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mercoledì 30 giugno 2021

COVID 19. UNA SFIDA APERTA


Una lettura interdisciplinare, antropologica, sociologica e medica, per sottolineare l'eccezionalità del dramma Covid-19. 

Una pandemia che ha avuto anche la forza di attivare in tempi rapidissimi la ricerca, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dall'Europa all'India, dalla Russia a Israele, per trovare vaccini efficaci. 

Una sfida aperta che ha bruciato tempi e promosso collaborazioni fino a ora inedite, che ha rafforzato la percezione della scienza come elemento fortemente positivo nella società. 

Una lezione che ha modificato sostanzialmente consolidati stili di vita nell'ambito del lavoro e della scuola, nelle relazioni interpersonali, nella famiglia, nell'organizzazione e programmazione della vita personale e collettiva, nelle modalità di fruizione del tempo libero. 

La scommessa nelle nostre mani è di cogliere l'opportunità di un cambiamento, di passare dal coronavirus alla coronavirtus, di rivisitare cioè il dramma in una prospettiva etica quanto mai necessaria e urgente.

 

Covid-19. Una sfida aperta

di Gioia Di Cristofaro Longo

 Editore: Aracne (Roma)

  • Collana: L'altra faccia della luna
  • Data di Pubblicazione: 2021
  • EAN: 9791259940902
  • ISBN: 125994090X
  • Pagine: 124
  • Formato: brossura
  • € 9

 




martedì 29 giugno 2021

IDENTITA' DI GENERE E BAMBINI


 Il ddl Zan e il rischio di introdurre protocolli educativi che non tengono conto della realtà.

L’articolo 1 della legge, che definisce cosa si debba intendere per sesso, orientamento, identità... aggira in modo grave e non innocente la questione: qual è la visione antropologica di riferimento? La domanda educativa di fondo è: in che direzione riteniamo sia bene orientare i nostri figli, in virtù di quali valori?

 Presentare la sessualità come un vissuto soggettivo e fluido può essere fonte di ansia e disorientamento. Il pensiero infantile è diverso da quello adulto, e cerca basi sicure


-         di MARIOLINA CERIOTTI MIGLIARESE*

Prevenire e contrastare il manifestarsi di discriminazione e/o violenza nei confronti di qualcuno a motivo della sua disabilità o del suo modo di vivere la sessualità, sono obiettivi doverosi: è dunque del tutto legittimo domandarsi se queste persone siano adeguatamente tutelate a livello sociale e interrogarsi su come rendere più efficace questa tutela anche a livello legislativo. Ma se una legge intende allargare la questione a quale sia il modo più giusto ed efficace per educare i nostri figli a un vero rispetto di tutte le differenze, credo sia altrettanto doveroso porsi almeno due questioni, che sono centrali ogni volta che si affronti una problematica educativa rilevante. La prima questione riguarda la necessità di esplicitare quale sia il modello antropologico cui intendiamo fare riferimento; l’idea che possa esistere una relazione educativa 'neutra' è infatti un’idea del tutto astratta: la posizione del bambino rispetto all’adulto è sempre una posizione asimmetrica, che comporta in quanto tale rilevanti elementi di influenzamento. La domanda educativa è dunque: in che direzione riteniamo sia bene orientare i nostri figli? A quali valori facciamo riferimento? A quale idea dell’uomo, della vita, delle relazioni crediamo e ci ispiriamo? L a società occidentale ha finora avuto come riferimento ideale il modello antropologico cristiano, fondato sul valore centrale della persona: un riferimento ideale, molte volte tradito e disatteso, ma non per questo superato. Chi si ispira all’antropologia cristiana non può che difendere sempre e comunque la vita e la persona: la vita di chi rischia di annegare nel tentativo di raggiungere le nostre coste, così come la vita del bambino che rischia di venire ucciso nel grembo della madre. Non c’è, per il cristiano, un valore minore nella vita del vecchio, del disabile, dello straniero, del bambino non ancora nato, del morente, dell’omosessuale o del transessuale: ogni vita ha una preziosità assoluta e merita sempre cura e pieno rispetto. M a il modello antropologico cristiano non si limita ad affermare con forza il valore intangibile di ogni vita, perché, riflettendo nel corso dei secoli sul messaggio ricevuto, entra anche nel cuore di ciò che significa essere persona, e fin dalle origini ci indica la somiglianza con il Creatore in due caratteristiche umane fondamentali e tra loro inscindibili: essere persone sessua- te ed essere persone in relazione. Il valore del maschile e del femminile, la loro differenza, la loro reciprocità, sono elementi fondanti ma ancora non sufficientemente esplorati dell’antropologia cristiana; purtroppo non siamo finora stati capaci di comprendere e vivere a pieno queste realtà: abbiamo dato troppe cose per scontate e ne abbiamo impoverito la forza dirompente, togliendo poco alla volta la carica rivoluzionaria che contengono.

La visione antropologica cristiana, che ha ispirato finora anche se in modo imperfetto il nostro modo di intendere le re- lazioni, ha dunque ancora molto da dire sull’uomo, sulla donna, sulla loro specificità, sulla loro relazione; non può venire liquidata senza un confronto aperto e approfondito, e neppure venire semplicemente ignorata. L’articolo 1 del ddl Zan, che definisce all’interno di una legge cosa si debba intendere per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, mostra di aggirare in modo grave e non innocente la questione: senza dichiarare apertamente quale sia la visione antropologica cui fa riferimento, attraverso questa modalità apparentemente pragmatica liquida in modo affrettato il modello cristiano, riuscendo ad evitare così un aperto e schietto confronto delle idee. A nche l’articolo 7 e 8, relativi alle strategie di prevenzione e contrasto alla discriminazione, si inseriscono in questa impostazione che dà per scontato ciò che non lo è, prevedendo di introdurre nelle scuole di ogni ordine e grado una formazione orientata a una visione non dichiarata e non sufficientemente discussa. Questo apre però anche alla seconda delle questioni in gioco: oltre a dichiarare gli obiettivi e a collocarli in una visione antropologica condivisibile, formulare programmi educativi richiede una conoscenza approfondita dell’età evolutiva: una conoscenza ad ampio raggio, che comprenda le caratteristiche cognitive di ogni età, il compito evolutivo specifico di ogni fase dello sviluppo, le dinamiche affettive del bambino e dell’adolescente, anche per quanto riguarda il modo in cui ogni età può confrontarsi nel modo migliore con il tema della differenza sessuale e con il tema dell’identità.

Come neuropsichiatra infantile ho studiato a lungo le dinamiche dell’età evolutiva e ne conosco la delicatezza e la complessità; so dunque, non solo per studio ma anche per esperienza, che parlare di sesso con i bambini richiede come premessa una conoscenza approfondita delle differenze che esistono tra l’adulto e il bambino: come già sottolineava Anna Freud nei suoi testi, tra bambino e adulto ci sono differenze qualitative cruciali, che si fanno particolarmente evidenti proprio in relazione al modo in cui i bambini concepiscono la differenza sessuale e tutto ciò che concerne la vita sessuale in genere. Chiunque abbia dimestichezza con il pensiero infantile sa bene che prima della pubertà il bambino non è in grado di comprendere il significato della sessualità adulta: il pensiero infantile è un pensiero concreto, realistico, basato sull’esperienza; è un pensiero ego-centrico, che non è in grado di immaginare ciò di cui non può fare esperienza e dunque costruisce sulla sessualità delle proprie teorie, fortemente resistenti ad ogni spiegazione e logica adulta. L a sessualità del bambino

è pregenitale; il desiderio sessuale, per come noi lo conosciamo, gli è del tutto ignoto e gli organi sessuali sono per lui collegati in maniera inestricabile con le funzioni escretrici. Proprio per questo, il contatto precoce con la sessualità degli adulti è per il bambino un’esperienza molto disturbante: il sesso adulto lo eccita e insieme lo spaventa e lo confonde, creando spesso vissuti di tipo traumatico, come ben sa ad esempio chi si occupa di minori esposti alla pornografia. La mente del bambino è inoltre una mente che ha bisogno di ordine: orientarsi nella complessità è un compito adulto, che può essere affrontato più facilmente quando si parte da basi sicure. Ma proprio per la concretezza del suo pensiero, niente è per il bambino più sicuro e verificabile dell’esperienza del proprio corpo, così come concretamente si presenta: corpo che si specifica solo al maschile o al femminile, facilmente distinguibili grazie ai loro attributi genitali. Maschile e femminile che sono differenti, e la cui differenza ha come scopo la possibilità di generare.

Per questo, presentare la sessualità come un vissuto puramente soggettivo o come un continuum fluido che sfugge a ogni definizione rischia di essere per lui solo fonte di grave ansia e preoccupazione: se non è più possibile ancorarsi alla realtà di ciò che si percepisce, il mondo diventa infatti un luogo nel quale orientarsi con sicurezza diventa molto difficile. Per tutti questi motivi, credo che prima di introdurre per legge protocolli educativi sull’identità di genere sia indispensabile fermarsi a riflettere e ascoltare con attenzione la voce di coloro che, pur avendo a cuore la tutela da ogni possibile discriminazione, non si rassegnano a scorciatoie affrettate e pericolose: torniamo ad allargare lo sguardo, a contestualizzare le nostre decisioni, a discutere senza pregiudizi, e chiediamoci quale tipo di uomo e di donna vogliamo indicare ai nostri figli come modello per una felicità possibile.

*Neuropsichitra infantile e psicoterapeuta

 

www.avvenire.it

 

EDUCAZIONE FINANZIARIA - INTESA CON LA BANCA D'ITALIA


 Educazione finanziaria, 

siglato il Protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Istruzione e la Banca d’Italia

Promuovere l’educazione finanziaria a scuola e nei percorsi d’istruzione per gli adulti, per accrescere le competenze economiche di studentesse e studenti e mettere in luce lo stretto legame esistente fra questo tema, l’educazione alla cittadinanza e la sostenibilità ambientale.

Con questi obiettivi il Capo del Dipartimento per il sistema educativo di Istruzione e Formazione del Ministero dell’Istruzione, Stefano Versari, e il Capo del Dipartimento Tutela della clientela ed Educazione finanziaria della Banca d’Italia, Magda Bianco, hanno sottoscritto il Protocollo d’intesa “Per il potenziamento dell’educazione finanziaria e la promozione della cittadinanza sociale nelle istituzioni scolastiche, al fine di rafforzare le competenze dei giovani, il loro orientamento formativo e la loro futura occupabilità”.

Il Ministero e la Banca d’Italia promuoveranno insieme, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, attività formative sull’educazione economica e finanziaria, per sensibilizzare studentesse e studenti, anche adulti, a una corretta gestione delle proprie risorse, al valore della sostenibilità anche in campo economico-finanziario e all’esercizio di una cittadinanza economica e sociale che favorisca l'inclusione, soprattutto delle persone finanziariamente fragili.

Il Protocollo avrà durata triennale. Saranno svolti: iniziative dedicate al funzionamento e alle finalità della Banca centrale, co-progettate nel rispetto dei Piani triennali dell’offerta formativa; attività nell’ambito dei Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento; programmi di orientamento per le secondarie di I grado, sulle filiere formative del settore finanziario e le relative prospettive occupazionali, e per le secondarie di II grado, sulle prospettive offerte dal territorio.

www.istruzione.it

sabato 26 giugno 2021

TALITHA' KUM !

      

  Fanciulla, io ti dico: Àlzati! –

Dal Vangelo secondo Marco-   Mc 5, 21-43

- In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?"». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

 Commento di p. Paolo Curtaz

È una storia di donne, quella che ci presenta Marco oggi. E di dolori. Di dolori irrisolti come la lunga e penosa malattia invalidante dell’emorroissa.  Di dolori atroci come la perdita della figlia adolescente di Giairo. Una storia di approcci, di sguardi, di sfioramenti, di energie, di fede, di conversioni da operare. No, non abbiamo una risposta definitiva al mistero del male e della morte. Soprattutto del dolore dell’innocente. Ma abbiamo un Dio che quel dolore lo condivide e lo redime. Questo è venuto a raccontare il Signore Gesù.

Giairo

Marco, con abilità, intreccia due storie di sofferenza. Entrambe sono accomunate dalla presenza tutta femminile e dal numero dodici.

Dodici sono gli anni della malattia della povera donna. Dodici gli anni della figlia di Giairo. Dodici, nella Bibbia, è il numero della pienezza come dodici sono i mesi dell’anno. Ci troviamo davanti a due dolori assoluti, compiuti, travolgenti.

Marco pone il lettore davanti a due fra le grandi paure della nostra vita: la malattia che ci taglia dalla vita di relazione e la morte improvvisa nel pieno della nostra attività come è stata e ancora è la paura della pandemia.

Giairo è uno dei responsabili della bella e grande sinagoga di Cafarnao. Per la precisione è uno di quelli che si occupano di scegliere i lettori e di coordinare la liturgia. Non è uno qualunque, è uno che prega, un credente, un pio, un devoto.  Uno impegnato nella fede, che investe molto nella vita interiore e si rende disponibile. La sua devozione, la sua convinzione, le sue motivazioni profonde vacillano davanti alla figlia esanime. È che è allo stremo, dice Marco. Luca e Matteo tolgono questo particolare, dandola per morta.

L’unica cosa che può fare Giairo, interiormente sfinito, è gettarsi ai piedi del Maestro.

Non ne può più, non sa come uscirne, non ha soluzioni. Allora si mette in ginocchio come chi mendica. Come chi chiede.  Non sa più nulla. Non sa più se crede. Chiede per lei che sia salvata e viva. Salvezza e vita. Le due dimensioni essenziali dell’esistenza umana. Gesù si muove, c’è urgenza. Ma accade qualcosa di imprevisto: una donna chiede la guarigione, ruba un miracolo. E questo rallenta il corteo. Anzi, Marco sembra insinuare il dubbio che la causa della morte della ragazza abbia a che fare col colpevole ritardo di Gesù. Dramma fra poveri: chi guarire per primo? Chi ha diritto al miracolo?

Timidezza

Il sangue è vita, chi perde sangue muore. Il flusso mestruale è misterioso, quindi, meglio starne alla larga. Una donna mestruata è impura non va toccata. L’emorroissa non riceve un abbraccio da dodici anni, di che morirne. Ma ha paura, sa che toccando il rabbì lo renderà impuro. Tenera. Ma osa. Almeno il mantello, almeno sfiorarlo. E accade. Non è lei a rendere impuro il Signore, è lui a renderla pura. E se ne accorge. Chiede chi è stato. C’è ressa, che domanda scema è? Tutti lo toccano. Una sola lo sfiora. Ne prende l’energia vitale perché ci crede, perché mendica, perché elemosina. Possiamo frequentare Dio per anni senza mai guarire.

Scusate il disturbo

Arriva qualcuno che prende da parte il povero Giairo. Poca diplomazia, nei suoi confronti. La ragazza è morta, lasci stare il Maestro. Letteralmente Marco usa un verbo che significa scorticare, sfinire…, non sfinire il Rabbì, dicono. Una crudezza e un atteggiamento che lasciano stupiti e che ritroveremo più avanti.

Che c’entra, ora, il disturbo al Maestro? Siamo davanti al dramma di una ragazza morta e ci formalizziamo? Che idea c’è di vita, di morte e di Dio dietro questa sconcertante affermazione? Il nostro è un Dio che vuole essere importunato! Che chiede al discepolo di insistere! Che vuole venire nelle nostre case a renderci visita! Dalla casa sono venuti a dire a Giairo di rassegnarsi. Gesù, contraddicendo questo parere, chiede a Giairo di fidarsi.

Lotta Ora il gioco si fa duro.

Da una parte la folla rumorosa che assale Gesù, la devozione fanatica ed esuberante che gli impedisce di operare. Dall’altra la necessità di ricavarsi uno spazio, di operare una selezione. Seguire Gesù, diventare discepoli è qualcosa di diverso dal seguire l’onda della folla. Gesù lo sa bene. Tre fra i discepoli possono seguirlo. Perché devono essere due o tre i testimoni, come stabilisce la Scrittura (Dt 19,15). Gesù annuncia la buona notizia zittendo i vicini che si disperano: ora sono loro a non doversi disturbare. La bambina non è morta, dorme, inutile strepitare. Lo fa con una gentilezza disarmante, con una fede incrollabile. Mi immagino lo sguardo perplesso del padre. Dorme? Che significa? Dorme, certo. È una professione di fede vera e propria, un invito a credere contro l’evidenza. Entra in casa.

Alzati!

Prima il gesto, poi la Parola. Prima la tocca, poi le parla. Dio sempre ci tocca, prima di parlarci. Attraverso mille piccoli segni, piccole attenzioni, piccole sfumature che solo uno sguardo di fede è in grado di cogliere. Dio ci accarezza con delicatezza e garbo.

E il Verbo parla. Un vezzeggiativo, ragazzina, e un ordine: kum! E usa l’aramaico, la lingua usata al suo tempo. Non l’ebraico, la lingua del sacro. O il latino, la lingua dell’impero. O il greco, la lingua commerciale. Ma la lingua materna, quella imparata in casa. Dio ci parla sempre con un linguaggio che siamo capaci di capire. E ci ordina: kum! Alzati! O, meglio ancora: sorgi!

Per me

Gesù è colui che dona la vita, sempre. La fede che Giairo deve coltivare nonostante l’apparenza. E nonostante la folla che lo porta lontano dal Signore. La guarigione riguarda la bambina, certo, ma anche la famiglia della bambina e la folla. Una guarigione da una visione della morte catastrofica e definitiva. Gesù, invece, fornisce una lettura completamente diversa riguardo alla morte. Non come evento definitivo ma come passaggio.

Vedo in quella bambina l’immagine dell’anima che porto in me. Anima in senso teologico, ma anche psicologico. L’anima è la parte più profonda, delicata e autentica che porto in me. E che, spesso, mortifico.

Distrazione, negligenza, scoraggiamento, peccato, la portano alla soglia della morte. Allora, proprio allora, Gesù mi prende per mano e mi intima:

Talithà kum!

 

Cercoiltuovolto

 

 

 

DDL ZAN. CHE LA RAGIONE PREVALGA!


 -        di Giuseppe Savagnone


«Concordo pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota Verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali». Così è intervenuto il card. Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, nel dibattito sul rapporto tra il Vaticano e lo Stato italiano.

Un intervento che in cui si manifesta l’evidente intento del Vaticano di abbassare i toni della polemica – e forse la presa di coscienza di avere fatto un passo controproducente, almeno davanti all’opinione pubblica –, come conferma anche la precisazione del “ministro degli Esteri” del papa, secondo cui la Nota era destinata a rimanere «un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica. Un testo scritto e pensato per comunicare alcune preoccupazioni e non certo per essere pubblicato».

Peraltro, il cardinale ha ribadito ciò che già si sapeva: «Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare il ddl Zan. Siamo contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale, come pure della loro appartenenza etnica o del loro credo. La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è».

Un problema reale da discutere laicamente

Quale che sia la valutazione della opportunità o meno dell’intervento della Santa Sede, c’è almeno un punto su cui sarebbe bene riflettere, si sia o meno d’accordo con esso nel suo insieme. Discuterlo con equilibrio, al di là del coro di proteste che la Nota ha suscitato – alcune, per la verità, evocanti un laicismo vecchio stampo, come nel caso di Fedez – non è una rinuncia alla laicità, ma il rispetto della sua essenza, che è la disponibilità a confrontarsi razionalmente con chi la pensa in modo diverso.

Nel ddl Zan si prevede un aggravio di pena per chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione» nei confronti di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Ora, come ha fatto notare Parolin, «il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo».

Basta cercare nel vocabolario «Treccani»: il significato di “discriminare” è «distinguere, separare, fare una differenza». Ora, è chiaro che chi – come la Chiesa cattolica, ma non solo – non condivide l’equiparazione piena tra i rapporti eterosessuali e quelli omosessuali, sta ponendo per ciò stesso una differenza, una discriminazione tra i primi e i secondi. Rientra per questo nella fattispecie criminale prevista dal ddl Zan?

È vero che, per rispondere alle preoccupazioni di chi accusava il ddl Zan di impedire ogni forma di dissenso rispetto alla dibattuta questione del gender, è stato inserito appositamente nel testo l’articolo 4, che esclude dalla punibilità «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte». Ma anche questa precisazione contiene, alla fine, una postilla non insignificante: «purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Mettendo da parte l’ipotesi estrema della violenza, un giudice non potrebbe considerare una omelia, una catechesi – o anche semplicemente una presa di posizione da parte di chiunque sostenga che quello tra uomo e donna è l’unico “vero” matrimonio – come manifestazioni di pensiero «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori», nella misura in cui destinate a convincere gli ascoltatori a fare una netta differenza, e quindi una discriminazione,  tra l’unione eterosessuale e quella gay?

Quand’è che la discriminazione – il “fare la differenza” – tra eterosessualità e omosessualità è l’implicazione di una visione dell’essere umano, del corpo, della sessualità, pur nel pieno rispetto delle persone, e quando invece comporta il proseguimento di una secolare, triste tendenza, ancora molto diffusa, a insultare, umiliare, perseguitare, emarginare chi è “diverso”? Questo il ddl Zan non lo precisa.

Il valore della differenza

Qualcuno dirà che già ammettere una diversità è una forma di emarginazione. Non è vero. È proprio questo l’equivoco delle gender theories, quando puntano a “decostruire”, o comunque a minimizzare, la differenza sessuale inscritta nella biologia e nella morfologia dei nostri corpi, considerandola automaticamente fonte di ingiustizia e di violenza. Non è vero che si può rispettare l’altro solo se si elimina la sua diversità. Al contrario, il vero rispetto nasce proprio dall’accettazione delle differenze. La reazione contro l’“omofobia” non può giustificare un’altrettanta disastrosa tendenza all’omologazione indiscriminata, peraltro già presente nella nostra società.

E finché non si faranno queste precisazioni, anche il messaggio culturale ed educativo che il ddl Zan vuole indirizzare alla società, e in particolare alle scuole, con l’istituzione di una “Giornata nazionale contro l’omofobia”, rischia di essere estremamente ambiguo e di trasformarsi, in molti casi – pur col lodevolissimo intento di combattere il bullismo e altre forme di cattiva discriminazione –, in un’ esaltazione della in-differenza tra maschile e femminile, tra omo ed eterosessualità, tra famiglie etero e famiglie gay, tra la generazione fondata sull’amore tra uomo e donna e quella che fa ricorso all’utero in affitto.

Particolarmente allarmante è che la prospettiva di questa propaganda capillare gravi su tutte le nostre scuole, di ogni ordine e grado, incluse le elementari. Un emendamento, che prevedeva l’introduzione nel ddl Zan del consenso dei genitori per i bambini della scuola primaria, è stato respinto. Come non vedere il pericolo di una ideologia di Stato, che scavalca la Chiesa, ma anche la famiglia?

Il pasticcio

Detto tutto ciò, bisogna prendere atto che la gestione “politica” di queste legittime esigenze, da entrambe le parti oggi in conflitto, ha lasciato molto a desiderare e ha impedito di affrontare i problemi reali. A lungo la posizione della Cei è stata del tutto negativa verso il ddl Zan, bollato in blocco come suerfluo e liberticida. Non si sono colte le esigenze in sé giuste che esso rappresentava e non si è fatto lo sforzo per distinguerle dalle formulazioni sbagliate. Solo in extremis – quando ormai era chiaro che il testo stava per diventare legge – in una battuta con i giornalisti il card. Bassetti ha precisato che l’intento dei vescovi non era di affossare il testo, ma di modificarlo. Come del resto oggi ribadisce la Santa Sede, che però è intervenuta troppo tardi per avviare un dialogo costruttivo e si è attirata, con il suo passo, accuse di ingerenza del tutto infondate (qui si tratta del rispetto di un accordo tra due Stati e del legittimo confronto tra essi quando nascono dei problemi), ma accolte in blocco da un’opinione pubblica poco abituata (ancora una volta) a fare distinzioni.

Dal lato del Parlamento si è lasciato che gli equivoci del ddl Zan permanessero, dando spazio alle fazioni che vedono nella battaglia sulle questioni etiche un modo per smantellare la tradizione etica del nostro Paese. Particolarmente assordante il silenzio dei deputati e senatori cattolici disseminati sia a destra che a sinistra, con la sola eccezione – purtroppo sospetta – di quelli che da tempo cercano di accaparrarsi l’elettorato cattolico, ostentando una ispirazione evangelica di cui il loro programma complessivo è una evidente smentita. E questa confusione (ancora una volta, si misconoscono le differenze) tra laicità e laicismo non poteva che portare allo scontro.

Il risultato è sotto i nostri occhi. Difficile dire come finirà. Ma non possiamo rinunziare alla speranza che la ragione – non la fede – prevalga, per migliorare il ddl Zan e far sì che le giuste esigenze che esso rappresenta si concilino con il rispetto di un pluralismo esaltato da tutti a parole, ma minacciato nei fatti.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

DROGA. IN AUMENTO L'USO DURANTE LA PANDEMIA

26 giugno 

Giornata contro la droga

“Informare per salvare vite” è il tema voluto dall'Onu in questa Giornata. Il rapporto annuale delle Nazioni Unite evidenzia un forte incremento di consumo di cannabis e l’affermazione del web per la vendita di sostanze stupefacenti. A Vatican News la voce della Comunità Papa Giovanni XXIII: l'uso di droghe è una falsa risposta a bisogni profondi

 -        di Marco Guerra – SCV

 Circa 275 milioni di persone nel mondo hanno fatto uso di droghe nell’ultimo anno, è quanto emerge nel Rapporto mondiale pubblicato dalle Nazioni Unite alla vigilia dell’odierna Giornata internazionale contro la droga 2021.Nello stesso periodo preso in esame, oltre 36 milioni di persone hanno sofferto di disturbi da consumo di droga.

In aumento uso cannabis

Il rapporto mette inoltre in evidenza che la potenza della cannabis in particolre negli ultimi 24 anni è aumentata di ben quattro volte e che, tuttavia, la percentuale di adolescenti che ne percepiscono la pericolosità è scesa fino al 40%, nonostante l'evidenza che l'uso di cannabis sia associato ad una varietà di danni alla salute e di altro tipo, specialmente tra i consumatori regolari. La pandemia ha confermato queste tendenze insieme a registrare un aumento dell'uso non medico di farmaci.

Informare per salvare vite

"Una minore percezione dei rischi del consumo di droga è stata collegata a tassi più elevati di consumo, e i risultati del Rapporto mondiale sulle droghe 2021 evidenziano la necessità di colmare il divario tra percezione e realtà per educare i giovani e salvaguardare la salute pubblica". Così il direttore esecutivo dell'Ufficio Onu sulle Droghe e il Crimine, Ghada Waly. Il tema della Giornata quest'anno è "Condividi i fatti sulle droghe. Salva le vite", spiega una nota dell’Onu, sottolineando l'importanza di rafforzare la base di prove e dati per sensibilizzare il pubblico, “in modo che la comunità internazionale, i governi, la società civile, le famiglie e i giovani possano prendere decisioni informate, indirizzare meglio gli sforzi per prevenire l'uso di droga e affrontare le sfide mondiali relative a questo fenomeno”.

L’evoluzione del mercato

Un altro trend è quello della vendita di sostanze stupefacenti sul dark web. Questo tipo di mercato vale 315 milioni di dollari di vendite annuali, una piccola frazione rispetto alle vendite complessive, ma che registra una rapida espansione. Più in generale il mercato globalizzato sul web renderà le droghe più disponibili in tutto il mondo. Il documento dell’Onu osserva poi che “la resilienza dei mercati della droga durante la pandemia ha dimostrato ancora una volta la capacità dei trafficanti di adattarsi rapidamente ad ambienti e circostanze mutate”. Tra le nuove strategie si annoverano spedizioni sempre più grandi di droghe illecite, un aumento della frequenza delle rotte via terra e via acqua, un maggiore uso di aerei privati per il trasporto e un'impennata nell'uso di metodi senza contatto per consegnare la droga ai consumatori finali. Il Rapporto fa inoltre notare che le catene di approvvigionamento di cocaina verso l'Europa si stanno diversificando, spingendo i prezzi verso il basso e la qualità verso l'alto, e quindi il Vecchio Continente è esposto ad un'ulteriore espansione del mercato della cocaina.

L’impatto della pandemia

Volgendo lo sguardo agli impatti negativi della pandemia, l’analisi dell’Onu suggerisce che l’aumento delle difficoltà economiche dovute alle chiusure rende la coltivazione di droghe illecite più attraente per le fragili comunità rurali. Oltre tutto l’aumento delle disuguaglianze, della povertà e dei problemi di salute mentale, in particolare tra le popolazioni già vulnerabili, rappresentano fattori che potrebbero spingere più persone all'uso di droga.

“Non c’è una diminuzione dell’uso di sostanze stupefacenti ma c’è un mutamento del fenomeno. nel periodo della pandemia è cambiata la modalità di reperimento. Ma ricordiamo un elemento di fondo: l’uso di droghe è un tentativo sbagliato di rispondere ai bisogni profondi della persona, il bisogno di relazione e di ricerca di significato della vita. Con la pandemia è aumentato il bisogno di compensare questa ricerca con le sostanze”, spiega a VaticanNews Meo Barberis responsabile delle Comunità Terapeutiche della Comunità Papa Giovanni XXIII.

Vatican News

 

 

giovedì 24 giugno 2021

LA POLITICA ? UN SERVIZIO COMPETENTE


 Intervista al presidente dell’Associazione degli ex deputati all’ARS.

 Intervista di Rocco Gumina

La pandemia da Covid-19 ha ulteriormente smascherato i limiti dell’odierna stagione politica. In Italia, la personalità di Mario Draghi ha messo d’accordo tutti, o quasi, ma la nostra repubblica non può basarsi soltanto su “salvatori della patria” seppur di autorevole profilo. Occorre altro a partire da un nuovo protagonismo dei partiti, dei corpi intermedi e della cittadinanza.

Dell’attuale momento politico, discutiamo con Rino La Placa. Già dirigente scolastico e deputato all’Assemblea Regionale Siciliana, La Placa è stato fra i più stretti collaboratori di Piersanti Mattarella. Attualmente è presidente dell’Associazione degli ex deputati all’ARS.

 

 – On. La Placa, lei ha vissuto diverse e difficili stagioni della politica siciliana e italiana. Dall’uccisione di Piersanti Mattarella alla “primavera di Palermo”, dalla fine della Democrazia Cristiana alla fondazione del Partito Democratico. Alla luce della sua esperienza, come valuta l’attuale stagione politica italiana?

Gli ultimi anni della vita politica italiana sono segnati dall’emergere del populismo e del sovranismo; sono gli anni della crisi dei partiti e della demotivazione alla partecipazione democratica. Dal mio punto di vista, la democrazia del n0stro Paese ne ha sofferto tanto ed io ho provato e provo tanta tristezza osservando il modo di svolgersi della politica nel nostro contesto sociale. Non c’è in me rassegnazione. Penso alla possibilità e al dovere di ciascuno di superare questa difficile fase. È necessario un impegno, forte e razionale, individuale e corale che superi lo scadimento della qualità del confronto e della dialettica modificando e rinnovando alcuni modi di essere e realizzando le necessarie riforme per una migliore funzionalità delle istituzioni democratiche. Il primo mutamento deve essere, però, nel modo di sentire e di vivere la politica. La politica deve rivelarsi come un servizio competente, da prestare insieme agli altri, non contro.

– Nel passato, la Sicilia è stata spesso definita come un “laboratorio politico” capace di anticipare lo sviluppo dei movimenti sullo scenario nazionale. La situazione odierna, a suo avviso, fa della nostra regione un modello futuribile per la politica italiana?

Con riguardo all’ambito regionale siciliano i rilievi critici espressi assumono, ai miei occhi, una dimensione di maggiore gravità. Alle negative modalità di confronto, spesso caratterizzate da autoreferenzialità, aggressività, continui cambi di collocazione politica individuale, scarsa progettualità va collegata una classe dirigente politica che non riesce ad aiutare la Sicilia nello sforzo di superamento della marginalità e dello squilibrio territoriale e sociale. Non si tratta di fare pagelle a singoli esponenti o, in modo generico, a tutta la classe politica non solo perché non se ne ha titolo ma anche perché ci sono, in tutte le formazioni, eccezioni lodevoli, non in grado – purtroppo – di modificare la complessa e critica realtà.

La Sicilia è stata tante volte “laboratorio” politico, che ha anticipato temi, scelte ed alleanze nazionali di rinnovamento, ma non mi pare che gli ultimi tempi ed il presente siano stati o siano idonei per significative innovazioni. L’esperienza di governo di Piersanti Mattarella alla fine degli anni settanta e quella della “Primavera di Palermo”, un decennio dopo, mi sembrano irripetibili anche nella somiglianza. Da parte mia mi sento ricco e privilegiato, avendo partecipato, con ruoli diversi, all’una e all’altra esperienza di rinnovamento della politica. Cosa resta dell’espressione “avere le carte in regola”? In che cosa si sostanzia il meridionalismo odierno? Chi scorge e chi coltiva l’entusiasmo partecipativo dei giovani?

– Fra i problemi della nostra democrazia, a qualsiasi livello, vi è la leadership. Oggi, leader solitari assumono il comando dei partiti e consumano – spesso in poco tempo – percorsi politici inizialmente di successo ma destinati ad inabissarsi nell’irrilevanza. A suo parere, perché la nostra società non riesce più a generare una classe dirigente in grado di avere una visione politica d’insieme come è avvenuto per buona parte della storia repubblicana?

È vero che la leadership si presenta oggi come un problema della democrazia perché è più competitiva che rappresentativa di valori e progetti, è narcisista, risente molto delle campagne mediatiche e coinvolge principalmente per cooptazione. Non nasce dal confronto, anzi anestetizza il dibattito e lo esaspera rendendolo spesso rissoso. Oggi i leaders comandano troppo, si consumano presto e spesso si dissolvono senza restare modelli per i giovani. Anche sotto questo aspetto la democrazia mostra le sue crepe. Dove è finito il sistema dei partiti della prima repubblica?

Vituperati (qualche volta anche da me), erano certamente bisognevoli di cure, ammodernamenti, riforme, ma non da cancellare senza valide sostituzioni. Avversando, genericamente, la “casta” si è inferto un duro colpo alla qualità della classe dirigente, perché la nuova è risultata più incompetente, di scarsa formazione e assai carente sul piano della motivazione al servizio. Non c’è certamente da fare alcuna attenuazione al contrasto e alla lotta al clientelismo, alla corruzione o alle turpi mercificazioni di alcuni modi di essere della politica, ma non si può cadere dalla padella nella brace. Migliorare e correggere sì, distruggere e rottamare tutto, no. Occorre riprendere le esperienze esemplari di tanti testimoni e protagonisti del tempo recente, ritornare alla voglia di politica come servizio, stimolare e valorizzare un esercizio di cittadinanza attiva, che spinga a un impegno politico serio, lungimirante e armonico. Nessuno si sottragga a questo compito e i giovani siano gli attori principali.

– In una recente pubblicazione dedicata alla figura di Piersanti Mattarella, lei ha affermato che il presidente della regione siciliana trucidato nel 1980 dalla mafia va fatto conoscere alle future generazioni. Perché è così rilevante trasmettere la sua testimonianza?

Ciò che sostengo per Piersanti Mattarella vale per tante altre figure esemplari, martiri e non. Ho conosciuto da vicino Piersanti Mattarella e mi sento un suo allievo perché la sua influenza nella mia formazione politica è stata enorme e decisiva.

Come professionista di scuola conferisco grande importanza ai modelli, ai punti di riferimento umani nella formazione dei giovani e valuto quanto sia grave non agevolare la conoscenza dell’esperienza umana e politica di Mattarella, presidente della Regione Siciliana, venuto a mancare per mano assassina. Il suo impegno politico e il modo con cui lo ha esercitato costituiscono – a mio avviso – un patrimonio da trasmettere ai giovani d’oggi, anche per approfondirlo e conoscerlo meglio.

– Politicamente lei è cresciuto, e si è affermato, all’interno della Democrazia Cristiana. È stato anche un importante esponente del rinato Partito Popolare Italiano. Dal suo punto di vista, quale contributo sono chiamati a dare oggi i cristiani in politica?

I cristiani in politica? Sì. Ormai da tempo il Magistero è chiarissimo. La politica non è terreno di perdizione. Fare politica è una nobile attività, la più alta espressione di carità; è un dovere di ciascuno contribuire al bene comune, è un servizio che qualifica. Papa Francesco nella “Fratelli tutti” si chiede: “Può funzionare il mondo senza politica?” E risponde sostenendo che abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, una politica sana, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche.

La mia esperienza comincia con la Democrazia Cristiana /corrente morotea/ e attraversa il PPI, la Margherita arrivando al Partito Democratico, dove dovevano confluire le grandi culture politiche progressiste del Novecento. Per fare alcuni nomi è stato il percorso di Castagnetti, Letta, Franceschini, Franco Marini, Rosy Bindi, Leopoldo Elia e tanti altri “cattolici democratici”. E’ stato il percorso di Sergio Mattarella prima di diventare il Presidente di tutti gli italiani.

Oggi non c’è un’aggregazione strutturata, un partito dei cattolici né può rinascere la Democrazia Cristiana. C’è e deve esserci una presenza di cattolici per offrire un doveroso e originale contributo allo sviluppo del Paese in forza di una visione cristiana della vita e dell’uomo. Mancando una struttura che accoglie i cattolici in politica, in quanto tali, ogni cristiano cerchi il posto dove meglio vivere ed esercitare la coerenza con i propri valori.

Per riflettere indico un tema: il Mediterraneo il più grande cimitero d’Europa (Papa Francesco). Affrontando questo tema si può sostenere qualsiasi formazione politica e rinunciare ad operare una scelta coerente? Non c’è una collocazione partitica certa e obbligatoria per il cristiano, ma c’è da tenere in gran conto il discernimento coerente in stretto rapporto con le opzioni personali e le responsabilità di ciascuno. Mi permetto ricordare che uno sguardo retrospettivo può essere di grande aiuto e la presenza dei cattolici democratici nella vita del nostro Paese è stata di grande rilievo ed utilità: i tratti distintivi del pensiero che ha animato le loro azioni possono ben illuminare anche il nostro difficile presente.

 

www.tuttavia.eu

 

 

FEDEZ, IL VATICANO, LE INESATTEZZE


 Lettera di Suor Anna Monia Alfieri, legale rappresentante delle scuole Marcelline italiane e membro della Consulta di Pastorale scolastica e del Consiglio Nazionale Scuola della CEI, indirizzata al cantante Fedez e riferita ad alcune esternazioni di quest’ultimo:

 

Gentilissimo signor Federico Leonardo Lucia,

mi rivolgo a lei chiamandola per nome: mi sembra, infatti, più dignitoso e rispettoso per la sua persona. Immagino, data la sua giovane età, che lei sia fresco di studi e che a scuola, sia alla Secondaria di Primo che alla Secondaria di Secondo Grado, i suoi insegnanti di Storia le abbiano presentato (e Lei poi a casa, nel pomeriggio, abbia studiato) il Concordato Lateranense del 1929 e la sua Revisione del 1984. Certo, lei mi dirà: il Concordato del 1929 fu firmato da Mussolini. Concordo.

Quello del 1984 fu però firmato, per lo Stato italiano, da Bettino Craxi, un socialista doc, non certo un amico del Vaticano e delle sue presunte logiche di potere. Spero, quindi, che, prima di fare certe affermazioni, abbia ripreso in mano quei libri, sempre che li abbia conservati e non li abbia venduti alla fine dell’anno. Cosa lecita, ci mancherebbe, qualche soldino in più per aiutare in famiglia o da dare in beneficenza fa sempre bene! Mi creda a 46 anni, dopo tre lauree, continuo a studiare, perché avverto la responsabilità di dire parole che costruiscono. Se ciò vale per un semplice cittadino, figuriamoci per un personaggio pubblico del suo calibro, con un seguito così folto e numeroso. Ovviamente sospendo ogni giudizio, chi è senza peccato scagli la prima pietra, disse. Qualcuno, ma mi permetto di fare una considerazione di metodo, solo per aiutare i nostri ragazzi ad orientarsi. Mi sembra doveroso, Lei sarà d’accordo.

Guardando il video da Lei diffuso, capisco che Lei non conosce, con dovizia di dati, i temi che intende porre all’attenzione pubblica e cioè: cosa sia uno Stato laico, cosa sia un Concordato, quale sia il tema dei sacerdoti processati con la legge del Vaticano e/o civile, quali tasse vengono pagate. Ancora, credo che Lei ignori il volontariato che centinaia di migliaia di laici, preti, suore, compiono ogni giorno. La solidarietà di cui Lei parla, in realtà, si chiama prossimità e non avviene mai a favore di telecamera. Non sappia la destra ciò che fa la sinistra, disse sempre quel Qualcuno.

Siccome sono più grande (di età naturalmente) di Lei, mi permetto di darLe un consiglio, anche se non richiesto: lo faccio in considerazione di tutti i consigli non richiesti che anche Lei offre ogni giorno, forte di un lessico forbito ed elegante dal quale traspare in tutta evidenza la sua profonda cultura e il suo alto senso civico. Se Lei desidera dare un contributo alla Res-publica –  cosa lodevolissima e che, per altro, rappresenta anche un dovere per tutti i cittadini ai sensi dell’art. 2 della Costituzione – è necessario documentarsi prima di esprimersi, al fine di evitare sovrapposizioni di argomenti.

Un conto è il ddl Zan che, Le ricordo, agli artt. 4 e 7 lede il diritto alla libertà di espressione (art. 21 della Costituzione), alla libertà di insegnamento dei docenti (art. 33 della Costituzione), alla libertà di scelta educativa che spetta ai genitori, cioè a Lei e non ad altri, né Chiesa né stato (art. 30 della Costituzione). E questo è un fatto.

In merito poi alla sua preoccupazione dei danari (una preoccupazione davvero di alto profilo morale e, soprattutto, coerente con il suo stile di vita, sempre così sobrio e morigerato), La informo che, in merito alla sua affermazione “Il Vaticano non paga le tasse immobiliari e l’Italia sta violando il Concordato”, nel 2020, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato per imposte € 5,95mln per IMU e € 2,88mln per IRES. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato, Propaganda fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli Enti religiosi. Ovviamente è tutto documentato, fino all’ultimo centesimo. E anche questo è un fatto.

Detto questo, la libertà del singolo non può essere negata. Se vorrà rimanere sulle sue posizioni, ce ne faremo tutti una ragione. Certo ai giovani, ai quali Lei si rivolge, io suggerisco sempre di approfondire, di andare oltre la notizia.

Per amore della verità non potevo tacere.

Un augurio di ogni bene,

sr Anna Monia Alfieri

 

Tecnica della Scuola