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martedì 31 ottobre 2023

CHIAMATI ALLA SANTITA'

UN RIFLESSO LUMINOSO DEL SIGNORE NELLA STORIA E NEL MONDO
La santità è un dono e un cammino

 “È proprio della santità attrarre. Dio ci chiama per attrazione. Dio attrae e noi dobbiamo sentire  questa grazia dell’attrazione divina, e accettarla…. 

La santità è un dono – è un regalo, non si può comprare – e al tempo stesso è un cammino

Ogni cristiano è chiamato ogni giorno a impegnarsi con cuore indiviso nella vocazione e nella missione affidatagli da Dio, servendo Lui e il prossimo in spirito di carità….

Lo zelo apostolico implica sia un’unione con Gesù, alimentata dalla preghiera e dai Sacramenti, sia il desiderio di diffondere la bellezza del messaggio cristiano attraverso la fedeltà alla propria vocazione particolare…

Anche noi, dunque, traendo forza dal Signore, impariamo a compiere le azioni ordinarie in modo straordinario e così a crescere ogni giorno nella fede, nella carità e nella zelante testimonianza di Cristo. Ognuno di noi è chiamato alla santità, alla santità di tutti i giorni, alla santità della vita cristiana comune.

A volte, insistendo troppo sul nostro sforzo di compiere opere buone, abbiamo generato un ideale di santità troppo fondato su di noi, sull’eroismo personale, sulla capacità di rinuncia, sul sacrificarsi per conquistare un premio . È una visione a volte troppo pelagiana della vita, della santità. Così abbiamo fatto della santità una meta impervia, l’abbiamo separata dalla vita di tutti i giorni invece che cercarla e abbracciarla nella quotidianità, nella polvere della strada, nei travagli della vita concreta.

 Essere discepoli di Gesù e camminare sulla via della santità è anzitutto lasciarsi trasfigurare dalla potenza dell’amore di Dio”.

 La santità non è fatta di pochi gesti eroici, ma di tanto amore quotidiano. Amare significa questo: servire e dare la vita. Servire, cioè non anteporre i propri interessi; disintossicarsi dai veleni dell’avidità e della competizione; combattere il cancro dell’indifferenza e il tarlo dell’autoreferenzialità, condividere i carismi e i doni che Dio ci ha donato. …. Nel concreto, chiedersi ‘che cosa faccio per gli altri?’.

 Questo è amare, e vivere le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente. E poi dare la vita, che non è solo offrire qualcosa, come per esempio alcuni beni propri agli altri, ma donare sé stessi

 Il segreto della santità è servire il Vangelo e i fratelli, offrire la propria vita senza tornaconto. I santi hanno vissuto così la santità: abbracciando con entusiasmo la loro vocazione, si sono spesi per il Vangelo, hanno scoperto una gioia che non ha paragoni e sono diventati riflessi luminosi del Signore nella storia.

 I santi hanno vissuto così la santità: abbracciando con entusiasmo la loro vocazione, si sono spesi per il Vangelo, hanno scoperto una gioia che non ha paragoni e sono diventati riflessi luminosi del Signore nella storia.

 Questo è un santo o una santa: un riflesso luminoso del Signore nella storia.

 Andiamo avanti su questa strada, il Signore non ci mancherà.


Papa Francesco

NON E' UNO SCHERZETTO, NE' UN DOLCETTO

 Halloween 

Un immaginario da paura

 che non è uno "scherzetto"

- di Mimmo Muolo

«Dolcetto o scherzetto?», lo slogan tipico di Halloween, è diventato ormai virale. Così come questa sorta di carnevale fuori stagione, che vede il trionfo - anche mediatico - di zucche scavate e trasformate in volti inquietanti, teschi e scheletri, maschere, travestimenti mostruosi e in generale di un immaginario horror da quattro soldi.

 Come se non bastasse la cronaca di tutti i giorni a far entrare nelle nostre case gli orrori purtroppo autentici di guerre, violenze, devastazioni climatiche e distruzioni tragicamente assortite.

 Ora però la domanda di fondo è: che cos’è Halloween? Un momento di evasione tutto sommato innocuo, uno scherzetto appunto, come il furbo slogan sembra suggerire, o qualcosa di più serio, sul quale vale la pena di soffermarsi con una riflessione che prenda in esame i diversi aspetti di un fenomeno ormai troppo pervasivo per essere relegato alla sfera meramente ludica?

La prima cosa che colpisce è proprio la stratificazione di significati e di interessi che stanno dietro questa "festa". C’è la spinta commerciale, innanzitutto, se solo si considera l’entità non da poco del giro di affari generato da Halloween. Alcuni studiosi di marketing spiegano l’esplosione di questa moda con il fatto che mancava tra Ferragosto e Natale un appuntamento che spingesse l'acceleratore dei consumi voluttuari.

 Perciò Halloween verrebbe a colmare il vuoto completando l’"anno liturgico del consumismo" che si sovrappone a quello autentico e in alcuni casi scippa del loro significato vero persino le più importanti feste cristiane.

 C’è poi l’aspetto culturale, antropologico, e in definitiva educativo, che salta agli occhi quando entrano in gioco categorie distorsive dell’umano come la dimensione del mostruoso. E c’è anche il versante religioso, perché, anche a prescindere dalla sospetta vicinanza alla festa di Ognissanti (guarda caso “vampirizzata”, è proprio il caso di dirlo, dall’enorme gran cassa che enfatizza Halloween), la macabra carnevalata che va in scena in questi giorni richiama il rapporto con l’aldilà.

 Su questo versante, anzi, la fenomenologia di Halloween finisce di fatto per concretizzarsi in una delle tante schizofrenie del nostro tempo: da un lato la crescente difficoltà di molti a credere in una qualsiasi forma di vita oltre la morte, dall’altro il diffuso ricorso a figure come fantasmi, zombie, vampiri e diavoli che vanno a configurare una sorta di pantheon degli inferi e che debordano pure in film, romanzi, fumetti, serie tivù, spesso di grande successo.

 Senza voler vedere il male ovunque, è bene avere nei confronti di Halloween, specie se si è genitori e in senso più ampio educatori, una buona dose di prudenza.

 Qualche anno fa, in un’intervista ad "Avvenire", padre Francesco Bamonte, uno degli esorcisti più conosciuti e apprezzati a livello internazionale, così si esprimeva: «A me sembra che Halloween di fatto non proponga niente di vero, niente di buono e non mi mostri niente di bello. Di conseguenza non mi sento aiutato ad essere più vero, più buono e a percorrere un cammino di bellezza e questo mi preoccupa dal momento che mi è stato insegnato che è la Bellezza che salverà il mondo».

 Ecco, dunque, la questione di fondo. Qual è l’antropologia di riferimento di Halloween? Quale immagine trasmette dell’uomo e del senso della vita? Una visione noir, popolata di mostri, con l’esaltazione di aspetti splatter è davvero preferibile alla bellezza di un’esistenza spesa per gli altri e coronata dalla vita senza fine, nell’abbraccio dell’amore di Dio, come avviene per i santi? E per quelli che tendono a sminuire, siamo proprio sicuri che questo immaginario horror non abbia conseguenze sulla psiche dei bambini?

 Domande che occorre porsi, se davvero non si vuole finir preda della martellante pubblicità che attraverso l’apparentemente innocua logica del “dolcetto o scherzetto” rischia di trasformare anche le nostre menti, e quelle dei più giovani in particolare, in zucche vuote.

 www.avvenire.it

 

lunedì 30 ottobre 2023

ADULTI, SOCIAL, EDUCAZIONE

 


Quanto i social hanno inciso nella vita degli adulti? Siamo davvero in grado di utilizzarli con consapevolezza e nel modo giusto? Quanto è difficile “fare educazione” ai social?

 Queste e molte altre domande ancora sono molto importanti soprattutto per il periodo che stiamo attraversando ed è bene riflettere per non restare passivi davanti ad uno schermo ma diventare consapevoli di ciò che vediamo e dei messaggi che spesso vengono, anche in modo inconscio, trasmessi.

 I social: la coperta di Linus del nostro tempo.

Da Marzo 2020 la nostra capacità di essere connessi si è evoluta, è incredibile come i social per ognuno di noi siano diventati una sorta di coperta di Linus: ci permettono di rimanere in contatto, rappresentano un rifugio nel quale nascondersi per distaccarsi dalle paure e dai problemi del quotidiano. Quando non abbiamo voglia di ascoltare o di annoiarci ecco lo schermo che ci viene in aiuto, quando ci vogliamo distrarre da un cattivo pensiero ecco che curiosare nella vita degli altri ci permette di dimenticare per un momento la nostra, quando vogliamo ridere ecco che arriva puntuale il video virale del mese… e così via.

I social come mondo dell’immediato, del tutto e del subito, delle domande e delle risposte veloci.

 Le riunioni da dietro uno schermo, le lezioni da dietro uno schermo, la cucina da dietro uno schermo, l’educazione da dietro uno schermo…. la vita di ognuno di noi dietro ad uno schermo.

 Non starò qui ad elencarvi tutto quello che manca della vita reale, di quella che ogni tanto puzza ma almeno ne senti l’odore, ma quello su cui vorrei riflettere è quanto, non solo in questo periodo, ma in generale negli anni 2000 lo sviluppo di piattaforme social non solo abbia inciso sulle nuove generazioni, ma anche su quelle “anziane”.

 Gli adulti spesso si lamentano: “I miei figli non mi ascoltano!” ed è vero, è proprio così. I “nuovi” figli fanno fatica ad ascoltare.

 Non solo adolescenti ma anche bambini. La maggioranza di bambini e adolescenti fatica ad alzare la testa e a guardare negli occhi chi parla con loro, ma quale posizione degli adulti vedono bambini e adolescenti per quasi per tutto il giorno?

Guardare negli occhi 

Perché da adulti non guardiamo più negli occhi i nostri figli e siamo più attratti da uno schermo vuoto che dai loro occhi?

 Fare educazione preventiva nei confronti di questo argomento significa una sola cosa: prendersi la responsabilità di quello che facciamo non solo come adulti, ma anche e soprattutto come educatori e genitori, perché educare alla consapevolezza è compito prima di tutto di chi può insegnarla.

 Le domande da porsi per avvicinare i nostri figli con consapevolezza all’utilizzo dei social.

Il primo passo per riuscire a comprendere se si sta andando nel verso giusto è fare, come adulti, un po’ di auto-osservazione e porsi alcune delle seguenti domande riguardo al proprio approccio con i social:

 –Quando mi rivolgo ai miei figli li guardo negli occhi?

 –Sono consapevole dei rischi che la tecnologia comporta?

 –Che tipo di utente sono? Passivo o attivo?

 –Durante la cena, il momento del gioco con loro, dopo la scuola, riesco a parlare con loro senza farmi distrarre dal telefono che squilla o da una mail che arriva?

 –Riesco a dedicare ai miei figli del tempo di qualità senza lasciare che il mondo virtuale mi disturbi?

 –Riesco a non farmi condizionare negativamente dalle immagini da vetrina che vedo di altre famiglie ed accettare la mia così com’è?

 –Sono in grado di non delegare alla tecnologia le domande, le emozioni, il tempo?

Molte domande

Si, sono tantissime domande, ma la consapevolezza si coltiva solo attraverso la riflessione e ad una presa di coscienza forte e profonda.

Proviamo a rispondere a queste domande senza giudicarci e cerchiamo anche di visualizzare alcune situazioni in cui sappiamo di essere stati condizionati negativamente da contenuti social che ci sono passati da sotto gli occhi.

Quale è stata la nostra reazione da adulti? Siamo in grado di decodificare le emozioni legate a quella situazione?

 L’importanza di decodificare le emozioni che ci trasmettono le piattaforme social.

 Decodificare le emozioni che i contenuti social trasmettono è fondamentale per due motivi:

 -significa non essere utenti passivi;

 -significa saper filtrare le immagini che vediamo;

- significa dare l'esempio e aiutare i ragazzi e i giovani a decodificare e discernere

Una rivoluzione da governare 

Anche per il mondo degli adulti i social hanno rappresentato una rivoluzione. Non siamo nati con “i cellulari tra le mani” come dicono loro, ma anno dopo anno tutto è diventato sempre più veloce, smart (per chi ama i termini in inglese) e tutto si è semplificato talmente tanto da essere davvero complicato.

 Dobbiamo ammetterlo, i social ci distraggono. Ci distraggono dalle cose reali, sembrano ovattare i malumori. Ognuno con in mano un proprio cellulare, un proprio tablet, un proprio computer… siamo tutti dannatamente distratti e questa distrazione ricade sulle nuove generazioni che non possono imparare nulla di diverso se non l’apatia, la passività, l’essere spettatori di ciò che passa davanti ai loro occhi.

 Come adulti abbiamo un grosso compito: aiutare le nuove generazioni ad essere protagoniste. Aiutare i nuovi bambini e i nuovi ragazzi a pensare. Dobbiamo prima di tutto smuovere noi stessi e poi loro dalla condizione di indifferenza in cui siamo inciampati e non smettere mai di chiederci se quello che trascorriamo con loro è un tempo di qualità.

 Il punto non è non utilizzare le nuove tecnologie e le nuove possibilità di rimanere in contatto, il punto è farlo ponendosi delle domande.

Soffermarsi su un contenuto e chiedere ai nostri bambini o ragazzi: “cosa ti trasmette?”

 Il punto è tornare ad alzare la testa durante una conversazione, guardarci negli occhi e riscoprire la bellezza della realtà: quella che si può toccare solo con le mani, quella di cui si possono sentire gli odori e quella che a volte fa male ma ci rende protagonisti veri di una storia che non possiamo vivere solo attraverso ad uno schermo.

 KOROO


ORA DI RELIGIONE. E' TEMPO DI FRESCHEZZA

 
La sfida per maestri e prof: testimoniare con l’esempio che il cristianesimo è «utile perché offre uno spazio prezioso per potersi confrontare sulle cose che contano»


 -         di MARINA ROSATI

 Testimonianza e relazioni per ridare freschezza al Vangelo, per far comprendere che Gesù è un’opportunità, una risorsa che sa mettere in luce la bellezza dell’umano. Le insegnanti di religione, riunite alla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli ad Assisi per il corso di aggiornamento organizzato dal Servizio nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della Cei, ne sono convinte. Da nord a sud la voce è unanime nel dire che, soprattutto dopo il Covid, è necessario rimettere al centro l’uomo. «Bisogna andare alla scoperta dell’umano, della sua bellezza – spiega Giusy Miglio, insegnante in una scuola dell’infanzia- primaria della diocesi di Crotone- San Severo – ; dobbiamo sostituire al concetto “Tu chi sei” quello “Per chi sei”. E noi insegnanti dobbiamo esprimere entusiasmo, comunicare con il nostro esempio e la nostra testimonianza la bellezza dell’umano ». Della stessa opinione anche Antonietta Cristaudo, insegnante in una scuola secondaria di primo grado della diocesi di Lamezia Terme. «È necessario imparare a parlare con l’esempio, con la nostra vita. Oltre a trasmettere valori bisogna portare la testimonianza, in modo che i bambini, i ragazzi possano comprendere che quello che diciamo è ciò che viviamo». Se il cristianesimo rischia di mancare di freschezza, per Tommasina Porto Bonaco, insegnante di religione in un liceo classico sempre di Lamezia Terme, molte responsabilità derivano anche dagli eccessi della tecnologia. «Oggi quando si parla di umano, sembra che si parli di qualcosa di vecchio, vetusto rispetto alla realtà che viviamo – spiega la docente – ; in verità la tecnologia non può e non deve sostituire l’umano che è fatto di passioni, emozioni e sentimenti».

 Sulla stessa linea anche Erica Fresu, insegnante di religione in una primaria della diocesi di Ozieri in Sardegna che parla di «ridare freschezza al cristianesimo con l’esperienza. Abbiamo bisogno di trasmettere Gesù con l’esempio. Spesso i nostri alunni percepiscono, condividono o vivono certi valori come fraternità, solidarietà e bene comune, non sapendo che sono baluardi del cristianesimo. Questi valori che, come dicevo vengono anche vissuti o riconosciuti dai nostri giovani, non sono ricondotti alla vita di Gesù». Occhio però a non essere contro producenti aspirando a quella «perfezione che non esiste. Bisogna invece veicolare che la bellezza del cristianesimo è la gratuità».

 Ne è fermamente convinto Francesco Luppi, insegnante in un liceo di Piacenza dove racconta, «esordisco sempre in maniera provocatoria dicendo che la religione non è utile, perché esce dall’ottica economica. E invece la freschezza del cristianesimo sta nella capacità di riuscire a leggere le risorse dell’umano. Gesù è una risorsa per l’uomo; se noi insegnanti – spiega ancora Luppi – riusciamo a far comprendere ai nostri alunni che il cristianesimo è utile perché è l’unico spazio per potersi confrontare sulle cose che contano, abbiamo ben fatto il nostro servizio. Gli studenti sono affascinati da Gesù, non hanno pregiudizi e sono aperti alla conoscenza. Anche perché nella mia esperienza – sottolinea ancora – su una classe media di 25 unità, sono appena due, tre quelli che non si avvalgono». Che l’interesse per Gesù e il cristianesimo ci sia lo sottolinea anche Rosita Tallone, insegnante in una scuola secondaria di primo grado di Cuneo che rileva tuttavia la difficoltà nella trasmissione della religione di cui «apparentemente non hanno bisogno. I nostri bambini e ragazzi perché dovrebbero interessarsi al Vangelo quando vivono in un mondo dove c’è tutto. I ragazzi ne sanno più di quanto io stessa sperassi – aggiunge – ma ciò che dobbiamo fare è coinvolgerli, interessarli perché parlare di Dio significa toccare le corde dell’uomo, il senso della trascendenza. E poi – conclude – tutte le discipline devono valorizzare le relazioni ma la nostra più di tutte le altre». Per fare ciò nella scuola dove insegna, specie dopo la pandemia, si è attivato un percorso di inserimento dei più piccoli attraverso l’aiuto dei più grandi, «e funziona». Anche perché, conclude Rosaria Marino insegnante in un istituto superiore di Catanzaro dobbiamo ricordarci che «la freschezza del cristianesimo non può passare per la tecnologia, che crea connessioni ma non legami».

 www.avvenire.it



 

domenica 29 ottobre 2023

LA BUONA EDUCAZIONE


 La vita di una società dipende strettamente dal livello di educazione etica dei cittadini. Un alto livello di eticità produce automaticamente una società unita, coesa e accogliente. Un basso o inesistente livello di eticità produce al contrario una società lacerata, caotica e invivibile.

-         di Vito Mancuso

Vige da noi un concetto sostanzialmente formale di educazione che la fa coincidere con quelle regole basilari di convivenza che ci permettono di stare insieme senza disturbarci troppo l'un l'altro. L'educazione però, come emerge da altre lingue, non è riducibile alle buone maniere: in inglese, per esempio, to be educated è ben altra cosa da to be polite (laddove polite è "educato", educated "istruito"). Education in inglese, come Erziehung in tedesco, significa "istruzione" o anche "formazione" e una persona well educated è una persona bene istruita e solidamente formata. Esattamente lo stesso è il significato del latino educatio e del greco paideia. Una persona non educata, quindi, oltre a essere socialmente imbarazzante è, ben più radicalmente, un ignorante. E l'educazione, oltre a essere esercizio del rispetto e della cortesia, coincide con la formazione ricevuta dallo studio e assimilata a dovere dalla personalità.

A mio avviso però, oltre all'arte di sapersi comportare con rispetto e al patrimonio culturale della mente, vi è un ulteriore livello nel concetto di educazione: è l'educazione come etica e governo di sé e come conseguente agire responsabile. Il concetto di educazione è quindi tripartito e presenta tre finalità: l'interazione rispettosa e gentile con gli altri, la professionalità personale, la pienezza dell'umanità. E per argomentare la tesi chiarisco cosa intendo con "umanità".

Io penso che esista uno specifico umano che ci differenzia da tutti gli altri viventi, per esempio dagli scimpanzé con cui condividiamo quasi l'intero patrimonio genetico, e che ci differenzia al contempo dalle macchine intelligenti con cui passiamo ormai buona parte del tempo e che sempre più influenzeranno la nostra vita. Guardando al nostro corpo si può ritenere che tale nostra specificità sia la statura eretta e la neocorteccia cerebrale. Guardando alla nostra mente, che sia l'intelletto analitico da cui sorgono le scienze esatte, o che sia la ragione sintetica dalla quale sorgono i saperi umanistici. Si può inoltre sostenere che lo specifico umano sia il sentimento, in particolare l'amore. Si tratta di risposte tutte corrette ma che ancora non colgono il centro effettivo, perché questo, a mio avviso, consiste in uno spazio vuoto. Lo specifico umano è la presenza di uno spazio vuoto tra noi e il nostro corpo, tra noi e il nostro intelletto analitico, tra noi e la nostra ragione sintetica, tra noi e il nostro sentimento, il quale fa sì che noi siamo e insieme "non" siamo il nostro corpo, il nostro intelletto, la nostra ragione, il nostro sentimento. Questo spazio vuoto, o caos interiore, ci rende indeterminati e imprevedibili, e il suo nome più appropriato è libertà. Ebbene, tale spazio vuoto detto libertà è propriamente l'oggetto dell'educazione etica. Il fine del terzo livello dell'educazione consiste quindi nel dare forma e orientamento alla libertà.

L'educazione etica si realizza quando un essere umano percepisce che nella vita esiste qualcosa di più importante di sé per cui vivere, ovvero quando compie l'esperienza del valore. Tale esperienza avviene quando uno apre finalmente gli occhi della mente, inizia a guardare il mondo per quello che esso è, si mette a riflettere e dice a se stesso: la natura è più importante di me, la cultura è più importante di me, la giustizia è più importante di me, ci sono mille cose più importanti di me. Chi sente questa attrazione della verità e acconsente al suo richiamo è un essere umano educato eticamente. Il che lo conduce a vivere in modo da fare di sé non un arrivista vorace, ma un soggetto responsabile e maturo, consapevolmente collegato a un codice di valori. L'educazione etica fa sì che un essere umano ponga consapevolmente la sua libertà a servizio non più di se stesso ma del bene, della giustizia, della bellezza. L'etica si fonda su due pilastri: valore + libertà. E l'educazione etica è educazione della libertà al senso del valore.

Ma come viene impartita oggi l'educazione ai giovani nelle nostre scuole? A me pare che sia tutta concentrata sul secondo livello, quello dell'educazione come istruzione, mentre vengono sistematicamente ignorate sia l'educazione come arte delle relazioni sia l'educazione etica. Questo significa che il nostro sistema scolastico, ovvero il laboratorio dove si prepara il futuro di un Paese, guarda ai nostri giovani unicamente come a soggetti da istruire per renderli preparati e operativi in funzione della struttura economica. L'educazione è ridotta unicamente a istruzione. Il punto però è che l'istruzione, che ovviamente è importantissima e anzi indispensabile, non è sufficiente per ottenere la pienezza dell'educazione, la quale suppone anche gli altri due livelli dell'impresa educativa: l'arte del vivere insieme agli altri con rispetto e gentilezza, e l'etica in quanto vita responsabile e affidabile.

Così oggi noi, invece di avere persone adeguatamente educate, non solo istruite ma anche gentili e rispettose e moralmente affidabili, abbiamo (quando va bene) dei competenti. Non importa poi che il loro linguaggio sia volgare, che il loro agire sia prepotente e villano, che la loro condotta etica sia alquanto imbarazzante per non dire di peggio, perché si ritiene essenziale solo che sappiano brillantemente la loro materia. Occorrerebbe però non dimenticare mai il seguente avvertimento del filosofo laico Benedetto Croce: «Senza religiosità, cioè senza poesia, senza eroismo, senza coscienza dell'universale, senza armonia, senza sentire aristocratico, nessuna società vivrebbe». Sottolineo l'espressione «sentire aristocratico», che equivale a nobiltà d'animo, e mi chiedo: da dove nasce in un essere umano la nobiltà d'animo se non dall'attrazione esercitata dall'etica?

Ma a essere decisiva è la valenza politica dell'affermazione di Croce, ovvero l'idea che la vita di una società dipende strettamente dal livello di educazione etica dei cittadini. Un alto livello di eticità produce automaticamente una società unita, coesa e accogliente. Un basso o inesistente livello di eticità produce al contrario una società lacerata, caotica e invivibile. Basta conoscere un po' il mondo per rendersi conto che è così. Il triste paradosso, però, è che da noi il laboratorio in cui si prepara il futuro del nostro Paese ha dimenticato completamente l'educazione etica, e direi l'educazione in generale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ma attenzione. L'imminente arrivo dell'intelligenza artificiale nelle nostre vite implica più urgentemente che mai il recupero della pienezza del concetto di educazione, se ci vogliamo salvare come esseri umani e non finire ridotti a elementi performanti eterodiretti. Le macchine vengono istruite tramite le istruzioni impartite dai programmatori ed esse eseguono fedelmente il compito ricevuto. Noi però non siamo macchine, per lo meno non ancora. E non lo diventeremo se sapremo recuperare i due livelli oggi trascurati del concetto di educazione, vale a dire l'arte del vivere insieme agli altri con rispetto e gentilezza e l'etica quale passione per il bene e la giustizia. Non solo i nostri ragazzi, anche tutti noi ne abbiamo davvero bisogno.

La Stampa


DAI CONFINI DELLA NOTTE


La raccolta completa di versi della più grande poetessa iraniana, diventata simbolo della rivoluzione delle donne.  Una voce alta e luminosa, che echeggia e trascina, che canta amore e libertà.

 

In un brevissimo arco di vita Farrokhzad ha lasciato un segno profondo nella cultura di tutto il mondo: paragonata alla Achmatova, a García Lorca, a Sylvia Plath, celebrata come una figura di rottura e ribellione, è stata traduttrice, cineasta, attrice, ma soprattutto una grandissima poetessa. 

Lette oggi, nel clima di persecuzione e morte che circonda le donne iraniane impegnate a cambiare le regole del loro mondo, suona come una straordinaria anticipatrice, una femminista pura: ma è stata ed è un’artista senza tempo, fuori dal tempo, che ha vivificato la grande tradizione poetica del suo paese raccontando passione e dolore, tormenti intimi e sussulti dell’anima con una voce onesta, musicale, calda, esplicita.

La sua opera è stata a lungo bandita in Iran ed è circolata lo stesso sottobanco. Questa edizione è la prima completa in italiano di tutte le sue poesie.

 

Farrokhzad, IO PARLO DAI CONFINI DELLA NOTTE, ed. Bompiani, ottobre 2023



 

sabato 28 ottobre 2023

SE NON AMI

AMARE DIO e I FRATELLI

 - XXX Domenica del Tempo Ordinario A-

 - Vangelo: Mt 22, 34-40

 Commento del Card. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme

 Siamo all’ultima delle tre controversie suscitate dagli avversari di Gesù con lo scopo di metterlo in difficoltà, di screditare tra la folla quella fama di profeta che via via si era diffusa grazie ai suoi gesti e alle sue parole.

 La prima (Mt 22,15-21) l’abbiamo ascoltata domenica scorsa, quella riguardante il tributo da dare o meno all’imperatore: Gesù aveva risposto spostando il livello del problema e invitando i suoi interlocutori a guardare più in profondità, per vedere l’immagine che ogni cosa porta in sé, per distinguere ciò che porta l’immagine di Dio e a Lui va restituito, e quello che invece porta l’impronta dell’uomo, e come tale va trattato.

 La seconda (Mt 22,23-33) riguardava la risurrezione dei morti: anche qui Gesù cambia la prospettiva, e ricorda ai sadducei che lo interrogano che Dio è fedele alla vita dell’uomo, e questa fedeltà colma d’amore è il fondamento della speranza nella risurrezione.

 Oggi (Mt 22,34-40), la questione posta da uno scriba riguarda la Legge, e chiede a Gesù qual è il grande comandamento.

 Vorrei soffermarmi innanzitutto su due punti. Il primo è che la questione è molto importante, esattamente come era importante, domenica scorsa, saper guardare bene e saper distinguere l’immagine incisa sulla moneta di Cesare.

 Sapere quale sia il più importante comandamento significa aver capito quale è la strada verso una vita buona, verso una vita bella. Non si tratta tanto di assolvere un dovere, di acquisire comportamenti corretti, ma di saper scegliere la strada della vita.

 Il secondo è che la strada della vita c’entra con l’amare.

 La risposta di Gesù, infatti, dice che per avere una vita buona bisogna saper amare.

 Dio, per primo, ama la vita dell’uomo, come Gesù ha sottolineato nella controversia sulla resurrezione.

 E Dio, per primo, chiede di essere ricambiato nell’amore, chiede di essere amato: non di essere servito, non di essere onorato, non di essere adorato. Dio chiede una relazione di amore.

 Infine, ci soffermiamo su alcuni termini. Lo scriba chiede quale sia il grande comandamento (Mt 22,36). 

Gesù risponde citando un passo del Libro del Deuteronomio (6, 4-8), ma corregge anche la domanda: questo, dice, non solo è il grande comandamento, ma è anche il primo.

 Il grande dice di qualcosa di importante, di più importante rispetto a tutto il resto, che è più piccolo. Il primo, invece, dice qualcosa che sta alla base, da cui tutto deriva, qualcosa che non sta da solo. Se c’è un primo, vuol dire che poi ce ne sono altri.

 E Gesù, infatti, cita subito il secondo, cosa che lo scriba non gli aveva chiesto: se il primo comandamento è quello di amare Dio, il secondo è quello di amare il prossimo, e aggiunge che questi due comandamenti, il primo e il secondo, insieme, sono il fondamento di tutto, della Legge, dei Profeti, della vita.

 Per capire questo, può esserci d’aiuto la Parola dei Profeti che hanno accompagnato la Storia della salvezza: il grande inganno è sempre stata quella di pensare di poter amare Dio senza dover amare i fratelli.

 I grandi profeti sono stati inviati a ricordare che questo non era assolutamente possibile: Dio non sopportava un culto, una devozione fatta a Lui che poi lasciasse alla porta il povero; non ammetteva che si amasse Lui e si percorresse la via dell’ingiustizia e dell’iniquità.

 E la domanda dello scriba, che chiede quale sia il grande comandamento, è forse eco di questo inganno, uno strascico di questa illusione, di questa pretesa.

 La legge per una vita buona non può non tenere insieme questi due comandamenti: non si può amare Dio senza amare i fratelli.

 Anzi, Gesù fa un passo ulteriore. Se si vuole amare Dio, l’unica strada è amare il fratello, come vedremo tra qualche domenica, alla fine dell’anno liturgico: con la scena del giudizio (Mt 25,31-46), Gesù ci dirà che, in fondo, questi due comandamenti coincidono, e qualunque gesto d’amore fatto al fratello nella gratuità, sarà considerato come fatto a Dio.

Insieme, amare Dio e amare il fratello, sono il primo comandamento, un unico comandamento, il fondamento da cui tutto deriva.

 +Pierbattista

IL MALE CI INTERROGA


NEL SAPERSI INTERROGARE SUL MALE  STA LA FORZA DELLA NOSTRA UMANITÀ


L’enigma intellettuale e morale che continua a sfidarci 


-         di GIOVANNI SCARAFILE

 

Quando il male irrompe inaspettatamente nelle nostre vite, la coscienza si trova catapultata in uno stato di profondo turbamento. Questa irruzione, spesso incomprensibile e inattesa, ci spinge a interrogarci sulle profondità della nostra essenza, facendoci sentire incredibilmente vulnerabili e smarriti. L’esperienza travolgente del male, nella sua cruda ineffabilità, rende qualsiasi tentativo di descriverlo o di circoscriverlo verbalmente una battaglia ardua e forse persino vana. Eppure, nonostante la tentazione di rifugiarsi nel silenzio, l’anima sente una pressante necessità di dare voce al proprio sconcerto, di cercare parole che possano lenire, se non spiegare, l’indicibile dolore.

 Nel tempo, la riflessione filosofica sul male ha generato molteplici interpretazioni. Una delle distinzioni più significative in questo ambito è tra il male commensurabile e il male incommensurabile. Il primo, in quanto misurabile, si presta a forme di analisi e comparazione, permettendo una categorizzazione che ne stabilisce la natura, le cause e le possibili soluzioni. Si tratta di mali che, seppur devastanti, rientrano in una griglia di comprensione che l’essere umano può, in qualche modo, affrontare e su cui può riflettere. Il male incommensurabile, invece, rappresenta una categoria del tutto differente. Esso sfugge alle nostre metriche, alle nostre categorie, sconcertando la nostra capacità di comprensione. Questo genere di male solleva domande profonde sulla natura stessa dell’esistenza, poiché non può essere facilmente spiegato né razionalizzato. Si potrebbe pensare a tragedie senza apparente motivo, a sofferenze senza causa identificabile o a eventi traumatici incomprensibili. Una tentazione comune nella filosofia e nella teologia è di considerare il male come una necessaria ombra del bene, come una sorta di contrappunto che evidenzia e magnifica la presenza del bene. Questo argomento, tuttavia, diventa problematico di fronte al male incommensurabile. Come può, infatti, un male apparentemente senza motivo o spiegazione servire a esaltare il bene? E come può un Dio benevolo, se concepito in tal modo, permettere tali mali?

 Rispondere a queste domande richiede il ricorso alla razionalità che possediamo, benché limitata e incapace di svelare pienamente i misteri della fede. Questo non implica una rinuncia, ma piuttosto l’adozione di una postura che, pur mantenendo intatto il mistero del male, ci offra una percezione almeno parzialmente comprensibile. Come suggerito nei Saggi di teodicea da Leibniz, ciò che possiamo permetterci è «una spiegazione sufficiente per credere, ma mai abbastanza per capire” . Superare questa soglia ci espone invece a «parole destituite di senso», come peraltro la vicenda di Giobbe insegna.

Nel contesto di una riflessione sulla natura del male, è importante distinguere inoltre tra male fisico, male morale e male metafisico. Mentre altre forme di male possono derivare da forze esterne o da circostanze incontrollabili, il male morale scaturisce da un conflitto interno tra ciò che si sa essere giusto e ciò che si decide di fare. Questa forma di male, infatti, si svela quando un individuo, pur avendo la chiara consapevolezza delle possibili sofferenze che potrebbe causare, decide comunque di agire in modo dannoso. La specificità del male morale risiede proprio nella deliberata scelta di nuocere, in opposizione alla propria consapevolezza del bene. La presenza del male morale pone notevoli sfide al pensare. Una delle principali difficoltà è capire come, in presenza di una coscienza che riconosce il bene, possa emergere la scelta deliberata di compiere azioni dannose. Questo interroga le fondamenta stesse della nostra comprensione della libertà, della responsabilità e dell’essenza dell’etica. Nelle parole scritte in Fede e critica da Guido Morselli – «bisogna, ragionando, convincersi che il ragionamento non è sufficiente» – si manifesta il culmine di una riflessione che interroga le frontiere stesse della ragione. Morselli suggerisce non solo l’essenzialità del ragionamento, ma anche la sua potenziale inadeguatezza nel sondare l’abisso del male. Di fronte a tale enigma, la nostra coscienza si scontra con il paradosso di voler comprendere ciò che spesso appare incomprensibile. Il dilemma non è solo intellettuale ma profondamente esistenziale: il male, infatti, oltre a essere una sfida filosofica e teologica, è anche una questione profondamente personale. Ogni individuo, nel corso della sua vita, deve trovare un proprio modo di affrontare e dare un senso alla sofferenza e all’ingiustizia. E, nonostante le risposte possano essere diverse, ciò che accomuna tutti gli esseri umani è la ricerca incessante di significato, di speranza e di redenzione.

 Cercare di capire il male, nonostante la sua devastazione apparentemente insensata, è dunque una testimonianza del nostro profondo bisogno di cercare significato. 

Ma forse, il vero valore risiede non tanto nel trovare una risposta definitiva ma nell’avere il coraggio di porre la domanda. 

Nel nostro continuo interrogarci riscopriamo l’umanità dell’animo umano. E in questo sforzo risiede la nostra vera forza.

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PER UN'ECOLOGIA DEL CUORE

 Il Vangelo

 delle briciole

 

         di José Tolentino Mendonça

 

Abbiamo bisogno di un’ecologia del cuore che ci renda consapevoli di come gli esseri sono in connessione tra di loro.

 Abbiamo bisogno di diventare persone capaci di cura, praticando una responsabilità operativa nei riguardi di ciò che è comune, e non soltanto di quel che è nostro. Abbiamo bisogno di ascoltare i gemiti della terra così come ascoltiamo i gemiti del nostro corpo. Abbiamo bisogno di coltivare il fragile e fremente ruggito che pulsa in ogni vivente e acquista forza quando si sente riconosciuto e rassicurato. Abbiamo bisogno di uno sguardo che rimanga affascinato da tutte le creature e della capacità di integrarle nella grande e plurale danza della vita che sempre ci supera.

 Abbiamo bisogno di un’arte del riciclo, che ci insegni a dare una seconda opportunità alle cose che buttiamo via con tanta facilità.

 Abbiamo bisogno di un paziente impegno a trasformare, riconvertire, rammendare, riparare, risignificare, invece della nostra dispendiosa corsa ai consumi. Abbiamo bisogno di accettare il limite, di riconoscere che è già sufficiente e di fermarci, di far dipendere di meno la nostra soddisfazione dai falsi bisogni o dai nostri egoistici interessi, di pensare non solo a noi stessi e al mondo come siamo adesso, ma all’eco che ancora riverbererà per molto tempo dopo. Abbiamo bisogno di guardare al di là del nostro piccolo mondo per allargare lo sguardo oltre l'orizzonte, verso il futuro che viene.

 Abbiamo bisogno di capire che c’è una continuità fra il tetto che ci mette al riparo e la grande cupola terrestre, tra la nostra casa e la casa comune, tra il bene proprio e il bene di tutti.

 

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venerdì 27 ottobre 2023

GIOVANI PERDUTI

 

Vecchi a 12 anni, orfani di un bene che non gli abbiamo dato

Sono i giovani perduti. 

Gli adulti li hanno traditi con il loro vuoto. Vengono a scuola per odiare o fare altro. Ma sono un grido, un gigantesco grido.

 

-        di Nicola Campagnoli

-       

Chi sono i ragazzi che perdiamo ogni anno per strada? Che la scuola perde e che nessuno ritrova più? Non conta l’età. Già a undici, dodici anni sono come macigni, duri come roccia. Stanno in classe per sfidare il mondo intero: entrano quando vogliono a lezione, se ne fregano dei richiami dei prof – anzi, rispondono con insulti e minacce –, chiedono di uscire e stanno fuori ore intere a fumare nei corridoi o nei bagni.

 Durante la lezione ridono, si truccano se sono ragazze, parlano a voce alta, mangiano continuamente patatine e merendine (ma non ingrassano mai, tanto grande è la catastrofe interiore che li consuma), riempiono il banco di fogli, foglietti, forbici e nastri adesivi, pennarelli con cui imbrattano le pareti bianche. Se il docente li rimprovera, gli bestemmiano in faccia e hanno dentro il corpo un’energia forzuta impossibile da contenere. Hanno rabbia, sono un’aggressione vivente. Dividono il mondo dei coetanei e degli adulti in amici e nemici. Sei nemico perché si convincono che li guardi male o li guardi storto. E se passi lungo il corridoio ti gridano di non guardarli negli occhi. Altrimenti sei amico perché così ha deciso il loro umore quotidiano.

 Cosa è successo a questi “perduti”? È accaduto che non credono più che ci sia qualcosa per loro. Non sono violenti per una cattiva educazione, sono cattivi perché per anni hanno visto intorno a sé gente senza ideali, tranne “l’usura, la lussuria e il potere” (Eliot). Per anni non si sono sentiti aspettati da nessuno e di conseguenza hanno dedotto che nella realtà non ci fosse alcuna positività amorosa, affettiva, che li attendesse. Uno a dodici anni può essere già vecchio perché la sua vita non ha scopo. Non ha orizzonte. A dodici anni uno ti può guardare con uno scetticismo che neppure un sessantenne deluso dalla vita possiede. È uno sguardo ancora peggiore di quello dell’adulto, perché nasce da occhi teneri, da occhi bambini, al cui fondo non c’è più alcuna richiesta d’amore. Perché – si dicono – l’amore non esiste.

 Sembra di risentire i versi di Primo Levi: “Cercavo te nelle stelle/ quando le interrogavo/ bambino… Perché mancavi, nelle lunghe sere/ meditai la bestemmia insensata/ che il mondo era uno sbaglio di Dio/ io uno sbaglio del mondo”. I loro occhi guardano il mondo, ma nel mondo non c’è niente che assomigli al loro nome. Allora usano il loro corpo come si usa un’arma infuocata. Ci pestano sopra come fosse un asfalto di periferia su cui sputare. Guardano e ridono di un sogghigno senza divertimento e senza gioia. Aspettano solo di consumarsi e di morire, forse, se poi la morte esiste per davvero. Suonata la campanella di fine scuola, i perduti vanno poi a ingrossare le cronache violente e rissose dei sabati sera, fatti di alcool fumo droghe e carabinieri. Le strade nere li inghiottono di nuovo, come si ingoia la polvere lasciata dai fuoristrada.

 I servizi sociali, le magistrature, le forze dell’ordine e alfine la scuola, se li rimpallano. Finché non accade il peggio, il disastro, la tragedia. Allora per due giorni se ne parla sui giornali e nelle tv, con le massime di esperti e psicologi che fanno la lezione. Cercando i colpevoli. Rincorrendo i fantasmi.

 I perduti, sempre di più, sempre in aumento, fra i ragazzi, fra gli studenti, fra il popolo dei giovani, sono un grido. Sono il grido. Sono il segno di un uomo che non sa più guardare il desiderio infinito del proprio cuore. O forse – o certamente – i perduti sono le lacrime stesse di quel cuore che piange la sua disperazione perché questo mondo adulto ha pensato che si potesse vivere di conquiste limitate di soldi, di sesso, di potere. 

E questo solo ha lasciato in eredità.

 Il Sussidiario

SIAMO TUTTI EBREI E PALESTINESI

 

-         di Giuseppe Savagnone

 

Uno scontro senza precedenti

Ha suscitato un’ondata di violentissime polemiche l’intervento, al Consiglio di sicurezza, del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, a proposito della drammatica crisi esplosa il 7 ottobre scorso con l’attacco di Hamas ad Israele.

 L’ambasciatore israeliano all’ONU, Gilad Erdan ha immediatamente reagito con estrema durezza al discorso di Guterres, definendolo «completamente disconnesso dalla realtà della nostra regione» e chiedendo le sue immediate dimissioni: «Il segretario generale dell’ONU, che mostra comprensione per la campagna di sterminio di massa di bambini, donne e anziani, non è adatto a guidare l’ONU. Lo invito a dimettersi immediatamente».

 Gli ha fatto eco il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, anche lui presente alla riunione: «Signor segretario generale, in che mondo vive? Sicuramente non nel nostro». L’ONU, ha aggiunto il ministro israeliano, «non avrà motivo di esistere» se le nazioni che la compongono non si schiereranno dalla parte di Israele «e dalla parte dei principi fondamentali dell’umanità descritti nella Carta dell’ONU».

 Su questa linea, un comunicato il Forum delle famiglie dei dispersi e dei rapiti nell’attacco di Hamas ha definito «scandalose» le dichiarazioni di Guterres. Secondo il Forum, il segretario dell’ONU «ignora vergognosamente il fatto che sabato 7 ottobre è stato perpetrato un genocidio contro il popolo ebraico e ha trovato un modo indiretto per giustificare gli orrori che sono stati commessi contro gli ebrei».

 La clamorosa rottura ha avuto anche degli effetti pratici. Continuando la sua aspra polemica con Gutierres, Erdan ha detto, parlando alla Radio militare: «Viste le sue parole, negheremo il rilascio dei visti ai rappresentanti dell’ONU. Del resto, abbiamo già rifiutato il visto al sottosegretario per gli affari umanitari Martin Griffiths. È arrivato il tempo di dare loro una lezione».

 È stata questa la posizione anche di molti giornali italiani. «Repubblica», con un titolo di scatola in prima pagina, dava così la notizia: «L’ONU attacca Israele. “Hamas ha le sue ragioni”». (A dire il vero, è stato notato che la frase “Hamas ha le sue ragioni” attribuita a Guterres e virgolettata, come una citazione testuale, in realtà il segretario dell’ONU non l’ha mai pronunziata)

 Anche secondo l’ANSA Guterres «accusa» Israele, provocando uno «scontro» alle Nazioni Unite.

 E uno dei più autorevoli opinionisti italiani, Paolo Mieli, sul «Corriere della sera», ha commentato: «Il segretario generale Antonio Guterres, dopo parole di condanna all’attacco del 7 ottobre che potevano apparire insincere, ha ricondotto la responsabilità dell’accaduto a “cinquantasei anni di soffocante occupazione israeliana”. Un’enormità. Parole dall’innegabile sottinteso giustificazionista».

 «L’atto originario dell’attuale conflitto», continua Mieli nel suo editoriale – significativamente intitolato «Il mondo alla rovescia» – , «gli oltre mille abitanti di Israele sgozzati, bruciati vivi e in parte rapiti, quell’atto è pressoché scomparso dall’universo della comunicazione. Ha dovuto cedere il passo al “genocidio” perpetrato contro la popolazione di Gaza cui allude il segretario dell’ONU». E definisce «impressionante» questo modo di guardare «il mondo alla rovescia».

 Il discorso di Guterres

Ma che cosa ha detto effettivamente il segretario generale dell’ONU? Riporto di seguito la traduzione testuale delle parti più significative del suo intervento:

 «Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili – o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni».

 Al tempo stesso, però, ha continuato, «è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite».

 Poi ha aggiunto: «Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese».

 E che una simile “punizione” sia in atto, secondo Guterres, è innegabile: «L’incessante bombardamento di Gaza da parte delle forze israeliane, il livello di vittime civili e la distruzione di quartieri continuano ad aumentare e sono profondamente allarmanti.

 Piango e onoro le decine di colleghi dell’ONU che lavorano per l’UNRWA [l’Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati] – purtroppo almeno 35 – uccisi nei bombardamenti su Gaza nelle ultime due settimane (…).

 Proteggere i civili non significa ordinare a più di un milione di persone di evacuare verso sud, dove non ci sono ripari, cibo, acqua, medicine e carburante, e poi continuare a bombardare il sud stesso. Sono profondamente preoccupato per le chiare violazioni del diritto umanitario internazionale a cui stiamo assistendo a Gaza. Voglio essere chiaro: nessuna parte di un conflitto armato è al di sopra del diritto internazionale umanitario».

 Quanto al “dopo”, rimane valida la linea indicata dall’ONU nel 1947, che costituisce ancora oggi, secondo Guterres, «l’unica base realistica per una vera pace e stabilità: la soluzione dei due Stati. Gli israeliani devono vedere concretizzate le loro legittime esigenze di sicurezza e i palestinesi devono vedere realizzate le loro legittime aspirazioni a uno Stato indipendente, in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite, il diritto internazionale e gli accordi precedenti».

 Una strage senza cause?

Ho voluto riportare per intero i brani più discussi del discorso di Guterres, perché mi sembra che la prima considerazione da fare riguardi le interpretazioni che ne sono state date. In cui a me pare evidente che si siano attribuite al segretario dell’ONU – nel caso di «Repubblica» addirittura con un falso – una «comprensione» (Erdan), anzi addirittura «una giustificazione» (Cohen) della strage compiuta da Hamas, che nel suo discorso sono non solo assenti, ma esplicitamente escluse.

 Guterres ha detto chiarissime parole di condanna all’attacco del 7 ottobre – perché mai dovrebbero «apparire insincere» (Mieli)? – e non ha affatto minimizzato quelli che definito «gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas».

 Ha solo aggiunto – ed è questo che ha fatto infuriare i rappresentanti di Israele – una ovvietà, e cioè che «è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla». Non c’è bisogno di uno storico di professione per sapere che ogni evento, anche il più spaventoso, ha le sue spiegazioni.

 E, in questo caso, la spiegazione – che non significa giustificazione – è che «il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione». «Un’enormità. Parole dall’innegabile sottinteso giustificazionista», ha commentato Mieli.

 Ma neppure la giusta indignazione per la ferocia dimostrata dagli uomini di Hamas può far dimenticare che in questi ultimi cinquant’anni Israele ha sistematicamente ignorato e violato tutte le risoluzioni dell’ONU che gli imponevano di rispettare i diritti dei palestinesi.

 Un atteggiamento abituale di aperto disprezzo delle indicazioni di questo organismo – che raccoglie 193 Stati di tutto il pianeta e costituisce ancora, malgrado la sua attuale debolezza, l’unica autorità a livello internazionale – che ora si manifesta nella pretesa di farne dimettere il segretario perché non è in linea con la politica della Stato ebraico  (addirittura, l’ONU, secondo Cohen, «non avrà motivo di esistere» se le nazioni che la compongono non si schiereranno dalla parte di Israele»)  e nella scelta di «dargli una lezione», negando il visto di entrata ai suoi rappresentanti.

 È difficile non avere l’impressione di una seria difficoltà di auto-critica, da parte di Israele (come del resto da parte di Hamas), che purtroppo esclude ogni possibilità di un futuro di pace.

 Se non si accetta di mettere in relazione ciò che accaduto con l’occupazione da parte israeliana del territorio che l’ONU, con la risoluzione del 1947, aveva assegnato al popolo palestinese; con la costruzione del muro che lo ha spaccato in due; con la illegale  proclamazione di Gerusalemme – la città santa degli ebrei, ma anche dei musulmani e dei cristiani (che per questo, sempre secondo la decisone dell’ONU, avrebbe dovuto rimanere internazionale)  – nella capitale dello Stato ebraico; con il moltiplicarsi degli insediamenti illegali  di coloni israeliani sulle residue terre rimaste in mano agli antichi abitanti palestinesi; con la recentissima scelta del governo di Netaniahu di promuoverne altri e di presentare un progetto in cui lo Stato palestinese non figura affatto; se non si accetta, insomma, che «gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla», come ha detto Guterres, la sola risposta possibile ad essi è una violenza assolutamente simmetrica, che sta uccidendo donne e bambini palestinesi per vendicare quelli  ebrei massacrati il 7 ottobre.

Una causa, a dire il vero, è stata indicata nei riferimenti dei rappresentanti e delle famiglie israeliani alla «campagna di sterminio di massa» e al «genocidio». Si evoca l’ombra della Shoah e dell’antisemitismo e c’è davvero una frangia dell’opinione pubblica mondiale che, nelle manifestazioni di questi giorni, è sembrata animata dall’odio verso gli ebrei come tali.

 Ma non si può ricondurre automaticamente a questo antisemitismo ogni critica alla politica dello Stato ebraico, specialmente quando questo, a sua volta, dà l’impressione di violare negli altri quei diritti umani elementari di cui in passato è stato privato e di trasformarsi, da vittima, in carnefice.

 Di fronte all’antisemitismo, noi siamo tutti ebrei. Ma nessuno può criminalizzare il fato che – di fronte a ciò che sta accadendo in questi giorni a Gaza –  siamo anche tutti palestinesi.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura della Diocesi di Palermo.

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