista per i vespri di Pentecoste, così come per le celebrazioni della cresima e dell'ordinazione. Ci prepara ad accogliere lo Spirito Santo come Persona divina e a vivere secondo i suoi doni.

 

Vieni, Spirito Creativo,

visita le anime dei tuoi fedeli,

ricolmo di grazia dall'Alto,

i cuori che hai creato.

Tu che sei chiamato il Consigliere,

tu , dono del Dio altissimo,

fonte viva , fuoco, carità,

consacrazione invisibile .

Tu sei lo Spirito dai sette doni,

il dito della mano destra del Padre,

lo Spirito di verità promesso,

tu che ispiri le nostre parole.

Infiammaci con la tua luce,

riempi i nostri cuori del tuo amore,

rafforza sempre la tua forza

la debolezza del nostro corpo.

Scaccia il nemico, donaci senza indugio la tua pace,

sotto la tua guida e i tuoi consigli,

eviteremo qualsiasi errore.

Facci conoscere Dio Padre,

ci rivela il Figlio,

e tu, loro comune Spirito,

facci credere sempre in te. Amen

 

*+Vincent Dollmann, Arcivescovo di Cambrai, Assistente Ecclesiastico UMEC-WUCT


 

NON LO CERCATE TRA I MORTI

Auguri di 

Pasqua


AIMC 2024

 

-di P. Giuseppe Oddone*

La Pasqua ci porta il più gioioso annuncio della nostra fede: Gesù, il figlio di Dio fatto uomo in Maria, nato a Betlemme, crocifisso a Gerusalemme sotto Ponzio Pilato, è risorto da morte! Salito alla destra del Padre, ha portato per sempre la nostra umanità nel seno di Dio, nel mistero trinitario. Solo in Lui la nostra esistenza umana, limitata e passeggera, trova il suo significato, la sua meta; sentiamo vivo il desiderio di amarlo qui sulla terra in comunione con tanti fratelli nella Chiesa e di ricongiungerci a Lui oltre i confini della vita terrena.

Infatti, quanto noi compiamo nel tempo vale per l’eternità: in Gesù Risorto si fonde il temporale e l’eterno e tutta la nostra personale vicenda umana, anzi tutta la storia terrena, trova la sua sintesi in Lui. In questo anno 2024 segnato da atroci conflitti tra popoli, dal terrorismo e dalla morte di tanti innocenti, dobbiamo sperare e pregare perché questa festa torni a diventare la celebrazione della vita e della pace tra gli uomini. Gesù Risorto si è immolato per noi per riedificare nelle vicende della storia umanamente e perennemente l’uomo; oggi sentiamo davvero il bisogno di ricostruire la nostra società guardando a Lui.

La Pasqua, infatti, ci indica i valori ai quali dobbiamo costantemente fondare la vita dei singoli e dell’umanità intera. Prima di tutto la pace sia a livello personale che mondiale; poi la gioia nel cuore, perché solo Cristo Risorto ci svela il senso del nostro nascere, del nostro vivere, del nostro morire, del nostro risorgere, dato che nella vita, nella morte ed oltre la vita siamo del Signore. La Pasqua ci illumina sul senso del nostro soffrire, perché la sofferenza passa, ma l’aver sofferto con amore è eterno e Gesù Crocifisso e risorto ci mostra, per farsi riconoscere, le sue piaghe gloriose. Gesù Risorto ci invia per le strade del mondo in missione perché diffondiamo e testimoniamo il lieto annuncio che Egli vive in mezzo a noi e diventiamo messaggeri di fraternità e di concordia in questa nostra società che si sottrae e si allontana dalla purezza del Suo amore. Se confessiamo nella fede la sua Resurrezione Egli cancella i nostri peccati, ci riempie del soffio potente del suo Spirito, ci immerge nella nuova creazione, facendo di noi persone nuove.

La resurrezione di Gesù è un fatto reale, anche se non può essere dimostrato con le categorie storiche, perché rimane un mistero divino che supera la nostra intelligenza. Vi si accede soltanto con la fede, che tuttavia ha dei concreti riferimenti storici. La tomba di Cristo fu trovata vuota dalle donne e dai discepoli, e questo fu anche constatato dagli avversari di Gesù. Le prime testimonianze di fede che troviamo nei Vangeli sono semplicissime: “Il Crocifisso è risorto! Non è qui. Vi precede in Galilea!” (Mc. 16, 6-7). La Galilea è un luogo teologico per indicare la nostra vita quotidiana, fatta di lavoro, di fatica, di appelli del Signore Risorto. I primi credenti completarono la formula di fede: “E’ risorto secondo le Scritture” (1 Cor. 15, 3). Tutta la Parola di Dio dell’Antico e del nuovo Testamento converge verso questo punto focale. Nelle varie apparizioni narrate dai Vangeli il Risorto prende l’iniziativa di farsi vedere, riconoscere, di farsi continuare nella sua missione di salvezza.

Ogni domenica, celebrando l’Eucaristia, noi professiamo la nostra fede in Gesù Risorto, siamo coinvolti nel suo mistero pasquale di morte, risurrezione ed ascensione al cielo, riceviamo ancora il dono del suo Spirito, ci nutriamo del suo corpo e del suo sangue, costruiamo la Chiesa, madre dei Santi, siamo inviati per essere nel mondo di oggi costruttori di fraternità e di pace. La grazia del Signore ci accompagni in questo nostro cammino di persone rinnovate da Cristo Risorto!

*Assistente nazionale AIMC

venerdì 29 marzo 2024

TESTIMONI DI SOLIDARIETA'

 "La croce, solidarietà di Dio 

e solidarietà di ogni cristiano"

 

-         di JOSE’ TOLENTINO DE MENDOCA *

 

I tempi liturgici forti sono entrati così profondamente nell’orbita della cosiddetta “religione secolarizzata”, dove l’espressione commerciale con il suo potere consolatorio diventa sempre più preponderante, che quasi ne viene omessa la componente religiosa. Tuttavia, più che dichiarare una guerra tra cattedrali e centri commerciali, solo per prendere due rappresentanti del contrasto, è importante riconoscere la necessità di una riflessione sull’odierno fenomeno di “bricolage del religioso”, che non necessariamente va letto come sottrazione. Eppure, per i cristiani rimane un problema il fatto che la celebrazione della fede stia diventando culturalmente clandestina, che non dica più nulla alla città, come si trattasse di una questione extra muros. È vero che si potrebbe interpretare questa crescente indifferenza come una restituzione di libertà ai riti cristiani, i quali, senza interferenze esterne e senza il rumore del mondo, potrebbero forse essere celebrati con ritrovata integrità.

Per il cristianesimo, però, anche quando vissuto come esperienza spirituale di piccole comunità, il mondo non è mai un rumore: il mondo rimane una dimora dove trovare posto. Dimora provvisoria, è vero, ma per i cristiani lo è nella stessa misura in cui essa lo è per tutti gli altri esseri umani sulla terra. E non è mai superfluo insistere sul fatto che il patrimonio delle religioni ha molto da rivelare alla cultura contemporanea su ciò che essa stessa, sempre più anonimamente, trasporta. Per la cultura, ignorare il religioso significa ignorare sé stessa. Per questo non sarà mai Venerdì Santo solo nelle chiese. Ogni volta che si celebra la morte di Gesù, essa avviene nel mondo e riguarda il mondo. Dio va incontro a tutti. La croce ci insegna la solidarietà estrema di Dio e mostra fino a che punto egli è disposto a spingersi.

Uno dei caratteri più radicali del cristianesimo è l’aver disattivato le forme religiose di sostituzione. Se pensiamo agli altari dell’antichità pre-cristiana, essi sono ricolmi di sacrifici e olocausti, ed erano regolati da un potente sistema rituale che garantiva che quegli animali immolati sostituissero i loro offerenti, ne tenessero il posto, adempissero nell’immolazione il voto che gli umani avevano fatto.

Per capire la radicalità del cambiamento cristiano in proposito, una mappa preziosa è il testo della Lettera agli Ebrei. Questo scritto, da collocarsi probabilmente in un periodo precedente all’anno 70 del I secolo, è l’unico luogo del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di «sommo sacerdote» e di «mediatore della nuova alleanza». L’autore rilegge l’azione di Gesù confrontandola con due significativi momenti del passato: il patto dell’alleanza che Mosè stabilì sul monte Sinai, e la cerimonia annuale che nel grande Giorno dell’Espiazione il sommo sacerdote svolgeva nel tempio. Al Sinai, Mosè ratificò l’alleanza aspergendo l’assemblea del popolo con il sangue delle vittime sacrificali e spiegando: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi...» (Es 24,8). E, in modo simile, il Giorno dell’Espiazione, dopo aver sacrificato le vittime animali, il sommo sacerdote entrava da solo nel santuario, raggiungeva il luogo chiamato «Santo dei Santi», e lo aspergeva con il sangue, operando così la purificazione dai peccati del popolo (Lv 16).

La visione della Lettera agli Ebrei va in un’altra linea, in quanto dichiara: «È impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati» (Eb 10,4). Riconosce così l’inefficacia dei sacrifici di sostituzione per poter accedere a Dio. L’autore, infatti, mette in bocca a Gesù queste parole: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). Cristo diventa «il sommo sacerdote dei beni futuri» non con il sangue di capri e vitelli, ma con l’offerta di sé stesso, «l’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre» (Eb 10,10).

Per questo è importante ricordare che la condanna a morte di quel profeta chiamato Gesù di Nazaret, la cui esecuzione su una croce apparve come un fatto rigorosamente profano, un evento di banale cronaca penale, di nessun’altra rilevanza, era in realtà il momento definitivo in cui la realtà dell’amore, il radicale dono di sé dell’amore autentico, dissolveva il sistema della sostituzione. È il motivo per cui il Vangelo di Matteo scrive che, quando Gesù spirò appeso a una croce, «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono» (Mt 27,51). L’umanità di Gesù, il modo in cui egli visse la sua umanità, diventa il vero tempio. Così come il vero culto diventa quello esistenziale.

Come ha incisivamente osservato il filosofo René Girard, Gesù svuota il paradigma della religione sacrificale, la logica di violenza contenuta nelle contese mimetiche, come pure il meccanismo dell’attribuzione arbitraria della responsabilità all’altro, che serve solo a sopprimerlo dalla nostra vita (il meccanismo del capro espiatorio). Sulla croce queste logiche s’infrangono. Cristo offre sé stesso, porge l’altra guancia, fa trionfare il perdono invece della vendetta.

La croce di Cristo esprime in modo scandalosamente nuovo lo spazio di Dio nel mondo. È una chiave ermeneutica differente per l’interpretazione del divino. Dio non rimane a distanza, indifferente al mondo e alle sue convulsioni. La confisca dell’esistenza è la condizione abbracciata in prima persona da Colui che è stato appeso alla croce. Così, nessun dolore, nessun pianto, nessuna paura, nessun confinamento gli sono indifferenti. Le questioni che questo Venerdì Santo solleva non sono, dunque, minoritarie e complicate questioni religiose che riguardino soltanto i cristiani. Sono un dibattito necessario sul significato dell’umano e su quello che ci salva.

Ciò detto, bisogna aggiungere che entrare in una chiesa il Venerdì Santo è un’esperienza che può solo lasciare attoniti. Guardiamo il tabernacolo, ed è aperto e vuoto, come fosse stato spogliato. L’altare non ha tovaglia né ornamenti: solo la nuda pietra. Se cerchiamo una croce, non la troviamo: è stata rimossa, o nascosta allo sguardo da un velo. Siamo lì come fossimo in un qualche luogo sperduto, frugando tra il silenzio e le macerie. Ci troviamo in una situazione parallela a quella descritta nel Vangelo di Giovanni quando i messaggeri vestiti di bianco chiedono alla Maddalena: «“Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”» (Gv 20,13).

È vero che troppe volte il cristianesimo (il nostro, per lo meno) corre il rischio dell’eccesso: troppe parole, accumuli di simboli e di ritualismi... Il giorno del Venerdì Santo è l’opposto: avviene una drammatica riduzione. Lo spazio religioso si svuota fino all’osso; diventa semplicemente anonimo; nulla lo distingue da qualsiasi altro luogo desolato sulla terra. La liturgia che si celebra in quest’occasione inizia con un silenzio rigoroso, e quando i presbiteri arrivano nella zona dell’altare si prostrano a terra, giacendovi a lungo, come inanimati, mimando con il proprio corpo l’abbandono che tutta la comunità è chiamata a sperimentare. Che fitto enigma è questo? Dove ci porta questo procedere incerto, questa celebrazione così spoglia, questo radicale denudamento? L’unica risposta è: ci porta al nocciolo ardente dei misteri cristiani, che in verità sono puro scandalo, stordimento e follia, poiché i cristiani credono in un Messia crocifisso, in un Salvatore che salva non attraverso la forza, ma attraverso l’impotenza. È ciò che san Paolo esplicita nella Prima Lettera ai Corinzi: «Noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo… e stoltezza» (1Cor 1,22).

Davvero il cristianesimo opera una coraggiosa inversione di paradigma: mentre la religiosità naturale porta l’uomo a cercare un Dio potente in aiuto alla sua vulnerabilità, il cristianesimo rinvia continuamente l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio. In questo caso, la fede cos’è? La fede è prendere parte alla sofferenza di Dio nel mondo, abbracciando e prendendosi cura di ognuno che soffre, facendosi carico solidariamente della responsabilità di questa storia, credendo che nel mistero pasquale essa diventa stagione e promessa della storia della salvezza.

*Cardinale Prefetto del Dicastero della Cultura ed Educazione

Fonte: Avvenire

 

LA FOLLIA DELLA CROCE

 


Il duplice significato

del legno


 - di GIANCARLO RAVASI


La via dolorosa

C’è nella città vecchia di Gerusalemme una strada che porta ancor oggi il nome di Via Dolorosa. Su quel percorso, in un giorno della primavera forse dell’anno 30, un corteo avanzava sotto la direzione dell’exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione capitale per crocifissione. Il condannato, scortato da quattro soldati armati di lancia e dalla solita folla dei curiosi, procedeva recando sulle spalle probabilmente il patibulum, cioè l’asse trasversale della croce. Soste, incontri, piccoli episodi della narrazione evangelica che ha per protagonista Gesù di Nazaret sono divenuti le «stazioni» della Via crucis, la famosa pratica devozionale cristiana sorta già al tempo delle Crociate. Noi ora fisseremo il nostro sguardo sulla meta di quel gruppo di persone, un modesto picco roccioso fuori dalle mura di Gerusalemme, in aramaico Golgota, in latino Calvario, in italiano «Cranio», forse per la sua forma o perché era la sede delle condanne a morte per crocifissione. È noto che questa esecuzione capitale, il servile supplicium, come lo definiva lo storico romano Tacito, cioè il supplizio infamante degli schiavi, era praticata in Palestina dalle forze romane di occupazione nei confronti dei rivoluzionari, com’è attestato anche dallo scheletro di un giovane ebreo di nome Yehohanan (Giovanni) con un chiodo nella caviglia e segni di perforazione nell’avambraccio, ritrovato nel 1969 a nord-est di Gerusalemme. Le modalità della crocifissione, infatti, erano un po’ differenti da quelle che l’arte ha raffigurato nei secoli, ma il supplizio era comunque causa di «una sofferenza intollerabile e della più penosa delle morti», come affermava lo storico ebraico filoromano Giuseppe Flavio, vissuto poco dopo Gesù, nella sua opera Guerra giudaica.

La moria ella croce 

Negli Atti degli apostoli, parlando della morte di Cristo, si afferma che egli «fu appeso a un legno» (5,30; 10,39; 13,29; 16,24). Questa espressione ha una duplice spiegazione. La prima è di ordine storico: la croce era costituita, infatti, di un legno verticale che era già infisso nel terreno, mentre – come si diceva – il condannato portava sulle spalle il braccio orizzontale della croce, che veniva poi sollevato sul palo verticale quando la vittima era stata inchiodata ai polsi o negli avambracci. Questo «legno» verticale era, dunque, l’asse portante. La forma finale della croce era, quindi, a T (in greco tau), anche se sopra di essa un altro paletto poteva recare il titulus, ossia la motivazione ufficiale della condanna a morte. L’altra ragione per il ricorso al termine «legno» è, invece, di indole teologica, come insegna san Paolo che cita un passo del libro biblico del Deuteronomio (21,23) per mostrare che in Cristo si addensa tutta la «maledizione» del peccato perché si trasformi in «benedizione» per noi: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti» (Galati 3,13-14). Lo stesso Apostolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi proclama con forza che «noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei sia Greci, Cristo è potenza e sapienza di Dio» (1,23-24). Si comprende quanto forte sia la provocazione paolina nel porre al centro della fede e della stessa cultura cristiana un simile segno, enfaticamente opponendolo alla sapienza greca. Egli marca il contrasto definendo ciò che la croce appariva agli occhi dei pagani: essa è in greco chiamata môría, cioè «stupidità, idiozia, stoltezza, follia».

Lo skándalon della croce

 Era, infatti, espressione del fallimento assoluto di una vita, tenuto conto del significato sociale comune che essa rivestiva. Per il giudaismo, poi, continua Paolo, è skándalon, cioè pietra di inciampo, elemento di sconcerto, anche perché la tradizione ebraica non poteva accettare una simile fine ignominiosa per il Messia salvatore. Si assiste, così, a un vero e proprio capovolgimento dei valori umani, come l’Apostolo scriverà ai Filippesi: «Tutte le cose che per me erano un guadagno, le ho reputate per Cristo perdita e spazzatura» (3,7-8). È, dunque, ribadita con forza l’originalità del messaggio cristiano rispetto al sistema codificato della cultura allora dominante. Il Vangelo entra in scena in modo paradossale, mostrando attraverso la croce non una divinità fredda e distante dal nostro soffrire e morire, come si aveva nella religiosità classica, bensì un Dio che introduce la logica dell’amore e della condivisione. Una scelta che supera e spiazza ogni logica meramente razionale.  In modo paradossale e attualizzato potremmo dire che nessuno cercherebbe Dio su una sorta di «sedia elettrica», com’era allora nell’accezione comune la croce, sede solo di infamia e di delitto; e invece è proprio lassù che Dio si svela nel Cristo crocifisso, confermando ancora una volta la legge coniata dal profeta Isaia, quando riferisce questo oracolo divino: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (55,8).


giovedì 28 marzo 2024

IL DIO DELLA GIOIA

 


GESU' 

NON RIDE MAI ?



- di Alessandro D’Avenia

 

Anni fa durante un'arcigna predica domenicale un ragazzo mi chiese: «Ma Gesù non ride mai?».

 Mi sono ricordato dell'episodio in questo periodo pasquale. Gli dissi che Cristo non è l'erogatore di precetti che compare spesso nelle prediche ma l'audace autore di una frase per me decisiva: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in sovrabbondanza» (Gv 10,10). Nietzsche ha accusato il cristianesimo di proiettare la vita vera dopo la morte e di togliere quindi energia all'esistenza qui sulla terra, consolando gli uomini con una morale da sottomessi. Affermava di non poter credere a un dio che non balla, e a Cristo preferiva Dioniso, il dio greco del vino e dell'ebbrezza. Per me è il contrario, infatti, in tema di vino e balli, raccontai al ragazzo che Cristo ride. Nel villaggio di Cana in Galilea, operò infatti il primo segno di quella missione di dare agli uomini, già sulla terra, vita in abbondanza: durante una festa di nozze, in cui avrà ballato come era costume, trasformò sei damigiane d'acqua (250 litri) in vino, perché gli ospiti se lo erano già scolato tutto. Non solo ballò ma diede “spirito” a chi lo aveva esaurito ed era così buono che il maestro di tavola criticò gli sposi per aver lasciato l'annata migliore alla fine (Gv 2,1-11). Per rispondere al ragazzo avevo rubato le parole a Dostoevskij che, in un capitolo chiave dei Fratelli Karamazov dedicato all'episodio e intitolato proprio Cana di Galilea, scorge uno di quei sorrisi che il ragazzo cercava e spiega perché. 

 Alëša, il più giovane dei fratelli Karamazov, riportando il dialogo con il suo maestro spirituale racconta: «Amo molto quel passo: sono le nozze di Cana di Galilea, il primo miracolo. Ah, quel miracolo, quanto mi è caro quel miracolo! Cristo visitò la gioia degli uomini, non il dolore, e compiendo il suo primo miracolo, contribuì a dar gioia agli uomini. Chi ama gli uomini, ama pure la loro gioia... A quel tempo le popolazioni che abitavano intorno al lago di Genezareth erano le più povere che si possa immaginare... "L'ora mia non è ancora arrivata" dice con un sorriso... E infatti era forse venuto sulla terra per moltiplicare il vino alle nozze dei poveri?». 

 Dostoevskij intuisce che il segno inaugurale dell'agire pubblico di Cristo racchiude tutto e aggiunge: «Egli si è fatto uguale a noi per amore, e gioisce insieme a noi, converte l'acqua in vino per non interrompere la gioia degli ospiti, aspetta nuovi ospiti, ne invita continuamente di nuovi, e così nei secoli dei secoli». 

 Insomma Dio vuole la gioia dell'uomo, vuole che la festa continui, e più ancora che ballare ama vedere gli uomini ballare. La Pasqua che stiamo per celebrare, credenti o no, resta una narrazione dirompente. Il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro “La crisi della narrazione”, spiega come la nostra cultura sia fatta spesso di una comunicazione senza comunità, comunità che si forma solo grazie a una narrazione che dà senso al tempo e allo spazio: «La religione è un caso esemplare di narrazione con un momento di verità interno. Narrando essa spazza via la contingenza. La religione cristiana è una meta-narrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all'essere. Il tempo stesso viene caricato di aspetti narrativi. Il calendario cristiano fa apparire ogni giorno come significativo. Nell'epoca post-narrativa il calendario è de-narrativizzato, diventa un'agenda svuotata di senso. Le festività religiose sono momenti culminanti e rilevanti all'interno di un racconto. Senza racconto non si dà alcuna festività, nessun tempo di festa, nessun sentimento di celebrazione, cioè nessuna intensificazione emotiva dell'essere». 

 Il discorso del filosofo non è apologetico né nostalgico, ma critico della narrazione oggi dominante, quella consumistica, che ha sostituito ogni altra narrazione e ritualità, il vangelo che ai “santi” ha sostituito i “saldi”: «Di contro si danno solo il tempo del lavoro e il tempo libero, il tempo della produzione e quello del consumo. In un'epoca post-narrativa le feste diventano merci, assumendo la forma di eventi e spettacoli. Anche i rituali sono pratiche narrative. Nel loro essere tecniche simboliche per abitare il mondo, i riti trasformano l'essere-nel-mondo in un essere-a-casa». Il mondo non è casa ma oggetto consumabile, e la vita una lotta contro la noia e la paura. 

 La Pasqua invece è una risorsa narrativa significativa anche per chi non crede, fosse anche solo per la pausa festiva (meno sentita perché, uova e colombe a parte, con quella croce in mezzo non è così facile da trasformare in una narrazione consumistica come il Natale). Perché? Quale trama offre alla storia umana? Questa: un uomo laico (cioè del popolo, dal greco laos, popolo), nel senso che non apparteneva a una categoria religiosa (era un falegname), viene messo a morte dal potere politico e religioso. Era pericoloso proprio perché era un laico che attraeva la gente sottraendo consenso al potere, quello religioso (che era anche politico: i sacerdoti erano i capi del popolo) e quello politico dei Romani, Pilato infatti fa uccidere Gesù per paura di una sommossa aizzata dai capi religiosi. 

 Il prefetto romano della Giudea non vuole perdere la guida di una regione ricca ma difficile, infatti pur avendo verificato l'innocenza del condannato, se ne lava le mani e lo manda a morte: la vita di un uomo si può ben sacrificare al consenso. Cristo era venuto a mostrare il contrario: solo l'amore non sacrifica, ma si sacrifica, mentre il potere non si sacrifica, ma sacrifica. Dice ancora Byung-Chu Han nel libro citato: «Vivere è narrare. L'essere umano si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La prassi narrativa ha la forza di un nuovo inizio. Ogni azione che avvia una trasformazione nel mondo presuppone una narrazione». La Pasqua è il culmine della narrazione iniziata a Cana che contiene, come intuisce Dostoevskij facendone la chiave di volta del suo capolavoro, l'energia per una trasformazione del mondo: siamo fatti per una festa che non finisce ma non abbiamo abbastanza vino, il vino (la gioia) che l'uomo produce non è sufficiente a soddisfare la gioia per cui siamo fatti e a cui aspiriamo. Serve il «di-vino». Uno uomo, un laico, il cui primo gesto eclatante per manifestare questa possibilità è fare 250 bottiglie d'annata perché una festa di matrimonio non finisca, viene messo a morte dal potere politico-religioso che vede in questa gioiosa libertà una minaccia. Il mio augurio è che questa storia ci ricordi, credenti o no, che siamo invitati a una festa infinita a partire da questo lunedì, ma perché questa gioia sia possibile sono necessari una grazia divina e un coraggioso resistere e abbattere tutte le forme di potere che, pur di mantenersi, sono pronte a (s-)opprimere gli innocenti. Allora come oggi, non sanno quello che fanno. Buona Pasqua.

 

alzogliocchiversoilcielo



LA BARCA E IL MARE

 


La Chiesa che c’è. Quella che ci sarà

Da laico nella città – 

Rubrica a cura di Daniele Rocchetti 

 L’unico cristianesimo, il variegato mondo. 

L’evento cruciale del Concilio Vaticano II. 

Le prospettive future della Chiesa. 

 

Intervista a Severino Dianich, teologo

 

La barca e il mare

 Don Severino Dianich è stato certamente uno dei più significativi teologi italiani del Novecento, autore di molte opere e animatore instancabile per decenni dell’Associazione Teologica Italiana (ATI) che ha fondato insieme ad altri nel 1967. 

Nato a Fiume nel 1934, ordinato prete a Pisa nel 1958, laureato in Teologia alla Gregoriana di Roma, don Severino è stato professore ordinario di Ecclesiologia e di Cristologia alla Facoltà di Teologia di Firenze. 

Nei mesi scorsi ha pubblicato un libretto (“Troppo breve il mio secolo”, San Paolo, 2023, 208 pp, 18 euro) dove racconta, con uno sguardo sapienziale, lucido e non risentito, alcune vicende della sua lunga esistenza. Dall’esodo forzato dalla terra istriana al Concilio Vaticano II, a cui partecipa lateralmente come segretario del suo vescovo, dall’esperienza della FUCI a Pisa alla fondazione dell’ATI per passare nei numerosi luoghi e popoli incontrati grazie ai viaggi e ai molti seminari di formazione tenuti in diverse parti del mondo. Un libro che merita di essere letto perché anche nelle pieghe delle complessità viste e affrontate sa riconoscere con fiducia il seme buono del Vangelo che è dentro la storia e le storie di ciascuno. Un’ultima lezione per tanti cristiani preoccupati di difendersi e di perimetrare in modo rigido confini e pareti. 

Don Severino: lei ha attraversato quasi un secolo, vivendo moltissimi eventi che fanno parte della storia. Quali sono quelli decisivi per la sua vicenda e come questi hanno influenzato il suo sguardo su Dio? 

Il passo fondamentale, un passo lungo lungo, è quello di un cammino nella fede, iniziato da bambino, soprattutto grazie a don Alberto, il cappellano della mia parrocchia, che poi ho ritrovato a Pisa, tutti e due esuli da Fiume, e che è continuato nella lunga preparazione al mio ministero di prete. Poi direi, senz’altro, il concilio. Quindi le mie esperienze in paesi e situazioni le più diverse, dove si scopre come Dio sia presente dovunque, in infinite forme diverse. 

Per tante ragioni, lei ha incontrato donne e uomini di diverse parti del mondo. Dal punto di vista spirituale, come è riuscito a coniugare la molteplicità delle vicende religiose con l’unicità della parabola cristiana? 

Quando in Cambogia, in un tempietto dedicato a uno spirito, osservavo quella signora che veniva in lacrime a portargli l’offerta di una porchetta (un patrimonio per una famiglia di poveri), capivo la forza liberante del Vangelo. Ricordavo quel che un missionario mi aveva raccontato, di alcuni cristiani che avevano preparato il presepio proprio accanto a un tempietto di uno spirito ma, giunta la mezzanotte di Natale, avevano tolto dal tempietto la statuetta dello spirito e messo nel presepio il bambino Gesù. Detto questo, comunque fosse, nella preghiera dei poveri, qualunque destinazione avesse, mi pareva di scorgere sempre la presenza dello stesso Dio Padre che Gesù ci ha rivelato. 

Il Concilio Vaticano II rappresenta un vero e proprio spartiacque nell’autocoscienza della Chiesa contemporanea. Lei ha trascorso la sua vita insegnando ai futuri preti e cercando di trasmettere le novità che l’assise conciliare ha introdotto. Perché è stato così faticosa l’attuazione del Concilio Vaticano II? 

Perchè il “Si è sempre fatto così”, se pure in maniera illusoria, è rassicurante per i timidi. E i timidi sono molto più numerosi di quel che sembra. Ma, curiosamente, alla difficoltà hanno contribuito anche gli intellettuali di cultura laica. Anticlericali quanto si voglia, vedevano messo a rischio il giocattolino (mi si perdoni la parola, ma tale lo è di fronte alla decisività e grandezza della fede) di una tradizione culturale plasmata dal cristianesimo. Non è escluso che vi abbiano contribuito anche i grandi poteri economici, che vedevano la Chiesa ulteriormente spostarsi su una sponda opposta alla loro. 

Ritorna in ogni tempo la questione della tradizione. Lo stesso Sinodo che si sta svolgendo si colloca in una tradizione ecclesiale. Quale ermeneutica della tradizione intravede all’orizzonte all’interno dei processi ecclesiali? Quanto è possibile tradire certi schemi? 

Con quel “Quanto…?” non si vorrà certamente ricevere una risposta, tipo: “Questo sì, questo no!” Quel che spesso manca ai tradizionalisti è la conoscenza della storia. Non di rado la loro “tradizione”, da difendere, è quella degli ultimi due tre secoli, quando non, nei più sprovveduti, quella della loro infanzia. Il culto della Tradizione fa parte della fede cattolica, certamente, perché la Sacra Scrittura non deve essere considerata un cimelio del passato e viene letta nell’alveo del grande fiume della tradizione. E’ che la tradizione è appunto come un fiume, cioè essa stessa in continuo movimento. Scoprirne la storia significa scoprire che la tradizione per prima ha attraversato infinite variazioni. Non pochi oggi si oppongono all’accesso delle donne al diaconato, perché tale prassi non sarebbe mai esistita. Ma se ricordassero quanti cambiamenti ha subito nella tradizione il sacramento dell’Ordine, comprenderebbero che la Chiesa vi può introdurre una nuova prassi senza offendere la tradizione. Basti pensare che in origine solo il vescovo presiedeva l’Eucarestia o che l’ordinazione a vescovo senza la destinazione al governo pastorale di una sua Chiesa particolare era considerata invalida. Ancora al concilio di Trento l’ordinazione del vescovo non era considerata un grado del sacramento dell’Ordine, mentre lo era il suddiaconato che poi è scomparso. 

A livello ecclesiale, stiamo vivendo il travaglio di un parto. Indietro non possiamo più tornare ma è pure complicato immaginare il futuro. Come immagina potrà essere la forma della Chiesa di domani? 

Non è possibile tentare previsioni riguardanti la Chiesa intera. Una cosa è l’Europa, altra è l’Africa, altra ancora è l’America Latina. E’ più facile dire qualcosa sull’Europa dove i flussi migratori, la diminuzione delle famiglie fondate sul sacramento del Matrimonio, la crescita dell’abbandono della fede di battezzati, stanno portando a un dimagrimento del corpo di tutte le Chiese, non solo di quella cattolica. Lo sbilanciamento, poi, che si sta creando fra il numero dei fedeli e dei preti in costante diminuzione e la perdurante imponenza delle strutture, financo del patrimonio immobiliare, costituisce un problema assai intricato che rischia di rallentare il rinnovamento e la ripresa dell’evangelizzazione a tutto campo. Ma per quel che conta ai fini dello scopo, per il quale il Signore ha voluto la Chiesa, cioè il perpetuare nel mondo la memoria storica di Gesù e più ancora la memoria di fede in Gesù risorto, il nostro è momento di grazia e inizio di un’epoca nuova. La Chiesa è chiamata a spogliarsi di tante sovrastrutture, che rischiano di ostacolare invece di favorire la sua missione, per ritrovare la freschezza del Vangelo e “la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime”. E’ un’affermazione di Paolo VI che papa Francesco cita nella Evangelii gaudium

La cosa che più colpisce leggendo il suo libro è lo sguardo pacificato e sapienziale con cui legge le vicende del mondo e della Chiesa. Come custodire questo sguardo perché non prevalgano rancore e risentimento? 

E’ molto semplice. Basta imparare a memoria e riportare a galla, ogni volta che è necessario, l’invito di Gesù: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. 

Un’ultima curiosità. Perché chiude il suo libro con i capitoli finali di Apocalisse? 

Perché sono (o meglio, desidero essere) cristiano. 

 

alzogliocchiversoilcielo



UNO PSICOLOGO PER I GIUDICI ?

 



- di GIUSEPPE SAVAGNONE*


La polemica

Le decisione del Consiglio dei ministri di introdurre delle valutazioni psico-attitudinali per coloro che aspirano a diventare magistrati continua ad essere al centro di un acceso dibattito . «Misure sacrosanta», titola il «Giornale». Invece, secondo il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, esse servono solo «a creare una suggestione, che i magistrati hanno bisogno di un controllo psichico o psichiatrico».

 Cosa pensare di questo scontro frontale e delle opposte valutazioni che lo determinano? La prima cosa da fare è ascoltare gli argomenti che le giustificano. Cominciamo da quelli dei difensori delle nuove misure adottate.

 Le ragioni del governo…

Secondo il direttore del «Giornale,» Sallusti, i test psico-attitudinali sono necessari «per verificare se il livello di equilibrio e serenità è compatibile con una professione che maneggia una merce unica e importante qual è la libertà degli uomini, cosa che già avviene senza alcun problema per categorie altrettanto sensibili, tipo forze dell’ordine e piloti di aerei».

Argomentazioni che riprendono, peraltro, quelle autorevolmente espresse dal ministro della Giustizia Nordio, a cui si deve la proposta appena approvata:  «L’esame psico-attitudinale» – ha ricordato – «è previsto per tutte le funzioni più importanti del Paese, ma soprattutto è previsto per le forze dell’ordine. Il pubblico ministero è il capo della polizia giudiziaria che è sottoposta al test. Se sottoponiamo ai test chi obbedisce al comandante, è possibile non sottoporre a test chi ha la direzione della polizia giudiziaria?».

 In ogni caso, egli ha sottolineato, l’esame psico-attitudinale non riguarderà i giudici attualmente in servizio, ma solo coloro che faranno il concorso per diventare magistrati.

E «non è affatto invasione di campo da parte del governo nei confronti della magistratura», per il semplice fatto che «tutta la procedura di questi test è affidata al Csm (Consiglio superiore della magistratura)», che è per due terzi composto da magistrati (membri “togati”) e solo per un terzo da membri eletti dal Parlamento (membri “laici”).

 Per ogni concorso, il CSM nominerà alcuni docenti universitari in materie psicologiche, che avranno il compito di preparare i test scritti a cui seguirà un colloquio.

 Tutto ciò riguarderà solo i candidati che avranno superato le prove scritte del concorso, come una precondizione per essere ammessi all’orale. E a dare la valutazione finale sarà comunque la commissione, salvaguardando così il principio, stabilito dall’art. 106 della Costituzione, secondo cui «le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso» (motivo per cui, ha spiegato il ministro, i testi non potevano essere previsti prima delle prove scritte).

 … E quelle degli oppositori

Ma perché, allora, le veementi contestazioni di cui la nuova normativa è oggetto in questi giorni? Può aiutare a comprenderle la storia travagliata del rapporto fra la destra oggi al governo e la magistratura.

 L’introduzione dei test psico-attitudinali si inserisce inevitabilmente in questa storia, in particolare nell’atteggiamento di fondo dell’uomo politico che ha avuto in essa un ruolo determinante, Silvio Berlusconi.

 È noto che il “cavaliere” si è sempre sentito perseguitato dai magistrati, attribuendo le motivazioni delle sue innumerevoli vicende giudiziarie, volta a volta, al loro essere “comunisti” o a disturbi mentali. E non si riferiva solo ad alcuni di loro, ma all’intera categoria: «Questi giudici», affermava nel 2003, quando era presidente del Consiglio, «sono doppiamente matti.

 Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».

 Da qui, sempre nel 2003, il tentativo – non portato a termine – fatto dall’allora ministro della Giustizia, il leghista Castelli, di introdurre già allora i test per valutare la salute mentale dei magistrati. La decisione dell’attuale Consiglio dei ministri corona, dunque, un sogno tradizionale della destra, maturato in un clima di esplicita ostilità nei confronti dell’ordine giudiziario.

 Al di là di questo contesto che potremmo definire “politico”, i critici sottolineano che lo stesso statuto scientifico della psicologia esclude – tranne, ovviamente casi chiaramente patologici – che essa possa essere utilizzata per valutare la personalità del magistrato in modo da prevederne la capacità di esercitare correttamente le proprie funzioni.

 Lo diceva un documento, firmato, sempre nel 2003, da 134 soci della “Società Psicoanalitica Italiana” e da 35 psichiatri e psicologi della “Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica”. «Nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia» – si legge in esso – «saprebbe in coscienza avallare una forma di valutazione predittiva psicologico-psichiatrica del futuro magistrato.

 E questo non per un’attuale insufficienza dei nostri strumenti di indagine, ma in ragione di più cogenti criteri metodologici, che impediscono la costruzione di griglie riduttive attendibili, atte a testare funzioni così complesse, che coinvolgono ideali, motivazioni, passioni, interessi, come se si trattasse di mere capacità oggettivamente standardizzabili».

 Il punto è che il giudice non è un meccanico esecutore delle norme scritte. Ormai l’ermeneutica giuridica ha ampiamente dimostrato il ruolo decisivo che ha nel diritto l’interpretazione. Ogni applicazione della legge – come quella che avviene nel processo – implica che, se dia una certa lettura, indispensabile per collegare l’astratta norma dei codici alla situazione concreta che bisogna valutare.

 E l’interpretazione coinvolge sempre «ideali, motivazioni, passioni, interessi» di chi la fa. Impossibile ingabbiare questa ricchezza di fattori personali dentro standard precostituiti, puramente “oggettivi”, come quelli che si traducono poi nella somministrazione di test.

 Di conseguenza, continua il documento degli psicologi «gli “esperti” esaminatori, non avendo alcun vero ancoraggio scientifico per validare i propri giudizi, si troverebbero, nella migliore delle ipotesi, in balia di suggestioni intuitive ed empatiche», o, nella peggiore, sarebbero tentati «da un ‘disciplinato’ affidamento (…) all’ordinamento politico del momento».

 Questo non significa, naturalmente, che il giudice possa procedere arbitrariamente. Ma, a garantire la sua capacità di svolgere il proprio ruolo non può essere una problematica previsione a priori di ordine pseudo-scientifico, bensì un controllo costante sul suo modo effettivo di essere e di operare nello svolgimento delle sue funzioni. E questo controllo già esiste. In una lettera firmata da tutti e venti i membri togati del Consiglio superiore della magistratura e dai due laici eletti in Parlamento dalle opposizioni (non da quelli eletti dai partiti della destra) si fa notare «come il governo autonomo della magistratura conosca già reiterate e continue verifiche sull’equilibrio del magistrato che viene sottoposto a valutazione dal momento del suo tirocinio e, successivamente, con intervalli regolari ogni quattro anni».

 E si denuncia il fatto che le nuova normativa è stata introdotta dal Consiglio dei ministri senza prima averla neppure fatta conoscere, per un parere, al CSM, che è l’organo costituzionalmente preposto a garantire l’autonomia della magistratura.

 Il problema costituzionale

È difficile negare la forza di queste motivazioni critiche. Ma, ad essere decisivi per un giudizio negativo, paradossalmente non sono tanto gli argomenti degli oppositori, quanto quelli dei suoi sostenitori.

 Essi, come abbiamo visto, insistono molto sul fatto che già il test psico-attitudinale «è previsto per le forze dell’ordine», in particolare per la polizia giudiziaria (Nordio) e per altre categorie sensibili, come «i piloti d’aereo» (Sallusti).

 Ciò che sembra sfuggire, a chi fa questo paragone, è che la magistratura è un organo costituzionale il quale – nella logica della separazione dei poteri, su cui si regge lo Stato italiano – si pone sullo stesso piano e ha diritto alla stessa indipendenza del Parlamento e del governo. L’autonomia della funzione giudiziaria, di quella legislativa e di quella esecutiva è fondamentale per la nostra democrazia.

 Per questo la Costituzione dice, all’art. 101: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». I membri delle forze dell’ordine, come i piloti di aereo, no. Hanno dei superiori a cui devono obbedire, delle particolari regole professionali, dei modelli di comportamento precostituiti, entro cui devono conformarsi. Si può essere ottimi cittadini ed essere scartati da una selezione per diventare poliziotto se all’esame fisico risultano dei problemi di vista o, a quello psicologico, scarsa capacità di adattamento alla severa disciplina richiesta da questo lavoro.

 Questo non vale per chi deve intraprendere la carriera di magistrato. E il ragionamento del ministro, secondo cui è assurdo che la polizia giudiziaria sia sottoposta a test e non lo sia il giudice che ne è a capo, rivela una radicale incapacità – scoraggiante in un membro del governo – di capire la differenza abissale tra un funzionario dipendente e il rappresentante di un organo costituzionale.

 Quanto all’argomento, anch’esso spesso ripetuto, che il test «è previsto per tutte le funzioni più importanti del Paese» (sempre Nordio), esso apre la strada alla provocazione del giudice Gratteri, il quale ha fatto notare che allora dovrebbe essere adottato anche per valutare l’idoneità a ricoprire la carica di parlamentare o  di presidente del Consiglio, di ministro e di sottosegretario, la cui funzione non è certo meno decisiva di quella dei giudici

 Che forse non sarebbe male, se è vero che il deputato Pozzolo, amico personale del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, è andato a una festa di Capodanno armato di pistola, ferendo a una gamba un agente della corta. Questo non sembra che nessun magistrato l’abbia mai fatto.

*EDITORIALISTA E PUBBLICISTA.  Pastorale Cultura, Arcidiocesi Palermo

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COLTIVARE LA PAZIENZA


La pazienza 

è 

la “vitamina

 essenziale” 

del cristiano

All’udienza generale, il Papa dedica la catechesi alla virtù che ha come radice l'amore con cui Cristo risponde alle sofferenze: non c’è cosa, per quanto piccola, purché sopportata per amore di Dio, che passi senza ricompensa presso Dio

 


-         di Tiziana Campisi - Città del Vaticano

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La pazienza è quella virtù che Gesù ci mostra nella Passione, “con mitezza e mansuetudine”, infatti, “accetta di essere arrestato, schiaffeggiato e condannato ingiustamente”. Alla vigilia del Triduo Pasquale, il Papa lo spiega nella sua terza catechesi dedicata alle virtù, all’udienza generale spostata per via della pioggia da Piazza San Pietro, dov'era programmata, in Aula Paolo VI. "È vero che sarete un po’ ammucchiati, ma almeno saremo non bagnati", scherza Francesco all'inizio, affrontando poi il testo della catechesi in prima persona, senza l'ausilio di un lettore come avvenuto nelle ultime settimane per via della bronchite che lo aveva colpito.

I Vangeli, osserva il Papa, raccontano che Cristo “davanti a Pilato non recrimina; sopporta gli insulti, gli sputi e la flagellazione dei soldati; porta il peso della croce; perdona chi lo inchioda al legno e sulla croce non risponde alle provocazioni, ma offre misericordia”; tutto questo, sottolinea Francesco, ci offre un insegnamento.

La pazienza di Gesù non consiste in una stoica resistenza nel soffrire, ma è il frutto di un amore più grande.

Il primo tratto di ogni grande amore

La Bibbia ci rivela più volte che “Dio, di fronte alla nostra infedeltà, si mostra ‘lento all’ira’”, fa notare il Papa, e non sfoga “il proprio disgusto per il male e il peccato dell’uomo”, semmai è “pronto ogni volta a ricominciare da capo con infinita pazienza”. E se per San Paolo questo proporre il perdono davanti al peccato “è il primo tratto dell’amore di Dio”, per Francesco è anche “il primo tratto di ogni grande amore, che sa rispondere al male col bene, che non si chiude nella rabbia e nello sconforto, ma persevera e rilancia. La pazienza che ricomincia”.

Alla radice della pazienza c’è l’amore, come dice Sant’Agostino: “Uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio”.

Una virtù di cui si è spesso carenti

Dunque, testimonia l’amore di Gesù il “cristiano paziente”, sottolinea Francesco, che richiama anche l’esempio di “mamme e papà, lavoratori, medici e infermieri, ammalati che ogni giorno, nel nascondimento, abbelliscono il mondo con una santa pazienza”, virtù che non sempre si possiede.

Siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della “vitamina essenziale” per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci - è un istinto spazientirci - e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro, o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta; non siamo capaci di stare pazienti.

Andare controcorrente e attendere

Ma come essere pazienti? Per il Papa occorre “andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il ‘tutto e subito’; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante”. Tra l'altro fretta e impazienza sono "nemiche della vita spirituale", avverte Francesco, Dio, invece "è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum. Dio è paziente, Dio sa attendere”.

Assimilare la pazienza del Crocifisso

Per accrescere, poi, la pazienza, che è “un frutto dello Spirito Santo”, occorre pregare e chiederla “allo Spirito di Cristo”, raccomanda il Papa.

Specialmente in questi giorni ci farà bene contemplare il Crocifisso per assimilarne la pazienza. Un bell’esercizio è anche quello di portare a Lui le persone più fastidiose, domandando la grazia di mettere in pratica nei loro riguardi quell’opera di misericordia tanto nota quanto disattesa: sopportare pazientemente le persone moleste. 

Con lo sguardo di Dio

Non è facile tollerare coloro che sono molesti, riconosce il Pontefice, ma nella preghiera si può chiedere di guardarli "con compassione, con lo sguardo di Dio, sapendo distinguere i loro volti dai loro sbagli".

Noi abbiamo l’abitudine di catalogare le persone con gli sbagli che fanno. No, non è buono questo. Cerchiamo le persone per i loro volti, per il loro cuore e non per gli sbagli!

Ampliare lo sguardo

Infine, la pazienza va coltivata, e per questo “è bene ampliare lo sguardo”, ad esempio non restringendolo soltanto ai propri guai, è il suggerimento di Francesco, ma volgendolo alle sofferenze più gravi degli altri per imparare a sopportare le proprie, come invita a fare l’Imitazione di Cristo, “ricordando che ‘non c’è cosa, per quanto piccola, purché sopportata per amore di Dio, che passi senza ricompensa presso Dio’”. "Pazienza è saper sopportare i mali", conclude il Papa, e quando ci si sente “nella morsa della prova”, c'è da aprirsi fiduciosamente e “con speranza alla novità di Dio”, perché Lui “non lascia deluse le nostre attese”.

 

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