Leggi: AIMC - NOTES - maggio 2022
Nella
Giornata mondiale senza tabacco, il Papa ribadisce in messaggio che la salute è
un dono di Dio di cui “prenderci cura responsabilmente”
Vatican News
Una rosa rossa poggiata in un
posacenere. Il simbolo della Giornata internazionale senza tabacco, che si
celebra il 31 maggio di ogni anno, occupa con la delicatezza di un fiore lo
spazio altrimenti imbrattato dalla cenere, che a sua volta è simbolo di un
bene, la salute, bruciata ogni anno per milioni di persone dall’uso e
dall’abuso di fumo. Anche il Papa ha voluto affidare a un breve messaggio la
sua convinzione ben nota sull’argomento, che nel 2018 prese la forma di una
decisione netta: il divieto di vendita di sigarette ai propri dipendenti perché
- fu spiegato all’epoca - la “Santa Sede non può contribuire ad un esercizio
che danneggia chiaramente la salute delle persone”.
La stessa convinzione Francesco l’ha espressa
in un messaggio al vescovo argentino di Nueve de Julio, Ariel Edgardo Torrado
Mosconi, tra i promotori del Seminario internazionale che lo scorso 25 maggio
si è svolto all’Università pontificia della Santa Croce dal titolo “La Chiesa
cattolica di fronte alla riduzione del danno del fumo", realizzato con il
sostegno dell’Associazione Amici pro Sanitate e col patrocinio del Dicastero
per lo Sviluppo Umano Integrale.
“La cultura della vita - scrive il Papa nel messaggio
- è un patrimonio che noi cristiani dobbiamo condividere con tutti. Ogni vita
umana, unica e irripetibile, ha un valore inestimabile. Questo deve essere
sempre proclamato di nuovo, con il coraggio delle parole e delle azioni”.
Francesco conclude dicendo di sperare che la riflessione su tale problema
“aiuti molte persone a prendere coscienza del fatto che la salute fisica è un
dono di Dio che il Signore ci ha fatto e di cui dobbiamo prenderci cura
responsabilmente”.
Vatican News
-
di Guido Mocellin
Sui siti
delle testate e delle cronache locali dell'Emilia-Romagna e su quelli
specializzati sui temi educativi e dell'inclusione sociale la notizia della
morte del professor Andrea Canevaro, il 26 maggio, è ampiamente presente. Tutte
queste fonti sottolineano che Canevaro, 82 anni, docente emerito
dell'Università di Bologna, studioso di fama internazionale, è stato il padre
della pedagogia speciale, l'ambito di ricerca che si occupa dell'educazione di
persone in condizione di disabilità, e che il suo pensiero ha cresciuto e
plasmato, in numerosi decenni, generazioni di insegnanti. Un vero e proprio
maestro in campo pedagogico: l'integrazione scolastica si deve in gran parte
alle sue ricerche e al suo impegno. Soffermandosi sugli accenti più personali
di questi articoli, si fa fatica a dubitare di una sua originaria ispirazione
cristiana.
Ad esempio, su "Vita" ( bit.ly/3lSJe6w )
Patrizia Ceccarani dice che «il suo approccio scientifico non si esauriva nella
raccolta di dati o di aspetti tecnici: ha sempre messo la persona al centro,
anche quando questa espressione non si usava». In una recentissima intervista a
"Orizzontescuola" ( bit.ly/3lUNrX2 )
affermava, riferendosi ai dirigenti scolastici, che dovrebbero essere dei
cercatori di tracce: «Occorre vedere negli altri quel valore che non abbiamo,
e, delicatamente ma decisamente, intrecciare i nostri rispettivi valori.
Intrecciare tracce».
Su
"Settimananews" ( bit.ly/3lQ18GQ ) José Jorge Chade scrive
che era un uomo come quello descritto da Primo Levi: «giusto, semplice, umano,
disponibile, flessibile», che «ha saputo raggiungere tutti, accompagnandoli nei
momenti difficili, supportandoli quando necessario senza sostituirsi a loro»; e
nella lista delle cose belle di lui per le quali lo ringrazia a nome di tutti
quelli che lo hanno conosciuto c'è anche posto per la fede.
Incontrando i membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Francesco esprime un auspicio: “Gli storici contribuiscano con le loro ricerche, con le loro analisi delle dinamiche che segnano le vicende umane, all’avvio coraggioso di processi di confronto nel concreto della storia dei popoli e degli Stati”
- di Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
La storia della Chiesa è il “luogo di incontro e di confronto in cui si sviluppa il dialogo tra Dio e l’umanità”. “Lo storico del cristianesimo dovrebbe essere attento a cogliere la ricchezza delle diverse realtà nelle quali, attraverso i secoli, il Vangelo si è incarnato e continua a incarnarsi”. È quanto afferma il Papa nel discorso rivolto ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche in occasione della sessione Plenaria di questo organismo nato nel 1954 per volontà di Pio XII con l’obiettivo di promuovere lo studio della storia. Uno studio, sottolinea Papa Francesco, “indispensabile al laboratorio della pace, quale via di dialogo e di ricerca di soluzioni concrete e pacifiche per risolvere i dissidi, e per conoscere più a fondo le persone e le società”. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)
Mi auguro che gli storici contribuiscano con le loro
ricerche, con le loro analisi delle dinamiche che segnano le vicende umane,
all’avvio coraggioso di processi di confronto nel concreto della storia dei
popoli e degli Stati. L’attuale situazione in Europa orientale non vi consente,
per il momento, di incontrare alcuni dei vostri interlocutori abituali
nell’ambito dei convegni che, da decenni, vi vedono collaborare sia con
l’Accademia Russa delle Scienze di Mosca, sia con gli storici del Patriarcato
Ortodosso di Mosca. Ma sono sicuro che saprete cogliere le occasioni giuste per
riprendere e intensificare questo lavoro comune, che sarà un contributo
prezioso volto a favorire la pace.
Aprire canali per la riconciliazione dei fratelli
Lo studio della storia spesso segnata da eventi
bellici fa pensare, aggiunge il Papa, “all’ingegneria dei ponti, che rende
possibili rapporti fruttuosi tra le persone, tra credenti e non credenti, tra
cristiani di differenti confessioni”.
La vostra esperienza è ricca di insegnamenti. Ne
abbiamo bisogno, perché è portatrice della memoria storica necessaria per
cogliere la posta in gioco nel fare storia della Chiesa e dell’umanità: quella
di offrire un’apertura verso la riconciliazione dei fratelli, la guarigione
delle ferite, la reintegrazione dei nemici di ieri nel concerto delle nazioni,
come seppero fare, dopo la Seconda guerra mondiale, i Padri fondatori
dell’Europa unita.
In ascolto e al servizio della società
La storia della Chiesa, spiega ancora il Pontefice, è
anche un solco in cui si aprono finestre e sguardi sul mondo:
Cento anni fa, il 6 febbraio 1922, Pio XI, Papa
bibliotecario e diplomatico, diede alla Chiesa e alla società civile un
orientamento decisivo attraverso un segno certamente sorprendente all’epoca.
Subito dopo l’elezione, Papa Ratti volle inaugurare il suo pontificato
affacciandosi alla loggia esterna della Basilica Vaticana, anziché a quella
interna, come avevano fatto i suoi tre predecessori. Con quel gesto Pio XI ci
invitava ad affacciarci sul mondo e a metterci in ascolto e al servizio della
società del nostro tempo.
Francesco, dopo aver ripercorso alcuni momenti della
vita del grande storico Cesare Baronio sottolineando che "teoria e prassi,
unite, conducono alla verità", ricorda infine che nel mese di agosto si
terrà il XXIII Congresso del Comitato Internazionale delle Scienze Storiche a
Poznan, con una Tavola rotonda sulla tematica “La Santa Sede e le rivoluzioni
del XIX e XX secolo”. Sarà un’ulteriore opportunità, afferma, “per realizzare
la missione che vi è affidata, come servizio alla ricerca della verità
attraverso la metodologia propria delle scienze storiche”.
29 Maggio 2022
Ascensione del Signore
Lc 24,46-53
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: ⁴⁶«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, ⁴⁷e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. ⁴⁸Di questo voi siete testimoni. ⁴⁹Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».⁵⁰Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, benedisse. ⁵¹Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. ⁵²Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia ⁵³e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Commento di p.Ezio Bianchi
La soppressione, in Italia, della festa
dell’Ascensione (giovedì della VI settimana, quaranta giorni dopo Pasqua) e il
suo conseguente spostamento alla domenica successiva non ci permettono
purtroppo di contemplare il mistero dell’intercessione del Risorto presso il
Padre (VII domenica di Pasqua). Oggi dunque nella chiesa italiana si celebra
l’Ascensione, evento pasquale che Luca racconta nel suo vangelo (il brano
odierno) come evento finale della vita di Gesù di Nazaret e negli Atti degli
apostoli come evento iniziale della vita della chiesa (cf. At 1,1-11, anch’esso
proclamato oggi nella liturgia).
È significativo che i due racconti non siano pienamente armonizzabili tra loro, in quanto leggono il medesimo evento da due diverse prospettive. Negli Atti l’ascensione di Gesù al cielo avviene quaranta giorni dopo la sua resurrezione da morte (cf. At 1,3), mentre nel vangelo è collocato nella tarda sera di quel “giorno senza fine”, “il primo della settimana” (Lc 24,1), giorno della scoperta della tomba vuota e dell’apparizione del Risorto alle donne (cf. Lc 24,1-12), ai due discepoli sulla strada verso Emmaus (cf. Lc 24,13-35), infine a tutti i discepoli riuniti in una casa a Gerusalemme (cf. Lc 24,36-49). Due modi diversi per narrare l’unico evento della resurrezione, che Luca cerca di illuminare in tutta la sua ampiezza: la resurrezione significa infatti entrata di Gesù quale Kýrios nella vita eterna alla destra di Dio Padre (Ascensione) e anche discesa dello Spirito (Pentecoste: cf. At 2,1-11).
Nella pagina conclusiva del suo vangelo Luca racconta come Gesù si è separato dai suoi non per abbandonarli ma per essere con loro sempre, l’‘Immanuel, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; 28,20), in una nuova forma di vita. La sua esistenza umana è terminata con la morte, e ora, dopo la resurrezione del suo corpo, la vita di Gesù è altra, è quella del Signore vivente, è la vita divina di colui che è nell’intima vita di Dio, alla sua destra, il posto del Figlio eletto e amato (cf. Sal 110,1bc; Lc 3,22; 9,35). Eccoci dunque nella casa dei discepoli a Gerusalemme: sono tornati i due da Emmaus e hanno raccontato la loro esperienza, mentre gli Undici e gli altri testimoniavano anch’essi che Cristo era risorto ed era stato visto da Simon Pietro (cf. Lc 24,33-35). Mentre tutti insieme parlano di Gesù, egli in persona sta in mezzo a loro, dona lo shalom, la pace (cf. Lc 24,36), poi consegna parole che risuonano in un’assoluta novità: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi” (Lc 24,44a). Sì, perché Gesù non è più con loro come prima, quale uomo, maestro e profeta; ora è il Signore vivente che non parla più in aramaico, con il suono della sua voce umana da loro a lungo ascoltata, ma in modo nuovo, un modo più efficace, persuasivo, perché la sua voce è dotata della forza dello Spirito di Dio pienamente all’opera nel Risorto.
Nella potenza dello Spirito il Signore Gesù mostra ai discepoli il compimento delle Scritture e il compimento delle sue parole negli eventi che hanno preceduto quel giorno (cf. Lc 24,44b-47). Il Risorto spiega le Scritture in modo che i discepoli comprendano la conformità tra lo “sta scritto” e ciò che hanno vissuto: ora i discepoli possono finalmente comprendere ciò che prima non riuscivano a capire. Avevano certamente letto tante volte la Torah, i Profeti e i Salmi, ma ora che i fatti si sono compiuti possono comprenderli credendo, alla luce della fede. Gesù aveva annunciato loro più volte la necessitas della sua passione e morte (cf. Lc 9,22.43b-44), ma questi discorsi erano parsi loro scandalosi, enigmatici (cf. Lc 9,45). Ora però che si sono compiuti, non per destino o fatalità, ma per la necessità mondana secondo cui “il giusto” (Lc 23,47) in un mondo ingiusto deve morire (cf. Sap 1,26-2,22) e per la necessità divina per la quale Gesù in obbedienza alla volontà del Padre non si difende ma accoglie l’odio su di sé amando fino alla fine, ora sì che è possibile credere alle sante Scritture. E credendo è possibile diventare “testimoni”, fino ad annunciare la morte e resurrezione di Cristo come evento che chiede conversione e dona la remissione dei peccati: il perdono da parte di Dio a tutta l’umanità, in attesa della buona notizia della salvezza. Tutti sono testimoni – sottolinea Luca –, tutti annunciatori del Vangelo, non solo gli Undici, gli apostoli, ma anche gli altri presenti nello stesso luogo.
Sì, Gesù, quest’uomo di Nazaret, figlio di Maria e di Dio, che solo Dio poteva darci, era venuto soprattutto come Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), come Visita da parte di Dio (cf. Lc 1,68), una Visita non per la punizione, per il castigo dei peccati commessi dal popolo di Dio e dall’intera umanità, ma una Visita che annunciava il perdono dei peccati (cf. Lc 1,77). Con quella morte da “uomo giusto” che accoglieva su di sé l’odio, la violenza e la menzogna dei malvagi, e vi rispondeva non con la violenza ma con l’amore, Gesù consegnava al Padre la vera immagine di Dio, l’Adamo come Dio l’aveva voluto (cf. Col 1,15). E proprio come giusto che sta dalla parte dei peccatori, solidale con pubblicani, impuri, prostitute, ladri e malfattori, Gesù saliva al Padre rivolgendogli la preghiera incessante che invoca perdono e misericordia. Tra le sue ultime parole prima della morte non aveva forse detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)? E la sua ultima promessa non era forse stata rivolta a un malfattore: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43)?
Dunque, i discepoli, testimoni di questa misericordia vissuta, insegnata e raccontata da Gesù, devono annunciarla a tutte le genti. Questa è la predicazione della chiesa, la quale invece a volte è tentata di attribuirsi compiti che il Signore non le ha dato: l’unico compito evangelico è annunciare e fare misericordia, che significherà annuncio del Regno, della salvifica morte e resurrezione di Cristo, e quindi servizio ai poveri, ai malati, ai sofferenti, vicinanza e solidarietà con i peccatori. “Cominciando da Gerusalemme” e fino ai confini del mondo i testimoni, quali viandanti e pellegrini, ovunque annunceranno il perdono dei peccati; quindi, perdoneranno e inviteranno tutti a perdonare: questo il Vangelo, la buona notizia. Essere testimoni di tale annuncio (e non di altro!) è un’impresa ardua, perché sembra poco credibile, quasi impossibile da realizzare, eppure quei poveri discepoli e quelle povere discepole la sera di Pasqua hanno ascoltato, capito e da allora hanno tentato di mettere in pratica nient’altro che questo: il perdono, la remissione dei peccati. Ci vorrà “la potenza venuta dall’alto”, la discesa dello Spirito santo da Dio, per essere abilitati ad adempiere questo mandato, ma nessuna paura: quando Gesù, il Figlio di Dio, sale al cielo, ecco che dal cielo discende lo Spirito di Dio, che è anche e sempre Spirito di Gesù Cristo, forza che sempre ci accompagna e ci ispira in questa missione.
Come raccontare l’ascensione di Gesù con parole umane? Luca tenta di narrarla, ricordando come il profeta Elia aveva lasciato questa terra per andare presso Dio (cf. 2Re 2,1-14), e così scrive che Gesù, dopo aver condotto a Betania quei discepoli ormai resi testimoni, lasciò loro la benedizione e, “mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. Questo l’esodo di Gesù dalla terra al regno di Dio. L’evangelista non attenua in alcun modo la separazione di Gesù dai suoi: egli non è più presente come prima, ma la benedizione che dona è una benedizione continua, è l’immersione dei suoi nello Spirito santo (cf. Lc 3,16). Essa è anche l’ultimo atto del Risorto: egli dona la benedizione sacerdotale che era stata sospesa, non data all’inizio del vangelo dal sacerdote Zaccaria, dopo l’apparizione dell’angelo e l’annuncio della venuta del Messia (cf. Lc 1,21-22). Questa benedizione rende gioiosa la comunità di Gesù proprio mentre egli si separa da lei, ma la rende anche sacerdotale (cf. 1Pt 2,9): i credenti in Gesù Cristo sono di fatto il nuovo tempio, “sacerdoti” e adoratori del Risorto, capaci di rispondere con la preghiera di benedizione alla benedizione di Gesù. L’incredulità è finalmente vinta e la fede in Gesù vivente, Signore e Dio, è tale che permette ai discepoli di sentire Gesù presente in mezzo a loro anche dopo la separazione del suo corpo glorioso, ormai nell’intimità del Padre, Dio.
GLI STUDENTI
A NON MOLLARE
In un recente convegno all’Università di Urbino le potenzialità delle
character skills per la formazione di una personalità affettivamente solida
negli studenti
Il tema delle character skills è stato rilanciato all’interno dell’Università degli Studi di Urbino con un recente convegno organizzato dal Centro Culturale “E. Mounier” di Acqualagna, che sta diventando un punto di riferimento importante per le attività culturali dell’entroterra della Provincia di Pesaro/Urbino. Hanno offerto il loro contributo il prof. Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, e l’on. Paolo Lattanzio, deputato e relatore della legge sulle “non cognitive skills” (Ncs).
Il
magnifico rettore dell’Università di Urbino, prof. Giorgio Calcagnini, ha
portato il suo saluto ricordando che la tematica dell’umano, messa in evidenza
da molti studiosi, è fondamentale nella nostra civiltà perché al giorno d’oggi
agli studenti e ai dipendenti non si chiede solo il sapere tecnico ma la
capacità di interagire con gli altri e l’ambiente circostante. Presente anche
il consigliere di amministrazione della Banca di Credito Cooperativo del
Metauro, Amedeo Montanari, sponsor della manifestazione, che nel saluto ha
sottolineato come la caratteristica delle banche del territorio sia la
relazione con il cliente.
Lattanzio
nel suo intervento sulla proposta di legge ha ribadito che essa vuol fare
uscire la scuola dalle secche burocratiche e strutturali in cui è imprigionata
e rilanciare il tema educativo e di promozione sociale, in particolare per i
ragazzi più fragili. Il corpo docente e il mondo della scuola si trovano di
fronte ad una sfida epocale e devono diventare attori e protagonisti del
cambiamento pedagogico ed educativo: solo il connubio tra non cognitive e
cognitive skills, può permettere ai ragazzi di affrontare le
enormi sfide che il mondo ci sta mettendo davanti. La didattica a distanza,
causata dalla pandemia, ha messo in rilievo le differenze territoriali e
scolastiche perché sono riuscite a lavorare in maniera soddisfacente solo
quelle scuole che più avevano innovato sulla didattica e che avevano un
rapporto empatico con i ragazzi.
Le
Ncs non sono una nuova materia di insegnamento, ma una sfida al corpo docente
sull’educazione e formazione dei ragazzi per migliorare non solo le loro
conoscenze ma anche la capacità di adattarsi, da protagonisti, ai continui
cambiamenti sociali e tecnologici che stanno avvenendo. Esse sono piuttosto una
sensibilità, un approccio pedagogico ed educativo che aiuta a far emergere e a
sviluppare la personalità, e non può essere il medesimo in tutti gli ambienti e
tempi.
La
sperimentazione di queste nuove competenze dovrà avvenire nella scuola italiana
fin dalla fase dell’infanzia (sta già avvenendo in alcuni territori dove la
scuola funziona). Inoltre, esse hanno un impatto positivo sulla prevenzione dei
comportamenti devianti: educare all’emotività e alla relazione in un tempo in
cui la violenza è diventata parte del nostro vissuto quotidiano, come i fatti di cronaca ci documentano.
Viviamo
in un mondo complesso e in continuo cambiamento, per cui occorre una “global
competence” per orientarsi e viverlo come un’opportunità e non una condanna;
per far questo occorre sviluppare tutti i lati della personalità del
giovane, anche quelli socio-emozionali,
altrimenti egli non entrerà nel mondo della scuola e in quello del lavoro con
quella sicurezza ed energia di cui abbisogna.
Ci
sono due fatti che ci confermano l’importanza di una educazione che tenga conto
degli aspetti psico-sociali, emozionali e di relazione: lo smartworking, che
avrà un impatto sul concetto stesso di mondo del lavoro, ed il fenomeno delle
dimissioni di massa (great resignation) dei 40-50enni in
posti apicali ma che non vedono più nel lavoro la realizzazione della propria
emotività e della propria esistenza.
La
nuova normativa prevede delle linee guida su come sviluppare la sperimentazione
nazionale all’interno dell’autonomia scolastica, con l’obiettivo di valutarne i
risultati dopo il triennio. Infine Lattanzio ha terminato ricordando che Aldo Moro aveva
anticipato il tema nel 1958, quando da ministro dell’Istruzione aveva
introdotto l’educazione civica come collante fra lo studio e la vita sociale.
Vittadini
presentando il volume Viaggio nelle Character Skills ha
analizzato le difficoltà degli studenti italiani aggravate dalla pandemia: il
30% dei ragazzi non si sono collegati per problemi di rete e fra quelli che si
sono collegati è venuta meno la relazione fra pari e quella educativa,
aumentando sentimenti di sfiducia e fatica nel ritornare alla normalità.
L’abbandono scolastico ha raggiunto punte annuali di 543mila unità, pari al
13,1% del totale, che insieme al 7,1% di dispersione implicita porta a stime di
perdite di 1 ragazzo ogni 4, mentre al Sud si scende a 1 su 3, ragazzi che
presumibilmente andranno a costituire i 2,2 milioni di Neet italiani che non
studiano né lavorano.
Ad
incidere sull’abbandono scolastico non sono solo o prevalentemente gli aspetti
legati alle condizioni socio-economiche e culturali famigliari; risultano
determinanti l’ambiente scolastico, la preparazione degli insegnanti e le
relazioni con gli stessi e il gruppo dei pari. Oggi i ragazzi sono più fragili
affettivamente e quindi le proprie caratteristiche personali e di storia
incidono, a volte in maniera determinante, sulle difficoltà scolastiche, per
cui vanno aiutati a riscoprire l’aspetto motivazionale, di ragioni e di gusto
della vita per accrescerne l’autostima.
Ecco
come l’aspetto delle Ncs acquisisce un’importanza fondamentale per la
formazione: nei giorni scorsi ha avuto ampia eco la notizia che il 51% dei
15enni italiani è incapace di comprendere il
significato di un testo scritto.
Occorre
ricordare che il primo a studiare queste abilità è stato il Premio Nobel per
l’economia James Heckman alla fine degli anni 90. Egli cominciò ad indagare la
scuola americana per capire perché non riusciva a formare adeguatamente le
persone e ha preso in prestito dalla scuola psicologica americana le Ncs per
capirne l’interazione con le competenze cognitive.
I
suoi studi hanno di fatto mostrato come esse condizionano l’apprendimento e le
abilità lavorative: possono cambiare in maniera significativa nel corso del
tempo e dei luoghi. Ha verificato, inoltre, su gruppi di studenti aventi la
stessa capacità conoscitiva, come gli abbandoni dipendano soprattutto dagli
aspetti non cognitivi della personalità.
Le
Ncs per lo studioso americano diventano tratti della personalità innati e
formati dall’interazione con l’ambiente che condiziona l’apprendimento e le
abilità lavorative e quindi entrano a far parte del character delle persone. I suoi studi dimostrano
che uno sviluppo di esse aumenta la produttività nel lavoro: soprattutto in un
mondo in cui la conoscenza diventa obsoleta velocemente, danno all’individuo
quella capacità di “imparare ad imparare” che è determinante per non trovarsi
esclusi.
La
ricerca effettuata sulle scuole della provincia di Trento da Vittadini e altri
studiosi ha messo in evidenza come una variazione negli aspetti non cognitivi
della personalità (ad es. stabilità emotiva) porti ad un miglioramento dei
risultati Invalsi: gli aspetti che denotano una maggior maturità degli studenti
aumentano le competenze cognitive, mentre quelli che denotano fragilità portano
a risultati peggiori in termini di conoscenza.
Nonostante
tutte le evidenze empiriche e gli apporti metodologici, senza luoghi scolastici
unitariamente tesi a sviluppare la personalità degli studenti, la scuola
italiana e i nostri giovani non riusciranno a fare quel salto di qualità che
oggi è necessario.
Dopo i
quindicenni che terrorizzavano Arezzo ispirandosi alle violenze di “Scarface”,
altri 4 minori arrestati a Torino: «Il problema non è più la loro origine o la
loro estrazione sociale Questa violenza va capita e intercettata»
Città ostaggio delle baby gang
«Gli adulti? Servono in strada»
- di FULVIO
FULVI
E' di nuovo allarme “baby gang”. I quattro minori arrestati che seminavano terrore a Torino – dopo quelli che ad Arezzo si ispiravano al personaggio cinematografico di Scarface – sono solo gli ultimi, in ordine di tempo, a finire nelle maglie della giustizia per aggressioni, rapine, minacce, abusi. Il fenomeno riguarda tutto il Paese, soprattutto le grandi città, da Milano a Roma, da Napoli a Palermo. E quasi sempre, ormai, non contano più l’ambiente, la provenienza o il rango sociale di chi si mette nel branco per sentirsi più forte e credendo di trovare così la propria identità. Si tratta di pestaggi tra bande rivali (e spesso ci scappa anche il morto), di atti vandalici rivolti contro la città oppure, come è accaduto nel capoluogo piemontese, di violenze e soprusi contro persone che il “branco” percepisce come più fragili, per ottenerne un tornaconto. Bullismo estremo o qualcos’altro?
A Torino la banda agiva col cappuccio in testa e un atteggiamento sprezzante, soprattutto nel sottopasso della metropolitana della stazione Carducci, dove puntava tra i passanti una possibile preda, quasi sempre un ragazzo della loro età, che veniva infastidito con molestie verbali, minacciato con un coltello e infine derubato di denaro, del cellulare, della felpa o di un capo firmato. Sempre la stessa, come negli altri casi, la metodica usata. In quattro sono finiti in manette, tra i 15 e i 17 anni, tre italiani e uno di origine marocchina, con l’accusa di rapina aggravata in concorso, tentata e consumata, resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato, lesioni personali e detenzione di armi da taglio. Gli episodi di violenza che vengono attribuiti alla gang di adolescenti, molti dei quali registrati dalle telecamere di sorveglianza, si riferiscono al periodo tra il novembre dell’anno scorso e il febbraio 2022: una decina di “colpi” messi a segno anche nelle vie intorno alla Mole Antonelliana e nella periferia torinese di Nichelino. Gli ordini di custodia cautelare in carcere sono stati emessi dal gip del tribunale dei minori. Ma da gennaio ad oggi i carabinieri hanno arrestato, solo in città, 15 giovanissimi per reati contro il patrimonio, parte di loro appartenenti a bande organizzate, altri 22 sono stati invece denunciati e 13 sottoposti a daspo urbani, due dei quali – inutili – proprio nei confronti dei ragazzini fermati ieri.
Secondo l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, in Italia il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso vandalismi, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa. Rabbia e disagio sarebbero la molla dei loro comporta-È menti da codice penale. «Il fenomeno delle “baby gang” va però analizzato con molta attenzione, perché, per esempio, se all’inizio riguardava quasi esclusivamente i figli di stranieri, oggi sono i ragazzi italiani a farne parte: il contesto culturale, ma anche quello territoriale, erano aspetti che potevano spiegare il problema, ora non più» spiega Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell’adolescenza all’Università cattolica di Milano.
«È stata la pandemia da Covid- 19, sicuramente, uno dei fattori che hanno reso più evidenti i disagi e i malesseri psico-sociali dei giovani – precisa Confalonieri –, le misure di restrizione della libertà, come il lockdown e il distanziamento fisico, hanno allentato fortemente la possibilità di relazioni e incontri, e questo ha esacerbato i comportamenti di molti adolescenti». Ma se la violenza ha preso piede tra i minori la colpa, secondo gli esperti, è soprattutto degli adulti. «I ragazzi hanno capito, infatti, sbagliando, che seguire i modelli dei grandi è l’unica possibilità di sopravvivere – sostiene la psicologa –, altrimenti costerebbe loro troppa fatica, non sentendosi sostenuti da famiglia, scuola e comunità, non trovando risposte ». Cosa serve, allora? «Manca una rete di protezione sul territorio – dice la professoressa Confalonieri –, non ci sono centri di aggregazione, spazi di incontro dove i giovani possono esprimersi con laboratori ed esperienze: però le iniziative non devono essere imposte dagli adulti ma proposte dai diretti interessati». Un lavoro educativo che rovesci le solite logiche. «Andrebbero formati e messi in azione – spiega la docente della Cattolica – educatori di strada che cercano di andare nei luoghi dove i giovani vivono, di parlare con loro e recepirne le istanze, farsi dire quali sono i loro desideri. Ma la politica – conclude – finora non ha dato segnali, esistono certo le associazioni di volontariato, gli oratori, ma non bastano: sono necessarie figure professionali in grado di ingaggiare e sostenere con i ragazzi un dialogo costruttivo: siamo noi che dobbiamo andare da loro e non viceversa». «Va detto, però, che non tutti i comportamenti di offesa, violenza finalizzati all’impossessamento di cose altrui, come nel caso della banda della metropolitana – precisa Franco Prina, docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Torino – sono razionali, perché dietro c’è quasi sempre la voglia di umiliare e prevaricare chi si ritiene essere “più fortunato di me”, portare via il telefonino o la felpa ha un valore simbolico, ha a che fare l’immagine che si vorrebbe avere ed esprime frustrazione e rabbia verso il mondo, è una sfida alle istituzioni». Un’ingenuità: quasi sempre i “bulli” vengono presi. «Anche perché il più delle volte si filmano essi stessi col cellulare e postano sui social le loro malefatte – spiega Prina –, vogliono che altri li vedano, mettano dei like riconoscendoli come soggetti coraggiosi che sfidano il mondo».
Per fortuna l’Italia non è messa peggio di altri Paesi. «La marginalità dei nostri ragazzi – sostiene il sociologo Prina – è diversa, per esempio, da quella delle banlieu parigine, o da quella dei loro coetanei statunitensi: nelle nostre città non ci sono ghetti; il fatto che li accomuna tutti, però, è la fragilità dei genitori nell’esercitare il ruolo educativo, di avere un controllo sui figli e capire cosa è giusto fare e cosa no. Bisogna intercettare il disagio – conclude anche lui – andando nelle strade e nelle piazze, bisogna lavorare con genitori, insegnanti, ci vorrebbe un “progetto giovani” promosso dalle amministrazioni locali, serve investire su prevenzione e sostegno ai più fragili».
-
di Giuseppe Savagnone*
- La spaventosa strage che, nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, ha
causato la morte di diciannove bambini fra i sette e dieci anni e due
insegnanti, oltre a suscitare un moto di orrore, si presta a diversi ordini di
considerazioni. La si può leggere come una tragedia causata
dall’emarginazione e dalla solitudine.
Salvador Ramos aveva appena compiuto diciotto anni. La storia di questa
terribile vicenda ce lo consegna come un mostro di cui è difficile avere pietà.
Che sia stato abbattuto dalle forze dell’ordine, intervenute per bloccarlo, non
fa pena a nessuno. Eppure, la sua storia è un esempio di come mostri si possa
diventare per una serie di circostanze negative che riempiono una persona di
odio verso gli altri. Salvador Ramos era stato bullizzato da bambino per la sua
balbuzie, deriso da adolescente per la sua povertà e per il suo modo di
vestire, escluso dalla scuola per le sue continue assenze.
Un suo compagno ha raccontato che una volta si era presentato con la faccia
piena di tagli ed all’inizio aveva detto che era stato un gatto. «Poi mi ha
detto la verità, che era stato lui a tagliarsi con un coltello», ha spiegato
ancora, dicendo che Ramos affermava che lo faceva per divertimento. In realtà,
probabilmente, si odiava.
Quanto alla sua famiglia, del padre non si sa nulla. Aveva abitato con la
madre, che aveva problemi di droga, finché non era stato cacciato da casa ed
era andato a vivere con la nonna. Ma, a giudicare dal fatto che ha tentato di
ucciderla prima di recarsi nella scuola dove ha fatto l’eccidio, neanche con
lei il rapporto affettivo aveva funzionato.
Così Salvador Ramos ha vissuto nell’attesa spasmodica di avere l’età minima
necessaria per acquistare i due fucili semiautomatici – armi da guerra! – con
cui ha sparato, prima alla nonna, poi all’impazzata su dei poveri bambini, per
vendicarsi. Di tutti. Forse della vita.
Le stragi ricorrenti e il problema delle
armi
Ma la chiave di lettura più frequente della sparatoria di Uvalde, sui
giornali, è quella che la colloca nella storia sanguinosa delle altre che
l’hanno preceduta. Una lunga scia di sangue che parte da Columbine, nel
Colorado, dove il 20 aprile 1999 due studenti della Columbine High School,
di 17 e 18 anni, armati fino ai denti, uccisero 12 compagni di classe e un
insegnante, prima di suicidarsi nella biblioteca.
Il più sanguinoso in assoluto, in questo arco di tempo, è stato il
massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, nel Connecticut, nel
dicembre 2012, quando un uomo armato uccise 26 persone, di cui 20
bambini. A seguire, quello compiuto nel 2018, da un ex studente della
Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, dove
restarono uccisi 17 studenti ed educatori. La strage di Uvalde si colloca,
per gravità, tra queste due.
Ma sono solo i picchi di un fenomeno strisciante che si prolunga nel
tempo. Secondo un’analisi del «Washington Post», dalla strage di
Colombine oltre 200 mila studenti hanno vissuto in prima persona una
sparatoria nella loro scuola. Negli ultimi venti anni ne sono avvenute più
di duecento, con più di centocinquanta vittime.
Da una ricerca dell’Università del Michigan pubblicata sul New
England Journal of Medicine il mese scorso, risulta che, a partire
dal 2020, le armi da fuoco sono diventate la principale causa di morte per
bambini e adolescenti statunitensi superando gli incidenti
automobilistici. Gli Stati Uniti hanno 329 milioni di abitanti e 393
milioni di armi da fuoco: molto più di una per abitante!
Una causa è sicuramente la legislazione permissiva, che ne
consente l’acquisto senza alcun controllo sulla idoneità degli acquirenti.
«Sono stanco, dobbiamo agire sulle armi. Queste carneficine avvengono
soltanto negli Usa», ha detto esasperato il presidente Joe Biden,
commentando la tragedia di Uvalde. Il presidente ha comunicato che
chiederà al Congresso di agire, e di mettere un freno alla
circolazione delle armi. «Dobbiamo contrastare» – ha ribadito – «la lobby
delle armi».
Si colloca su questo piano la polemica che la strage ha scatenato contro
il governatore del Texas, Greg Abbott, che, facendo leva sul secondo
emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce il
diritto all’autodifesa, ha recentemente fatto approvare una legge che
facilita l’acquisto delle armi da fuoco, incoraggiando espressamente i
cittadini ad approfittarne. «Sono imbarazzato», aveva scritto in un tweet.
«Il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro
alla California. Texani, aumentiamo la velocità».
In antitesi con questo atteggiamento l’addolorato commento di
papa Francesco al tragico evento di Uvalde: «È tempo di dire basta al
traffico indiscriminato delle armi. Impegniamoci tutti
perché tragedie così non possano più accadere».
L’ambiguità della libertà
È possibile, però, una terza lettura, che, senza sottovalutare la questione
del libero mercato delle armi, parte da essa per andare alle radici
culturali del problema. La fornisce un giornalista che conosce bene la
società americana: «Limitare per legge la possibilità di armarsi appare la
soluzione logica. Il problema è che non succederà mai. Non succederà
perché in America il diritto di portare armi è incardinato sul principio
inviolabile della libertà individuale, poggia sulle idee dell’autopossesso
e dell’autodeterminazione, dalle quali
discende il diritto di proteggersi secondo modalità che non siano
sottoposte a un’autorità» (Mattia Ferraresi, Perché gli Stati Uniti non
faranno mai una legge contro le armi, su «Il Domani» del 25 maggio 2022)
C’è un modo di intendere la libertà, osserva Ferraresi , che la riduce a
quella «puramente negativa, “libertà-da” – dallo Stato, dalla leggi, dagli
altri» – e insiste quindi esclusivamente sull’autonomia dell’individuo,
piuttosto che sulla sua responsabilità verso gli altri. «La stessa»,
scrive Ferraresi, «invocata per celebrare conquiste e progressi
nell’ambito dei diritti individuali, il diritto di disporre di sé, del
proprio corpo, della propria inclinazione, della propria sessualità, della
propria sicurezza».
È questa libertà che, nella cultura americana, rende improbabile una
legge contro le armi e che comunque, anche ove una simile legge finalmente
vedesse la luce, ne neutralizzerebbe gli effetti nella pratica. Il
problema, insomma, non è solo giuridico, ma prima di tutto
culturale. Converge con questo giudizio ciò che scrive Maria Elisabetta
Gramellini, dell’agenzia «Sir», quando, riassumendo il senso di una
intervista a John Allen – vaticanista, scrittore statunitense e
caporedattore dell’agenzia indipendente “Crux: Taking the Catholic Pulse” – ,
scrive: «Concentrare il dibattito solo sulla facilità con cui le armi
vengono vendute e diffuse nel Paese sarebbe un errore».
È ciò che emerge dalle parole di Allen: «La disponibilità delle armi è
un problema a cui serve una risposta politica, ma è solo un sintomo. La
disponibilità dà ai giovani il modo di esprimersi nella maniera più
violenta, ma le armi non sono la causa del malessere, che necessita invece
di una risposta più convincente». Qui, però, si fa un passo avanti
nella diagnosi: se la libertà è diventata un valore assoluto in se stessa,
è perché non ci sono più fini ulteriori per cui investirla. A monte c’è un
vuoto, di cui il malessere è un sintomo.
E questo forse non è vero solo degli Stati Uniti, ma evidenzia la
crisi dell’intero Occidente, dove il culto di diritti individuali ha
sempre più corrisposto alla crisi delle “grandi narrazioni” religiose e
filosofiche che davano senso alla vita e alla libertà stessa. Questa,
perciò, invece di essere innanzi tutto “libertà-per” qualcos’altro, si
è sempre più identificata con quella “da”. Col risultato di riguardare
sempre di più l’individuo e di essere sempre più sganciata dai fini e
dalla dimensione comunitaria in cui questi si incarnavano. Significativo
il fatto che la società occidentale vede ormai il tramonto della famiglia
e il trionfo della figura del single, che ha rapporti non vincolanti con
partner che cambiano di volta in volta, o con cui comunque «si sta insieme
finché si sta bene insieme», senza un impegno assoluto.
Che ci sia una versione “progressista” di questa visione – negli Stati
Uniti come in Europa – , in contrasto e in polemica con quella del
governatore repubblicano Abbott e ostile all’uso indiscriminato delle
armi, non cambia la sostanza. «Il diritto di disporre di sé, del proprio
corpo, della propria inclinazione, della propria sessualità, della propria
sicurezza», di cui parlava Ferraresi, è il grande protagonista delle battaglie
“di sinistra” (ma ha ancora senso questa parola, applicata una visione
individualista?) che negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente hanno ormai
identificato la libertà con la legalizzazione dell’aborto senza vincoli di
sorta, con il matrimonio tra persone dello stesso sesso e con il libero
accesso all’eutanasia.
Ovviamente la comune radice culturale non può fare equiparare
questi diverse fattispecie, come dimostra il fatto che i fautori del
libero mercato delle armi sono spesso contrari alla libertà dell’aborto o
al matrimonio gay e viceversa. Come spesso accade, da un’unica premessa si
traggono conseguenze assai diverse e perfino opposte.
A chi ritiene rovinose per la vita umana sia le une che le altre non resta
che evidenziarne, al di là delle immediate reazioni emotive, la logica
interna – come qui si è cercato di fare – e rimettere in discussione il
concetto di libertà che esse implicano.
*Pastorale Scolastica Diocesi Palermo