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sabato 30 settembre 2023

IL VIDEO DELLA DISCORDIA


Ha suscitato un vespaio di polemiche lo spot pubblicitario di una nota catena di supermercati in cui molti hanno visto una colpevolizzazione delle coppie separate e una difesa ideologica della famiglia tradizionale, in contrasto con altri che invece l’hanno apprezzato e difeso.

 

- di Giuseppe Savagnone*

 È opportuno, prima di tutto, spiegare di cosa parliamo. Si tratta di un piccolo cortometraggio, di due minuti, di cui è protagonista una bambina. Nella prima scena, all’interno di un supermercato, la mamma la cerca preoccupata e poi la trova vicino al banco della frutta. «Vuoi una pesca? Potevi dirlo», la rimprovera. Poi tornano a casa e la madre, in macchina, cerca di parlare con la bambina, che però è visibilmente assorta e triste.

 Nella scena successiva suonano alla porta. Si capisce che è venuto il padre a prenderla, perché i genitori sono separati. La bambina entra nell’auto, tira fuori la pesca dallo zainetto e la porge al padre con un sorriso: «Te la manda la mamma».

 Sembra passato un secolo dai caroselli che presentavano un’immagine idilliaca della famiglia, come quella proverbiale de «Il Mulino bianco». L’idea dello spot è piuttosto di rappresentare quella reale, che abbiamo tutti sotto gli occhi, con tanti genitori separati o divorziati e i figli che fanno la spola tra il papà e la mamma.

 Ma è proprio questo che ha suscitato accese discussioni sui social e ha avuto perfino una ricaduta a livello politico. Tra i primi a puntare il dito contro la pubblicità, l’account «Aesteticasovietica», che ha commentato: «Ma è il nuovo spot o un’enciclica contro il divorzio?» e ha accusato lo spot di scatenare un «feroce disumano, giudicante senso di colpa» nei genitori separati. «La tossicità di questa narrazione», secondo l’account, «consiste nel considerare come necessariamente drammatica una separazione che invece molto spesso coincide con una liberazione».

 Sulla stessa linea un altro blog “alternativo” molto seguito, «Mammadimerda», secondo cui il video «in un solo colpo rinforza sensi di colpa e stigmatizza divorzio e figli di divorziati», mentre i tempi sono maturi per «scindere il concetto di coppia da quello di famiglia e quello di famiglia dalla genitorialità».

 Di parere opposto lo psicoterapeuta Alberto Pellai: «La pesca che la bambina dona al suo papà, dicendo che gliel’ha data la mamma, è un’onda che arriva e travolge noi adulti perché ci mostra che nessun bambino è mai felice quando due genitori si separano. E questa è l’unica verità di cui dobbiamo diventare consapevoli. Questo spot ce la racconta. E ce la racconta bene. Non stigmatizza, non condanna, non colpevolizza, al contrario fa ciò di cui tutti i bambini hanno bisogno quando due genitori si separano: responsabilizza gli adulti. Forse per questo è così divisiva e perturbante».

 Voci isolate di persone che non hanno altro a cui pensare, dirà qualcuno. E invece no. La discussione sullo spot si è scatenata sui social e ha diviso l’opinione pubblica, trovando una risonanza anche a livello politico.

 È intervenuta addirittura la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha definito il video «molto bello e toccante». Poi è stata la volta del vice-premier, Matteo Salvini, che lo ha considerato «uno splendido messaggio di Amore e Famiglia».

 Da parte loro, invece, non hanno risparmiato critiche gli esponenti della Sinistra: «Mi sembra davvero sbagliato, in questo e in altri casi, mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali», ha scritto Pier Luigi Bersani su Twitter.

 All’apprezzamento della premier ha reagito, da parte sua, l’esponente di Sinistra italiana Nicola Fratoianni: «Presidente Giorgia Meloni, vedo che commenta lo spot di una nota catena di supermercati ma che non dice nemmeno una parola sul carrello della spesa di milioni italiani, separati e non. Per loro anche una pesca rischia di diventare un lusso. L’Italia attende risposte».

 Davanti a questa inattesa risonanza, la catena dei supermercati che ha commissionato la pubblicità ha preso le distanze da ogni interpretazione ideologica. «Con il film “La Pesca”» – ha chiarito un comunicato del gruppo – «si è voluto porre l’accento sull’importanza della spesa, che non viene vista solo come un acquisto, ma descritta come qualcosa che ha un valore più ampio».

 Una “filosofia” che nasconde qualcosa

Forse è il caso di dire subito che la sorpresa e perfino l’irritazione di alcuni, di fronte a tante discussioni su una banale pubblicità, non tengono conto che, da sempre, i messaggi commerciali veicolano spesso, senza che gli utenti se ne rendano conto, un modo di vedere la vita e la realtà destinati ad influenzarli.

 Le immagini, gli slogan, anche quando sembrano riguardare solo dei prodotti, non sono innocenti. Sono studiati da esperti in modo da toccare zone inconsce della psiche umana, influenzandola ben al di là dell’obiettivo immediato del singolo acquisto. Dietro molti messaggi di cui siamo oggi giorno destinatari, fin dalla più tenera infanzia, c’è una “filosofia”.

 Che una volta tanto – ma dovrebbe capitare più spesso – se ne stia prendendo coscienza e discutendo apertamente, dipende forse dal fatto che si tratta, questa volta, di una provocazione che è in contrasto con quella del politically correct dominante.

 Nei nostri spot pubblicitari, ma anche nel cinema e nelle serie televisive, il grande protagonista è ormai da tempo il single, legato a un partner da un rapporto opzionale e non vincolante, in nome di una libertà che ha orrore per i legami definitivi: «Stiamo insieme finché stiamo bene insieme». E così saremo tutti felici e contenti.

 Questa immagine rassicurante nasconde in realtà alcune verità scomode. Prima fra tutte quella che ogni nostra scelta, anche la più personale, ricade sempre su qualcun altro. Non è vero, come si sente ripetere, che «la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella degli altri», come se ci fosse un confine al di qua del quale a ognuno è permesso di fare ciò che vuole senza dovere rispondere a nessuno.

 Quella immagine spaziale è illusoria. Il confine non esiste. Nella realtà un professionista che si lascia andare e non crede più nel suo lavoro, non si aggiorna, non si impegna; un padre che trascura la famiglia perché si lascia monopolizzare dalla sua professione; un figlio che si droga o, peggio, si uccide, incidono pesantemente, con le loro scelte – che sono personalissime! – , su coloro che stanno intorno a loro. La libertà è sempre anche responsabilità.

 E questo vale innanzi tutto nei rapporti familiari. Presentare la coppia o la convivenza come l’incontro tra due single che, attraverso il rapporto, cercano la propria realizzazione personale – salvo a cambiare partner se la trovano in un’altra soluzione – nasconde il fatto che attraverso questo incontro nasce qualcosa di più della pura somma di due individui, che è la famiglia.

 Di questa irriducibilità della comunità familiare ai single che la costituiscono e alle loro mutevoli preferenze è segno evidente la presenza dei figli e la responsabilità genitoriale. Qui il legame, lo si voglia o no, è indissolubile. A un figlio non si può dire che «si sta insieme finché si sta bene insieme». E forse anche da questo nasce, oggi, la tendenza, nel nostro paese (e proprio nelle regioni più ricche), a non farne più.

 Una “liberazione” per i figli?

Perciò, nella logica del politically correct, si deve anche nascondere che la scelta di rompere un legame di coppia non riguarda soltanto i coniugi o i compagni, ma ricade sulla pelle dei loro figli, che non possono difendersi.

 A questo scopo, ci si sforza di sottolineare che non bisogna «considerare come necessariamente drammatica una separazione che invece molto spesso coincide con una liberazione». Come scrive anche Gramellini sul «Corriere della sera»: «Molte coppie divorziano proprio per evitare che i figli crescano tra le tensioni». Insomma, è per il loro bene.

 Dimenticando di aggiungere che è proprio la “filosofia” del single, con la sua logica autocentrata, che porta sempre più frequentemente a esasperare e drammatizzare queste tensioni – da sempre inevitabili in una comunità come quella familiare (ma anche in tute le altre vere comunità) – e a renderle decisive per una rottura definitiva.

 In realtà, i teorici della nonviolenza spiegano che i conflitti, se correttamente gestiti, sono fisiologici e possono costituire occasione di crescita e di accettazione reciproca. Solo se degenerano in violenza, fisica o psicologica, diventano un motivo per eliminare l’altro – fisicamente o moralmente – dalla propria vita. Ma questo dipende molto dal modo di affrontarli e di viverli.

 La crisi che porta alla rottura di una famiglia non è un destino inesorabile, ma il frutto di atteggiamenti e di scelte che hanno un margine di libertà. Senza mai dimenticare che le loro conseguenze non riguardano solo coloro che li fanno propri, ma ricadono sui più deboli.

 Il video pubblicitario, involontariamente (era fatto per il mercato), mette in luce questa scomoda verità. Quello che non si capisce è perché essa sia “di destra” e come tale venga attaccata dalla “sinistra”.

 È noto che tanto Fratelli d’Italia quanto la Lega hanno sempre sbandierato la loro fedeltà al valore della famiglia (Forza Italia, dato l’esempio del comportamento sessuale del suo fondatore, non ne ha avuto il coraggio). Ma è significativo che Giorgia Meloni non si sia mai voluta sposare e Salvini sia divorziato, passando da una compagna all’altra. È questo il modello? E poi di quali famiglie si tratta? Solo di quelle italiane? E quelle che vengono lasciate annegare nel Mediterraneo, oppure vengono relegate in centri di accoglienza disumani, dove ogni intimità familiare viene cancellata?

 Reciprocamente, è davvero sorprendente che l’alternativa proposta dalla sinistra – evidenziata anche dalle proteste nei confronti dello spot – sia un individualismo che, in nome della rivendicazione indiscriminata dei diritti, mette in ombra il tema delle responsabilità. Questa è la tradizione liberal-radicale, non quella socialista e neppure quella cattolica, le due anime da cui era noto il PD.

 Forse oggi i democratici, prima di contare le loro preferenze nei sondaggi, dovrebbero decidere quale deve essere la loro. Magari ripensando seriamente al proprio modo di concepire la libertà e il suo ruolo rispetto alle comunità, prima fra tutte quella familiare. Per evitare che sia uno spot pubblicitario a far saltar fuori il problema.

 - *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu

 

venerdì 29 settembre 2023

IL BUONO E IL CATTIVO


C’è chi nega Dio  ma compie ciò che Dio vuole 

 

- Vangelo - Mt 21,28-32

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: 28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna». 29Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni, infatti, venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

  Commento di Enzo Bianchi

 Gesù ha terminato il suo viaggio verso Gerusalemme, la città santa in cui è entrato acclamato quale Messia, figlio di David, dai discepoli che lo accompagnavano e dalle folle; ha cacciato dal tempio quanti impedivano che fosse una casa di preghiera e ha simbolicamente seccato l’albero di fico che non dava frutti (cf. Mt 21,1-22) Queste azioni causano una profonda indignazione da parte delle autorità religiose legittime ma perverse, “sacerdoti e anziani“, che intervengono pubblicamente chiedendo a Gesù con quale autorità compia quei gesti provocatori. Ma Gesù non risponde, anzi pone loro una domanda riguardo alla missione di Giovanni il Battista: missione voluta da Dio o missione che Giovanni aveva inventato per sé?

Questo interrogativo non riceve però una risposta (cf. Mt 21,23-27), e allora Gesù indirizza loro tre parabole: quella dei due figli, quella dei vignaioli assassini e quella degli invitati al banchetto nuziale (cf. Mt 21,28-22,14). Di fatto sono tre parabole con le quali egli cerca di causare un ravvedimento in quei suoi avversari che poco tempo dopo saranno i suoi accusatori e i suoi condannatori. Le parabole sono per Gesù proprio uno strumento per far cambiare pensiero e atteggiamento a coloro ai quali sono rivolte. Ma qui accadrà esattamente l’opposto. Anziché interrogarsi e convertirsi, sacerdoti e anziani si indigneranno ancor di più e, comprendendo che tali racconti sono rivolti proprio a loro, induriranno ancor più il loro cuore, accrescendo la loro opposizione e il loro odio verso Gesù.

Ascoltiamo dunque la prima parabola, in obbedienza all’ordo liturgico che la prevede per questa domenica: “Che ve ne pare?”, introduzione che è un invito a pensare e a fare discernimento, perché alla fine ci sarà un’altra domanda da parte di Gesù, che richiederà una risposta chiara e decisiva. “Un uomo aveva due figli. Avvicinandosi al primo, disse: ‘Figlio, va oggi a lavorare nella vigna’. Ed egli rispose: ‘Non ne ho voglia’. Ma poi, pentitosi, vi andò”. La risposta iniziale è irriverente, all’insegna di una disobbedienza consapevole. Ma questo figlio che osa resistere alla richiesta del padre e gli nega l’obbedienza, in seguito (hýsteron) cambia avviso, muta di opinione (metameletheís) e va a lavorare nella vigna. Così egli mostra di essersi ravveduto: pensando, ha cambiato parere, e la non voglia si è trasformata per lui in obbedienza possibile.

Entra poi in scena il secondo figlio. Il padre si rivolge a lui allo stesso modo che all’altro, e la risposta che ottiene è positiva: “Sì, Signore (Kýrios)!”, ma poi costui non va. Siamo di fronte a un figlio rispettoso del padre, che lo chiama addirittura signore. È rispettoso forse per paura, perché incapace di dire un no a suo padre. Oppure è rispettoso perché nutrito di formalismo: dice sì al padre, come richiesto dalla legge e dalla prassi, ma poi non esegue la volontà. Forse pensa che il padre non si accorgerà che egli non ha messo in pratica ciò che ha detto… Non conosciamo le motivazioni della non esecuzione dell’invito: resta il fatto che la volontà del padre non è compiuta. Questo secondo figlio si accontenta di fare una dichiarazione verbale secondo il desiderio del padre e non percepisce la propria incoerenza: come un cieco non vede, non legge se stesso…

È evidente che ciò che succede in questa parabola succedeva ai tempi di Gesù, tra i credenti giudei, ma succede ancora oggi nelle comunità dei discepoli, nella chiesa. Sempre ci sono stati, ci sono e ci saranno quanti dicono: “Signore! Signore!”, lo invocano e hanno spesso il suo nome sulla loro bocca, ma poi non fanno la volontà del Padre suo che è nei cieli(cf. Mt 7,21). Le parole di Gesù vogliono smascherare questi credenti che confidano nel loro frequentare assemblee dove risuona la parola del Signore, che partecipano a pasti con il Signore mangiando e bevendo alla sua tavola (cf. Mt 7,22-23; Lc 13,25-27), ma in verità senza essere concretamente discepoli alla sequela di Gesù, nel tentativo di conformare la loro vita alla sua. Militanti, certo, senza essere discepoli!

Grazie a questa parabola siamo invitati a discernere nel nostro oggi quelli che di fatto, senza saperlo, sono rappresentati dal primo o dal secondo figlio: uomini religiosi che vantano appartenenza confessionale e parlano, parlano…; dicono sì alla volontà di Dio, ma quotidianamente non la realizzano, perché per loro è più importante apparire che essere e fare. D’altra parte, quelli che sembrano dire costantemente no a Dio perché non si mostrano religiosi, perché non proclamano la loro appartenenza religiosa, poi invece la vivono nell’anonimato, nella quotidianità, realizzano la volontà del Signore senza nominarlo e a volte senza conoscerlo. Perfetti anonimi per noi, ma che semplicemente “praticano la giustizia, amano la misericordia e camminano umilmente con Dio” (cf. Mi 6,8). Ecco allora puntuale, alla fine della parabola, la domanda di Gesù: “Chi dei due figli ha compiuto la volontà del padre?”, cui segue la scontata risposta dei sacerdoti e degli anziani: “Il primo!“.

 E allora Gesù li invita a trarre le conseguenze, commentando: “In verità io vi dico: ‘I peccatori manifesti e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio!’”. Parole di Gesù dure come pietre, perché costituiscono il giudizio pronunciato su questi ascoltatori. Ma perché? Non è forse questo paradossale? Eppure, avviene così, perché quelli che pubblicamente appaiono peccatori e sono da tutti ritenuti tali, sono preda della vergogna e sentono in loro il desiderio, più o meno ascoltato, di cambiare vita: desiderano uscire fuori dalla loro vita di peccato, che gli altri disprezzano e condannano. Gli uomini religiosi, invece (qui i sacerdoti e gli anziani, interlocutori di Gesù), che appaiono osservanti ma hanno peccati nascosti, siccome tutti li venerano e tutti guardano a loro per il loro status, non vogliono assolutamente cambiare vita. Gli uni sono dunque aperti a un invito a convertirsi, mentre gli altri si sentono a posto e pensano di non avere bisogno di alcuna conversione: da questo nascono la loro ipocrisia, la loro rigidità, il loro giudicare e spiare gli altri, senza mai interrogarsi su di sé; sono sempre pronti ad assolversi, perché agli occhi della gente risultano giusti e addirittura esemplari…

Lo ripeto, perché sia ben chiaro. Chi pecca di nascosto non è mai spronato alla conversione da un rimprovero che gli venga da altri, perché continua a essere venerato e stimato per ciò che della sua persona appare all’esterno: questa è la malattia della maggior parte delle persone, tra le quali primeggiano però proprio quelle religiose e devote, che credono di dover essere d’esempio agli altri… Chi, al contrario, è un peccatore pubblico, si trova costantemente esposto al giudizio e al biasimo altrui, e in tal modo è indotto a un desiderio di cambiamento. Solo animato da tale desiderio, solo nel pentimento che nasce da un cuore spezzato – questo significa etimologicamente “contrito” (cf. Sal 34,19; 51,19; 147,3) –, l’essere umano può divenire sensibile alla presenza di Dio.

E così Gesù annota che, quando è venuto Giovanni il Battista a chiedere la conversione, i peccatori pubblici hanno risposto fattivamente all’invito e si sono convertiti, mentre i sacerdoti e le autorità religiose, pur avendo visto, nulla hanno mutato del loro comportamento per aderire al suo messaggio. Con questa parabola Gesù interroga dunque ciascuno di noi, se vogliamo ascoltarlo. E ciascuno di noi, più è riconosciuto per la sua professione di fede, più deve interrogarsi: dice sì a Dio solo a parole, oppure realizza senza clamore e senza ostentazione, umilmente, la sua volontà? Insomma, “nell’ultimo giorno, il giorno del giudizio” – come recita un’affermazione tradizionalmente attribuita ad Agostino, che dovremmo tenere ben più presente – “molti che si ritenevano dentro saranno trovati fuori, mentre molti che pensavano di essere fuori saranno trovati dentro il regno dei cieli”.

 

Alzogliocchiversoilcielo




giovedì 28 settembre 2023

ITALO CALVINO

 Cent’anni 

con Italo Calvino

 Quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di Italo Calvino. Riprendiamo la nota distinzione calviniana tra «sfida al labirinto» e «resa al labirinto» [1] per percorrere alcuni sentieri possibili nella complessa, stratificata e multiforme produzione dello scrittore ligure.


- di Diego Mattei

 Vita e formazione

Inquieto, intellettualmente vivacissimo e dalla creatività multiforme, nella vita privata schivo e di poche parole, Calvino costituisce un unicum nel panorama italiano [2].

Il primo tratto precipuo è l’ambiente familiare e d’infanzia. Figlio di due scienziati – il padre agronomo, con esperienze di lavoro internazionale, la madre prima donna a ricoprire in Italia l’incarico di docente di botanica generale –, Italo nasce a Santiago de Las Vegas, nei pressi de L’Avana di Cuba, il 15 ottobre 1923[3]. Entrambi i genitori erano liberi pensatori, agnostici, se non apertamente anticlericali: il padre fu mazziniano, anarchico e poi socialista; la madre atea e socialista. Italo crebbe in un contesto intriso di internazionalità. Sanremo, prima della Seconda guerra mondiale, era luogo di villeggiatura di nobili e ricchi inglesi. Italo stesso fu iscritto a un asilo inglese e poi a una scuola elementare valdese. Estraneo all’influsso culturale fascista, in un clima familiare contraddistinto dalla razionalità scientifica e volterriana, al termine del liceo (dove fu compagno di classe di Eugenio Scalfari) si iscrisse alla facoltà di Agraria, che frequentò prima a Torino e poi a Firenze. Dopo la caduta di Mussolini, Italo riparò a Sanremo, nascondendosi, dopo l’8 settembre del 1943, nella piccola proprietà di famiglia di San Giovanni, per evitare l’arruolamento obbligatorio nell’esercito della Repubblica di Salò. Partecipò in modo attivo alla Resistenza con il soprannome di «Santiago» insieme al fratello Floriano[4], di qualche anno più giovane, combattendo anche alcune battaglie nella Brigata Garibaldi, legata al Partito comunista italiano. Dopo la fine della guerra, si iscrisse alla Facoltà di Lettere e si laureò con una tesi su Joseph Conrad.

 

Fin dal 1946, e per quasi tutto il resto della sua vita, collaborò con la casa editrice Einaudi, ricoprendo molteplici incarichi. Essa fu senz’altro il luogo vero della formazione di Italo. Questo elemento costituisce la seconda caratteristica peculiare della formazione e della figura dello scrittore. Pochissimi altri autori ebbero la possibilità di conoscere il mondo del libro da entrambi i versanti, come autori e come editori; nessuno al livello raggiunto da Calvino. All’alter ego ironico del personaggio del dottor Cavedagna, editore, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, fa dire: «Da tanti anni lavoro in una casa editrice […]; mi passano tanti libri per le mani, […] ma posso dire che leggo?» [5].

 La letteratura italiana è segnata dalla sua impronta, non solo come autore, ma anche come editore. Insieme a Vittorini e Pavese creò un vero e proprio stile di selezione e presentazione dei libri nelle cosiddette «quarte di copertina». Fu proprio Pavese, conosciuto in Einaudi, a spingerlo a scrivere e pubblicare Il sentiero dei nidi di ragno. Negli uffici della casa editrice divenne amico di Natalia Ginzburg, Felice Balbo, Giulio Bollati, Paolo Boringhieri, Renato Solmi e Luciano Foà. Innumerevoli sono state le collaborazioni con giornali e riviste nell’arco della sua vita: dalla sezione torinese dell’Unità, dove scrisse i primi brevi racconti giovanili, fino a la Repubblica, fondata e diretta dall’antico compagno di classe Eugenio Scalfari. Impegnato in politica fino al 1956, dopo i fatti di Ungheria e le scelte dei quadri dirigenti del Pci[6] si dimise dal partito il 1° agosto del 1957.

 Con Einaudi Calvino pubblicò quasi tutti i suoi scritti, che spaziano in una grande varietà di generi. Quando la ricerca intellettuale lo spingeva in direzioni sconosciute ad altri scrittori, egli inventava per sé stesso ruoli inediti. Più che eclettico, fu creativo e razionalmente sperimentatore, «capricciosamente ingegnoso», come afferma Mario Barenghi[7], suo fine interprete.

 Nel 1967 Calvino si trasferì a Parigi. Lì conobbe Roland Barthes, Georges Perec, Raymond Queneau, di cui tradusse Les fleurs bleues, ed entrò nell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle). È l’incontro con la semiologia strutturalista e la tecnica combinatoria. L’una e l’altra segneranno lo stile di Calvino, che lascia decisamente da parte l’impegno politico[8], ancora presente ne Il barone rampante, per riflettere in modo più insistito sul linguaggio e sul valore del linguaggio. Va qui notata la contemporaneità dell’uscita del romanzo con le dimissioni dal Pci, e Cosimo Piovasco di Rondò ne è certo l’alter ego trasfigurato.

 Calvino visse a Parigi per 13 anni, senza mai interrompere le relazioni con Einaudi e con l’Italia, dove trascorreva lunghi periodi nel corso dell’anno e le intere vacanze estive. Sposatosi nel 1964 a Cuba con Esther Judith Singer, traduttrice argentina di religione ebraica, ebbe la figlia Giovanna nel 1965. Rientrato in Italia nel 1980, morì nell’ospedale di Siena il 6 settembre 1985, in seguito a un ictus che lo aveva colpito nella sua casa di Castiglione della Pescaia.

 Il grande numero di saggi, di conferenze, di note di lavoro e di riflessioni teoriche, di varia ampiezza, costituisce un «fondo di lavoro» ricchissimo. Come ha osservato Barenghi, Calvino è uno scrittore che si autopresenta, un autore che come pochi altri ha riflettuto sulla propria produzione, e così accade che chi voglia presentarlo lo realizzi facendo ricorso ai suoi scritti teorici e ai suoi saggi. Lo faremo anche noi.

 La fase neorealistica e fiabesca di Calvino: lo scrivere per immagini

Accogliendo l’immagine usata da Claudio Milanini[9], che descrive la produzione di Calvino come un albero che estende la propria chioma in direzioni diverse (pensiamo che l’immagine sarebbe piaciuta allo scrittore, per il passato di scienza botanica così importante in famiglia) e non si sviluppa in modo lineare progressivo, da A a B a C, individuiamo due grandi periodi della produzione calviniana: il primo va dagli esordi nel 1947 fino al 1963[10]; il secondo dal 1965 alla morte, nel 1985[11].

 Il primo periodo è quello segnato dal neorealismo [12] de Il sentiero dei nidi di ragno e dei racconti di Ultimo viene il corvo [13], al quale l’autore intrecciò poi la ricerca e la scrittura fiabesca[14]. Ancora nel 1955, nel saggio Il midollo del leone egli scriveva: «Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile. […] La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve – mentre impara da loro – insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti» [15]. In Calvino l’intento etico della scrittura è evidente [16].

 Allo stile e alla sensibilità fiabeschi appartengono le opere che gli diedero maggiore notorietà. Ci riferiamo ai due racconti lunghi e al romanzo breve che compongono la trilogia de I nostri antenati, così titolata nell’edizione cofanetto del 1960. Si tratta dei notissimi Il visconte dimezzato del 1951, Il barone rampante del 1957 e Il cavaliere inesistente del 1959.

 Una delle caratteristiche di Calvino è quella di averci regalato personaggi icastici. Altri scrittori italiani del Novecento hanno composto storie più appassionanti e travolgenti, ma solo Calvino nella semplicità di una scrittura controllata, a volte fredda, ma sempre trasparente, è riuscito a inventare e regalare figure simboliche oggi imprescindibili. Riguardo al suo stile, possiamo considerare la nota di Barenghi come appropriata: «Nell’insieme, la ricerca di Calvino segue il principio di contemperare innovazione e leggibilità, tensione sperimentale e forza comunicativa: evitando da un lato di adagiarsi in formule prevedibili e rassicuranti, dall’altro di esasperare la sofisticazione formale al punto di restringere il novero dei destinatari a una élite di specialisti. Di qui la fedeltà a una scrittura tersa e precisa, elegante, ma priva di affettazioni letterarie, che sublima gli usi vivi della lingua, serbando un occhio di riguardo alle attività pratiche (di necessità aderenti ai dati di realtà): uno stile fluente e perspicuo anche nei momenti di maggiore rarefazione, capace di avvicinarsi ai modi dimessi del parlato senza nulla cedere in fatto di proprietà e compostezza» [17].

 L’incipit de Il barone rampante è tra i più noti della letteratura italiana: «Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi» [18]. Nella fondamentale Postfazione ai Nostri antenati, nell’edizione del 1960 che li raccoglie insieme, Calvino racconta come sia arrivato a questo genere, alieno al neorealismo delle prime prove di letteratura: «Così provai a scrivere altri romanzi neorealistici, su temi della vita popolare di quegli anni, ma non riuscivano bene, e li lasciavo manoscritti nel cassetto. […] Se avessi usato un tono più riflessivo e preoccupato, tutto sarebbe sfumato nel grigio, nel triste, perdevo quel timbro che era mio, cioè l’unica giustificazione del fatto che a scrivere fossi io e non un altro» [19].

 Il primo libro della saga, Il visconte dimezzato, nasce in effetti come «passatempo privato», alieno da qualsiasi intento di dichiarazione di poetica, allegoria moralistica o politica. All’inizio c’è un’immagine a cui la scrittura dà spessore e fornisce occasioni di azione. Molti anni dopo, Calvino riprenderà il valore dell’immagine e dello scrivere per immagini nel capitolo dedicato alla «Visibilità» delle fondamentali Lezioni americane [20]. È interessante come in quel saggio egli già avverta e denunci il rischio che l’uomo moderno possa perdere la facoltà di immaginare in autonomia, per la proliferazione di figure ed effigi «artificiali» che ne assediano la fantasia[21]. Inaspettatamente lo scrittore sanremese dedica un esame attento e puntuale all’importanza che l’immaginazione riveste negli Esercizi spirituali (ES) di sant’Ignazio di Loyola, citando in modo esatto la «composizione di luogo» e distinguendo ciò che viene richiesto nel contesto della Prima settimana degli ES e l’esercizio della «Contemplazione del mondo da parte della Trinità» nella Seconda settimana. Colpisce questa conoscenza e il riferimento a un testo spirituale in una produzione letteraria e saggistica che è altrimenti poverissima di riferimenti ecclesiali, e ancor più religiosi e di fede [22]. La conoscenza della Compagnia di Gesù e dei gesuiti doveva però essere antica se nel suo romanzo più compiuto (Il barone rampante) Calvino inserisce in vari passaggi come personaggi avversari i gesuiti [23] e, uno per tutti, il padre spirituale massone Sulpicio de Guadalete.

 In tema di fiabe, non possiamo non citare la Raccolta delle fiabe italiane, che uscì nel 1956 e che rese lo scrittore il quasi-corrispettivo di altri autori in Europa: Hans Christian Andersen in Danimarca; i fratelli Jacob Ludwig Karl e Wilhelm Karl Grimm in Germania; Charles Perrault e Jean de La Fontaine in Francia. Con questa opera Calvino copre un vuoto della nostra letteratura. Fondamentale è l’introduzione della raccolta, scritta dall’autore stesso, in cui descrive la genesi dell’opera e presenta il materiale sul quale ha lavorato. È interessante leggere le pagine di Lavagetto [24], nelle quali viene valorizzato e messo in luce il ruolo compositivo di riscrittura svolto da Calvino, dalla minima elaborazione alla più ampia riscrittura e composizione autonoma. Il frutto di questo lavoro certosino sarà fecondo. L’ascolto minuzioso delle storie semplici delle fiabe permetterà all’autore di conoscere e impossessarsi dei meccanismi delle storie, dei mattoni fondamentali che le compongono e danno loro vita.

 Scrive Calvino: «I romanzi che ci piacerebbe di scrivere o di leggere sono romanzi d’azione, ma non per un residuo di culto vitalistico o energetico: ciò che ci interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che l’uomo attraversa e il modo in cui egli le supera. Lo stampo delle favole più remote: il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con belve e incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane, resta il disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità morale si realizza muovendosi in una natura o in una società spietate» [25].

 La nota del 1960 contiene inoltre un’affermazione centrale per orientarsi nella produzione letteraria successiva. «Il racconto [Il visconte dimezzato] per sua interna spontanea propulsione a quello che è sempre stato e resta il mio vero tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe sé stesso né per sé né per gli altri» [26]. Questa affermazione di poetica ci sembra faccia il paio con un’altra. Parlando del valore della «Leggerezza», nelle Lezioni americane Calvino afferma: «Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alla città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e del linguaggio»[27]. Questa dichiarazione è particolarmente pregnante, perché esaustiva dei grandi blocchi della produzione calviniana: oltre al riferimento al ciclo dei Nostri Antenati, vi è quello alle Cosmicomiche nelle diverse e successive edizioni (1965, 1968, 1984), ai racconti di Ti con Zero, alle Città invisibili, al Castello dei destini incrociati e a Se una notte d’inverno un viaggiatore.

 Calvino fu autore di fiction, per lo più di short stories, che gli permisero di raggiungere quell’intensità che costituisce uno dei tratti caratteristici della sua scrittura [28]. Questo è evidente nei racconti (sia quelli giovanili di Ultimo viene il corvo, sia quelli della maturità, Cosmicomiche e Ti con zero), nelle prose brevi delle Città invisibili e in quelle di Palomar. «Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca di un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile. […] In questa predilezione per le forme brevi non faccio che seguire la vera vocazione della letteratura italiana, povera di romanzieri ma sempre ricca di poeti, i quali anche quando scrivono in prosa danno il meglio di sé in testi il cui massimo di invenzione e di pensiero è contenuto in poche pagine, come quel libro senza uguali in altre letterature che è le Operette morali di Leopardi» [29].

 La sfida della trasformazione dell’autorialità oggi

«Stabiliti questi procedimenti, affidato a un computer il compito di fare queste operazioni, avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore? Così come abbiamo già macchine che leggono, macchine che eseguono un’analisi linguistica dei testi letterali, macchine che traducono, macchine che riassumono, così avremo macchine capaci di ideare e comporre poesie e romanzi?» [30]. Questo si chiedeva Calvino in una conferenza del novembre del 1967, poi riportata nel testo Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), che troviamo all’interno della raccolta di saggi Una pietra sopra, del 1980.

 Le affermazioni dello scrittore ligure colpiscono per la loro carica profetica. Egli aggiunge: «E in questo momento non penso a una macchina capace solo di una produzione letteraria diciamo così di serie, già meccanica di per se stessa; penso a una macchina scrivente che metta in gioco sulla pagina tutti quegli elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti d’umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori» [31].

 È di questi mesi la discussione sulla tecnologia conosciuta come ChatGPT, capace di produrre testi autonomi. Si tratta di «un linguaggio addestrato su un vasto corpus di testi per generare altro testo in modo autonomo e rispondere alle domande degli utenti, utilizzando una tecnologia di apprendimento automatico, chiamata Transformer, che gli consente di capire il contesto del testo e generare risposte appropriate» [32]. Che cosa avrebbe detto lo scrittore a proposito di ChatGPT?

 A fronte della possibilità che l’autorialità, con il connesso incarico pedagogico [33], venga dismessa a favore dell’intelligenza artificiale, quale direzione può prendere la letteratura? Centrale è il ruolo del lettore e l’operazione della lettura [34]. «Smontato e rimontato il processo della composizione letteraria, il momento decisivo della vita letteraria sarà la lettura» [35]. Afferma il generale Arkadian Porphyritch in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Ho capito i miei limiti […]. Nella lettura avviene qualcosa su cui non ho potere» [36].

 La letteratura così attuata viene impoverita? Secondo Calvino, no, essa «continuerà a essere un luogo privilegiato della coscienza umana» [37]. Andiamo verso la morte della figura dell’autore, «questo personaggio a cui si continuano ad attribuire funzioni che non gli competono, l’autore come espositore della propria anima alla mostra permanente delle anime; l’autore come utente d’organi sensori e interpretativi più ricettivi della media; l’autore, questo personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali» [38]. Ne Le città invisibili, il Gran Khan a un certo punto accusa Marco Polo così: «Piombandogli addosso, piantandogli un ginocchio sul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie!»[39]. Poter dire «scrive» come si dice «piove!», un verbo impersonale per non contaminare con la propria limitata individualità [40]. «Come scriverei bene se non ci fossi!»[41], afferma Silas Flannery in Se una notte d’inverno un viaggiatore, se l’autore fosse solo una mano, una mano mozza che impugna la penna.

 Non vi può essere affermazione più netta di contrasto rispetto alla tendenza contemporanea di esaltazione del personaggio-scrittore-autore, che spesso conta più dell’opera [42].

 Calvino si rivolge a un lettore consapevole. Il punto più maturo di questa ricerca viene raggiunto in Se una notte d’inverno un viaggiatore, iper-romanzo, prova estrema di meta-letteratura, di impianto strutturalista e combinatorio, che mostra in modo lampante che la «letteratura è tutta implicita nel linguaggio, è solo permutazione d’un insieme finito di elementi e funzioni» [43]. Si può sfuggire all’indistinto del mondo continuo, al mare dell’oggettività [44], per riscoprire la possibilità di un mondo «discreto»[45].

 Il lettore diventa allora il protagonista Lettore (e corrispettiva Lettrice) in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Non conta lo scrittore, che diventa ghostwriter di sé stesso e creatore di copie e finte opere. Silas Flannery osserva la Lettrice con un binocolo, da lontano, per cogliere sul suo viso le reazioni al romanzo che ha scritto, che vorrebbe scrivere, che scriverà.

 La letteratura è allora chiamata a una piatta espressione di combinazioni di parole e funzioni, di attanti e strutture? La letteratura è la scacchiera del gioco degli scacchi tra Kublai e Marco ne Le città invisibili?[46]. La letteratura è quell’operazione di combinazione di tarocchi, immagini semplici e potenti, immagini che si trasformano in parole, che le sostituiscono addirittura, visto che i viaggiatori hanno perso l’uso della parola. Nel silenzio, si intrecciano storie, che compongono un tappeto, una trama o un intreccio che può essere letto da sinistra a destra o viceversa, dall’alto verso il basso o viceversa. E nella Taverna dei destini incrociati le storie individuali compongono le grandi storie: il racconto di Amleto, di Edipo, di Parsifal e del Graal, di Faust, di re Lear. Le nostre storie in quelle dei miti, o quelle dei miti nelle nostre quotidiane e inapparenti?

 Vi è un tono meditabondo e quasi vulnerabile nel capitolo «Anch’io cerco di dire la mia» della Taverna dei destini incrociati [47]. Per poche pagine il velo dell’autorialità si apre, e sentiamo viva la voce di Calvino che scrive: «La scrittura insomma ha un sottosuolo che appartiene alla specie, o almeno alla civiltà, o almeno a una categoria di reddito. E io? E quel tanto o quel poco di squisitamente mio personale che credevo di metterci?»[48]. Il ritratto che Calvino in quel punto dà di sé è persino struggente, con tutte le sfumature della revisione di vita di un uomo che per intero l’ha dedicata alle lettere: «Scarta un tarocco, scarta l’altro, mi ritrovo con poche carte in mano. Il Cavaliere di spade, L’Eremita, Il Bagatto sono sempre io come di volta in volta mi sono immaginato d’essere mentre continuo a star seduto menando la penna su e giù per il foglio. Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati. E nella carta che segue mi ritrovo nei panni d’un vecchio monaco, segregato da anni nella sua cella, topo di biblioteca che perlustra a lume di lanterna una sapienza dimenticata tra le note a piè di pagina e i rimandi degli indici analitici. Forse è arrivato il momento d’ammettere che il tarocco numero uno è il solo che rappresenta onestamente quello che sono riuscito a essere: un giocoliere o illusionista che dispone sul suo banco da fiera un certo numero di figure e spostandole, connettendole e scambiandole ottiene un certo numero di effetti»[49].

 Autore come Bagatto, giocoliere, mago, artigiano. Anche come cavaliere o eremita. Così Calvino prende a icona di vita intellettuale i tanti San Giorgio che schiacciano la testa del drago, uomini di azione; i San Girolamo, icone di vita ritirata, intenti nella traduzione della Bibbia sulla soglia di una grotta. Ora Bagatto, ora San Giorgio o San Girolamo, Calvino aspira per sé a essere guerriero e savio «in ogni cosa che fa e pensa» e a tenere a bada ora il drago, ora il leone, immagini differenti che indicano nell’una e nell’altra condizione di vita l’esigenza della lotta che comunque va assunta. Si tratta di un’intuizione sedimentata, perché già ne Il cavaliere inesistente lo scrittore aveva usato come alter ego una guerriera che si dedica alla preghiera e combatte l’ardua battaglia della scrittura: Calvino prima Bradamante e poi Suor Teodora.

 Per quale scopo combattere? «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[50]. Così terminano Le città invisibili. Nel «labirinto» del mondo calviniano, che abbiamo interrogato nella brevità di questo articolo, ci piace concludere con questa immagine, di cura e responsabilità. Perché il distacco calviniano non è indifferenza, non è «separare la propria dall’altrui sorte».

 Conclusioni

Calvino è figura centrale nella letteratura italiana del Novecento. Lo è stato come editore e come autore. Ha attraversato le inquietudini della società italiana, lo slancio della ricostruzione dopo il disastro della Seconda guerra mondiale, la delusione del crollo degli ideali e l’amarezza di fronte al vuoto della società dei costumi. Lo ha fatto con la sua cifra, unica, di «poeta» e favolista, prima neorealista e poi innovatore e sperimentatore, senza mai rinunciare all’equilibrio di una scrittura cristallina. Ha regalato alla letteratura italiana figure ora imprescindibili: il visconte, il barone, il cavaliere, Marcovaldo. La meditazione più bella sulla democrazia è la sua Giornata d’uno scrutatore. Così come la letteratura del nostro Paese sarebbe più povera senza le vertiginose e psichedeliche prose delle Cosmicomiche, senza la grazia sospesa delle Città invisibili. Il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore costituisce un punto di riferimento per ogni riflessione meta-letteraria, un manuale di narratologia. Oggi ogni testo in questo ambito parte dal suo iper-romanzo.

 

Anche come saggista Calvino è un punto di riferimento fondamentale, in particolare con il saggio Lezioni americane, nel quale ha «ignazianamente» riletto la sua esperienza letteraria per porre i criteri della letteratura del domani.

 

Di fronte alle tensioni e alle sfide di un mondo che sempre più scopre aree di applicazione dell’intelligenza artificiale, possiamo dire che la ricerca calviniana del secondo periodo della sua produzione offre fecondi spunti di riflessione. Se le sperimentazioni strutturaliste e combinatorie in senso stretto possono dirsi superate, alcuni frutti di quelle teorizzazioni sono attuali. In modo particolare ci sembra importante l’affermazione del valore della lettura, dell’operazione del leggere, del ruolo del lettore. Dopo decenni di ipertrofia della figura dell’autore, a fronte del rischio che esso venga sminuito e «declassato» dall’intelligenza artificiale, la valorizzazione del lettore apre spazi di libertà e responsabilità, cura e formazione. In una cornice teorica altra e storicamente connotata, già Calvino aspirava alla cancellazione dell’individualità dell’autore, non per condurre a posizioni nichiliste, ma per aprirsi a un mistero che chiama le parole per essere detto. In questo senso, se l’autore può venir meno, non può mancare l’intelligenza critica del lettore.

 Lo scrittore ligure usa il riferimento al testo sacro per dirlo: «Il libro unico, che contiene il tutto, non potrebb’esser altro che il testo sacro, la parola totale rivelata. Ma io non credo che la totalità sia contenibile nel linguaggio; il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile» [51]. Ci spiace che non abbia avuto l’onestà di scrivere la parola «Bibbia» in quel luogo, ma abbia preferito usare solo il riferimento al Corano.

 Calvino costituisce un’eccezione anche dal punto di vista dello sguardo di fede sulla realtà. Possiamo dire che, rispetto al contesto italiano del suo tempo, egli ricevette una formazione «anomala», così razionale, agnostica, anche anticlericale. Rispetto ad altri intellettuali con un background analogo, tuttavia, nei suoi scritti non si percepisce il livore della feroce condanna né lo sdegno o la disistima per chi si dichiara credente. Non è scrittore spirituale, anche se sua è forse una delle affermazioni più belle sull’amore, ne La giornata d’uno scrutatore: «L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo»[52]. È sotto il suo sguardo che il luogo della sofferenza diviene la Città, per noi cristiani la Civitas Dei di Agostino: «Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città»[53]. Di Calvino, agnostico[54], possiamo apprezzare l’impegno etico, la coerenza di vita e l’interesse per il bene pubblico.

 

La Civiltà Cattolica

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I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, Milano, Mondadori, 2001, 123. ↑

 

Per la biografia di Calvino, punto di riferimento è la «Cronologia», a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori, 2003, LXIII-LXXXVI. ↑

 

Per una presentazione dei luoghi calviniani, cfr M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, 15-21. ↑

 

Floriano Calvino diventerà poi un geologo di fama internazionale e insegnerà per molti anni all’Università di Genova. ↑

 

I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, cit., 704. ↑

 

L’immobilismo di Togliatti e di altri dirigenti di partito fu oggetto di ironia nel racconto La gran bonaccia delle Antille. ↑

 

Cfr M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., 35. ↑

 

La meditazione sul potere più pregnante è ancora frutto della penna di Calvino, nel racconto Il re in ascolto, uscito postumo nella raccolta Sotto il sole giaguaro del 1986. ↑

 

Tra le opere critiche che ci hanno aiutato nella lettura di Calvino, oltre a C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggi su Italo Calvino, Roma, Carocci, 2022, ricordiamo: C. Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Milano, Vita e Pensiero, 2016; F. Centofanti, Italo Calvino. Una trascendenza mancata, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1993. ↑

 

A questo periodo appartengono il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947; la raccolta dei racconti di Ultimo viene il corvo, del 1949; L’entrata in guerra, del 1954, Il visconte dimezzato, del 1951, La formica argentina, del 1953-1954; Le fiabe italiane, del 1956; Il barone rampante, del 1957; La speculazione edilizia, del 1956-1957; La nuvola di smog, del 1958; Il cavaliere inesistente, del 1959; Marcovaldo ovvero le stagioni in città, del 1963; La giornata d’uno scrutatore, del 1963. ↑

 

A questo periodo appartengono Le cosmicomiche, del 1965, con le aggiunte successive in nuove edizioni; La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, del 1968; Cosmicomiche vecchie e nuove, del 1984; Ti con zero, del 1967; Le città invisibili, del 1972; Il castello dei destini incrociati, del 1973; Se una notte d’inverno un viaggiatore, del 1979; Palomar, del 1983. ↑

 

Sul giudizio dato da Calvino sul neorealismo il testo di riferimento è la Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno nella riedizione del 1964. Si tratta di un breve saggio che permette all’autore di dire quel che il neorealismo è stato, quel che ha comportato in termini di sacrificio di memoria, e lo stato della situazione rispetto alla letteratura della Resistenza, nella cui cornice Calvino riconosce il valore assoluto della prosa di Beppe Fenoglio, del quale era uscito l’anno prima il libro Una storia privata. L’omaggio all’amico scrittore delle Langhe piemontesi è commosso. Cfr D. Mattei, «Il sapore dell’assoluto in Beppe Fenoglio», in Civ. Catt. 2023 II 549-561. ↑

 

Pavese intuì subito il tono «fiabesco» della scrittura di Calvino. In effetti, tra i racconti della Resistenza molti sono quelli che assumono evidenti cadenze fiabesche o tonalità simboliche che li distaccano da testi di altri scrittori contemporanei. ↑

 

Alla compresenza di realismo e di tono fiabesco è legata una delle più note descrizioni della prosa dello scrittore ligure. Vittorini affermò che Calvino alterna «un realismo a carica fiabesca» a «fiabe a carica realistica». ↑

 

I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 21. ↑

 

Sulla valenza della categoria di azione e progetto in Calvino, cfr M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., 45-47. ↑

 

Ivi, 30. ↑

 

I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, cit., 549. ↑

 

Ivi, 1209. ↑

 

Calvino distingue due processi immaginativi: quello che va dalla parola all’immagine; e quello opposto, che va dall’immagine alla parola. Cfr I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 699. ↑

 

Cfr ivi, 707. ↑

 

Cfr ivi, 699-702. Tra i personaggi religiosi, possiamo citare l’abate Fauchelafleur de Il barone rampante, le suore e i sacerdoti del Cottolengo, e soprattutto la Madre ne La giornata d’uno scrutatore. ↑

 

Cfr Id., Romanzi e racconti, vol. I, cit., 605; 653; 680; 687; 743 et alia. ↑

 

Cfr M. Lavagetto, «Introduzione», in I. Calvino, Sulla fiaba, Milano, Mondadori, 2023, 3-20. ↑

 

I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 23. Sul valore iniziatico come spinta propulsiva della scrittura di Calvino, cfr M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., 73 s. Sulla presenza di figure di fanciulli e ragazzi nella letteratura a partire dall’Ottocento in Nievo, Stendhal, Twain, Stevenson e Kipling, cfr I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 41-43. ↑

 

Id., Romanzi e racconti, vol. I, cit., 1213. ↑

 

Id., Saggi 1945-1985, t. I, cit., 631. ↑

 

Barenghi parla di «un variegato repertorio di soluzioni narrative che uniscono rigore razionale e gusto dell’avventura, umorismo e moralità, indugio riflessivo e tratto fantastico, osservazione empirica ed elaborazione cognitiva, dando luogo nella fase più matura a un’intera costellazione di sottogeneri (postavanguardistici, piuttosto che post moderni): dal racconto-saggio all’iper-romanzo, dall’avventura percettiva o sensoriale alla narrativizzazione di immagini, senza dimenticare le ingegnose forme di incorniciamento e costruzione modulare» (M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., 30). ↑

 

I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I., cit., 671. ↑

 

Ivi, 212 s. ↑

 

Ivi, 213. ↑

 

Questa è la risposta data da ChatGPT a chi chiedeva cosa fosse ChatGPT: in sostanza, una definizione di autoconsapevolezza dell’AI. Cfr D. Semeraro, «ChatGPT, ecco come funziona l’intelligenza artificiale più evoluta», in https://tinyurl.com/mt2aza8e ↑

 

«Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare a impararlo» (I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 21 s). ↑

 

Calvino individua sette tipi di lettori nel capitolo XI di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Cfr Id., Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 2004, 865-866. ↑

 

Id., Saggi 1945-1985, t. I, cit., 215. ↑

 

Id., Romanzi e racconti, vol. II, cit., 850. ↑

 

Id., Saggi 1945-1985, t. I, cit., 215. ↑

 

Ivi, 216. ↑

 

Id., Romanzi e racconti, vol. II, cit., 442. ↑

 

Cfr ivi, 784. ↑

 

Ivi, 779. ↑

 

Cfr G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018, 26-30. ↑

 

Cfr I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 217. ↑

 

Cfr ivi, 52-60. ↑

 

Cfr ivi, 209; 211. ↑

 

Cfr Id., Romanzi e racconti, vol. II, cit., 462; 469. ↑

 

Cfr ivi, 591-602. ↑

 

Ivi, 595. ↑

 

Ivi, 596. ↑

 

Ivi, 498. ↑

 

Ivi, 790. ↑

 

Ivi, 69. ↑

 

Ivi, 78. ↑

 

Nel saggio Natura e storia nel romanzo, frutto di una conferenza del 1958, Calvino afferma: «Perciò, per quanto il grande afflato biblico di un Dostoevskij e di un Tolstoj non cessi d’ispirarci emozione e ammirazione, la nostra lezione di forza preferiamo trarla dall’agnosticismo del piccolo Cechov, come una limpida lente che non nasconde nulla della negatività del mondo ma non ci persuade a sentircene vinti» (Id., Saggi 1945-1985, t. I, cit., 38 s). ↑