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sabato 31 ottobre 2020

GIU' DALLE NICCHIE !

Commento al Vangelo di domenica 1 novembre 2020

p. Paolo Curtaz

Si potesse (ma sarebbe poco serio per un serioso scrittore di spiritualità!), inonderei questa pagine di faccine sorridenti degli emoticon! Contento perché, d’ogni tanto, il calendario riesce ad incrociare la liturgia e la stupenda Solennità dei Santi si celebra di domenica e non lungo la settimana.  Lo so, lo so, purtroppo per molti oggi resta la “festa dei morti” (che simpatica crasi!) che, invece, è domani, e i santi, probabilmente, saranno cacciati alla celebrazione della vigilia e quella disertata della domenica mattina.

Tant’è, questa cosa rivela quanto poco siamo legati alla gioia che deriva dalla santità e che ci è necessaria per fare memoria dei nostri defunti. Santi e defunti vanno assieme, li celebriamo di fila (non insieme!) per fare il pieno di speranza prima di riflettere sulla morte. Lasciamo i crisantemi sul tavolo della cucina e i lumini ecologici nel sacchetto della spesa e, prima di fare un salto al Cimitero monumentale, fermiamoci a meditare sulla monumentale festa di oggi.

Giù dalle nicchie!

Oggi è la festa dei santi, la festa del nostro destino, della nostra chiamata.  Noi crediamo che ogni uomo nasce per realizzare il sogno di Dio e che il nostro posto è insostituibile.  Il santo è colui che ha scoperto questo destino e l’ha realizzato, meglio: si è lasciato fare, ha lasciato che il Signore prendesse possesso della sua vita. 

La nostra generazione è chiamata a riappropriarsi dei santi, a tirarli giù dalle nicchie della devozione in cui li abbiamo esiliati per farli diventare nostri amici e consiglieri, nostri fratelli e maestri. Quanti dispetti facciamo ai santi quando li teniamo distanti e cerchiamo di convincerli ad esaudirci a suon di ceri accesi! Loro che vorrebbero scendere per insegnarci a credere, come hanno saputo fare, si ritrovano esiliati nella lor condizione di persone strambe che poco hanno a che vedere con la nostra fede…

Il santo

La santità che celebriamo – in verità – è quella di Dio e avvicinandoci a lui ne siamo prima sedotti, poi contagiati. La Bibbia parla spesso di Dio e della sua santità, la sua perfezione d’amore, di equilibrio, di luce di pace.  Lui è il Santo, il totalmente altro ma, ci rivela la Scrittura, Dio desidera fortemente condividere la sua santità con il suo popolo. Dio ci vede già santi, vede in noi la pienezza che noi neppure osiamo immaginare, accontentandoci delle nostre mediocrità. Scriveva  Lèon Bloy, un grande letterato francese: non c’è che una tristezza: quella di non essere santi. Attendo Io Spirito Santo che è il Fuoco di Dio. Sono fatto per attendere continuamente e per rodermi nell’attesa. Da oltre mezzo secolo non sono stato capace di fare altro.

Quant’è vero!

Il santo è tutto ciò che di più bello e nobile esiste nella natura umana, in ciascuno di noi esiste la nostalgia alla santità, a ciò che siamo chiamati a diventare: ascoltiamola. I santi non sono persone strane, uomini e donne macerati dalla penitenza, che hanno rinunciato alla vita. Anzi. La vita l’hanno talmente amata da farla fiorire! I santi non sono dei maghetti operatori di prodigi: il più grande miracolo è la loro continua conversione. I santi non sono perfetti e impeccabili, ma hanno avuto il coraggio, che spesso noi non abbiamo, di ricominciare, dopo avere sbagliato. I santi non sono dei solitari: dopo avere conosciuto la gloria e la bellezza di Dio, non hanno che un desiderio, quella di condividerla con noi. Chiediamo ai santi un aiuto per il nostro cammino: Pietro ci doni la sua fede rocciosa, Francesco la sua perfetta letizia, Paolo l’ardore della fede, Teresina la semplicità dell’abbandonarsi a Dio. Così, insieme, noi quaggiù e loro che ora sono colmi, cantiamo la bellezza di Dio in questo giorno che è nostalgia di ciò che potremmo diventare, se solo ci fidassimo! 

Santi subito!

E noi? Se la santità è il modello della piena umanità, perché non porci questo obbiettivo?  Santo è chi lascia che il Signore riempia la sua vita fino a farla diventare dono per gli altri.  Non assumere una faccia seriosa (e respingete) giocando a fare i devoti. Che tristi i cristiani tristi! Che noiosi! 

Festeggiare i santi significa celebrare una Storia alternativa.  La storia che studiamo sui testi scolastici, la storia che dolorosamente giunge nelle nostre case, fatta di violenza e prepotenza, non è la vera Storia. Intessuta e mischiata alla storia dei potenti, esiste una Storia diversa che Dio ha inaugurato: il suo regno.  Le Beatitudini ci ricordano con forza qual è la logica di Dio.  Logica in cui si percepisce chiaramente la diversa mentalità tra Dio e gli uomini: i beati, quelli che vivono fin d’ora la felicità, sono i miti, i pacifici, i puri, quelli che vivono con intensità e dono la propria vita, come i santi.  Questo regno che il Signore ha inaugurato e che ci ha lasciato in eredità, sta a noi, nella quotidianità, renderlo presente e operante nel nostro tempo. 

Aperture 

Contemplare il nostro destino, il grande progetto di bene e di salvezza che Dio ha sull’umanità ci permette di affrontare con speranza la faticosa memoria dei nostri defunti. Chi ha amato e ha perso l’amore sa quanto dolore provochi la morte. Gesù ha una buona notizia sulla morte, su questo misterioso incontro, questo appuntamento certo per ognuno. La morte, sorella morte, è una porta attraverso cui raggiungiamo la dimensione profonda da cui proveniamo, quell’aspetto invisibile in cui crediamo, le cose che restano perché – come diceva il saggio Petit Prince – l’essenziale è invisibile agli occhi. Siamo immortali, amici, dal momento del nostro concepimento siamo immortali e tutta la nostra vita consiste nello scoprire le regole del gioco, il tesoro nascosto, come un feto che cresce per essere poi partorito nella dimensione della pienezza. Siamo immensamente di più di ciò che appariamo, più di ciò che pensiamo di essere. 

Siamo di più: la nostra vita, per quanto realizzata, per quanto soddisfacente non potrà mai riempire il bisogno assoluto di pienezza che portiamo nel nostro intimo. L’eternità è già iniziata, amici, giochiamocela bene, non aspettiamo la morte, non evitiamola, ma pensiamoci con serenità per rivedere la nostra vita, per andare all’essenziale, per dare il vero e il meglio di noi stessi. I nostri amici defunti – che affidiamo alla tenerezza di Dio – ci precedono nell’avventura di Dio.  Dio vuole la salvezza di ognuno, con ostinazione, ma ci lascia liberi, poiché amati, di rispondere a questo amore o di rifiutarlo. Preghiamo oggi, amici, perché davvero il Maestro ci doni fedeltà al suo progetto di amore. La nostra preghiera ci mette in comunione con i nostri defunti, fanno sentire loro il nostro affetto, nell’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova che ci aspettano.

 CERCO IL TUO VOLTO

IL BLASFEMO OMICIDA, I GIUSTI CREDENTI

   


QUELL'UMILE

 SEME DI PAC

Andrea Riccardi

 Le tre uccisioni a Notre Dame de l’Assomption a Nizza sono una follia crudele, un atto di viltà, una blasfemia. Chi si reca in chiesa è un mite che si presenta al Signore e cerca protezione nella casa dedicata alla Vergine. Così erano quelle due donne (di cui una settantenne) e quell’uomo. Era il sacrestano della basilica ottocentesca, costruita sul modello di Notre Dame a Parigi. L’assassino non ha visto in loro esseri umani ma, cieco d’odio, ne ha fatto il simbolo di gente empia, nemici dell’islam, perché cristiani. Ha gridato «Dio è grande», la lode ridotta a slogan dei terroristi islamici, una blasfemia macchiata di sangue anche per i musulmani. La Chiesa aveva fatto qualcosa contro di lui? No, certamente.

Ma i cristiani andavano colpiti come simbolo dell’Europa nemica. Eppure, era venuto da poco in Europa. Tuttavia, la odiava. Odia se stesso e non sa chi essere. Così, con un gesto folle, s’è fatto "combattente" contro gli inermi, sperando di uscire dall’anonimato e di aureolarsi di eroismo e, forse, di martirio. Ma martiri sono le sue vittime. Ieri altri in Francia hanno tentato di fare gli "eroi", provando a uccidere vilmente, ma sono stati bloccati. Sono in guerra contro la Francia e l’Europa, che li hanno accolti. Non è la prima volta che i terroristi colpiscono la Chiesa. Nel 2016 uccisero sull’altare a Rouen l’ottantacinquenne padre Jacques Hamel, sequestrato con qualche fedele. Senza pietà.

Le tre vittime di Nizza sono figlie di un popolo umile che, in silenzio e con tenacia, ripone in Dio la sua fiducia: va in chiesa e prega per sé e per tutti. Non partecipa soltanto alla Messa, ma passa in chiesa un momento cercando nel silenzio la presenza del Dio della pace e dell’amore. Lì è la fonte della fede che accompagna tutto il giorno i miti visitatori della casa del Signore. La preghiera di un pugno di giusti sostiene e salva il mondo – insegna un santo d’Oriente. Non è necessario scomodare gli asceti. I giusti sono i tre uccisi in chiesa che, con la preghiera di chi visita la chiesa, sostengono il mondo.

Durante l’incendio di Notre Dame di Parigi nel 2018, molti hanno avuto un dubbio: il fuoco della cattedrale non simboleggiava forse una Chiesa che si spegne? La Chiesa oggi può essere colpita dai problemi, a tratti stanca. Ma un popolo umile, nelle pieghe del quotidiano, confida nel Signore. I tre caduti a Nizza non sono resti del passato, ma premesse del futuro. Dalla fedeltà alla preghiera dei giusti, non tanto dai progetti, nasce la Chiesa di domani.

Le reazioni della Chiesa francese sono state dolorose e pacate: i toni gridati servono ad attizzare i fanatismi.

La Chiesa umilmente potrà aiutare l’Europa a trovare la strada in un tempo difficile per la pandemia e la complessa convivenza tra diversi. Non da oggi, il Papa e la Chiesa mostrano come non si può chiudere ai rifugiati e bisogna realizzare vie legali, le uniche a dare sicurezza. Invece, troppo spesso, si è chiusa la porta e si è lasciata prosperare l’illegalità, si è addirittura 'investito' politicamente su di essa, mentre tanti morivano nel Mediterraneo. E poi ci sono le periferie anonime senza comunità, laddove scuola e professori sono l’unica presenza educativa (e a che prezzo!). Bisogna investire nel rifare il tessuto umano delle periferie, perché siano capaci d’integrare. Niente giustifica la violenza, ma bisogna lottare contro i cattivi maestri, i fomentatori dell’odio, aprendo alternative per i giovani e i disperati. I cristiani europei, in difficoltà come tutti per la pandemia, toccati da vari problemi, colpiti da atti di violenza, devono ritrovare l’audacia evangelica.

Nizza parla alla Francia, ma anche a vari Paesi europei. Si affaccia sul Mediterraneo, è bagnata dalle contraddizioni di questo mare: le gravi tensioni politiche specie sulla riva Sud, le migrazioni da quelle passate dei pieds noirs d’Algeria a quelle recenti dei nordafricani. Il sangue sparso di tre cristiani, umili e disarmati, è un seme di pace. Ci fa sperare in un risveglio delle coscienze per una società più fraterna, mentre la Francia entra nel lockdown. Ci fa credere che nuovi rapporti siano possibili in questo Mediterraneo tormentato.

 www.avvenire.it

 

 

 

 

QUANDO LA FEDE RENDE LEGGERI

CARLO ACUTIS 

MODELLO DI LEGGEREZZA

Giorgio Gusella

È il 10 ottobre 2020, all’interno della Basilica di San Francesco d’Assisi, il cardinale Agostino Vallini legge la lettera apostolica di Papa Francesco, proclamando solennemente: “[…]Concediamo che il venerabile servo di Dio Carlo Acutis, laico, che con l’entusiasmo della giovinezza coltivò l’amicizia con Gesù, mettendo l’Eucarestia e la testimonianza della carità al centro della propria vita, d’ora in poi sia chiamato beato”. Il coro e l’assemblea intonano “Amen” e il drappo bianco lentamente disvela l’immagine del giovane Carlo, che a soli 15 anni, a causa di una leucemia fulminante, nasceva al cielo il 12 ottobre del 2006.

Tanto è stato detto su Carlo Acutis, sulla sua ordinarietà e allo stesso tempo straordinarietà. Mi piacerebbe però riflettessimo insieme sul significato di questa beatificazione. Perché la Chiesa ha ufficialmente riconosciuto come modello di fede il giovane Carlo?. Uno degli aspetti che credo possa essere d’ispirazione per tanti giovani, e non, che vogliano lasciarsi guidare dall’esempio del beato Carlo è sicuramente la fede vissuta come leggerezza. Per comprendere il significato della leggerezza pensiamo alla danza, che, come ricorda il professore Giuseppe Savagnone, è l’espressione di una serie di movimenti armonici tra di loro, e quindi carichi di senso, frutto di impegno e sacrificio. Un buon ballerino, scrive il professore in “Educare oggi alle virtù”, è tanto più fedele al suo ruolo quanto più è capace di interpretarlo con libertà e leggerezza. I suoi gesti – pur essendo stati appresi con consapevole paziente esercizio, che richiede immensi sacrifici – appaiono del tutto naturali, spontanei, irriducibili ad ogni regola prestabilita.

La leggerezza: autenticità nella testimonianza

La leggerezza del ballerino è la leggerezza di chi ha avvertito il senso più profondo della sua danza, non è la leggerezza del nulla, della superficialità, l’assenza di peso dei movimenti disarmonici. È qui che la vita di Carlo viene a scuotere le coscienze di tanti credenti, ricordando che una vita di fede sarà tanto più autentica quanto più sarà intrecciata con la vita così da diventare una cosa sola, “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) . Così come  i movimenti del buon ballerino appariranno agli altri naturali e spontanei, non meccaniche riproduzioni di un copione, e ne gusteranno un inevitabile senso di leggerezza, così il credente testimonierà realmente il Vangelo quando la sua stessa carne sarà Vangelo. Carlo Acutis ci parla oggi di una fede che è possibile vivere con leggerezza e con gioia.

La relazione al centro della fede

La lettera del Papa si esprime in questi termini: “ […] che con l’entusiasmo della giovinezza coltivò l’amicizia con Gesù, mettendo l’Eucarestia e la testimonianza della carità al centro della propria vita”. Carlo viene a scardinare tanti atteggiamenti, a risvegliare tante “vite di fede” che hanno adombrato il vero cuore della questione: l’amicizia con Gesù. Seppur in una breve esistenza terrena Carlo ha compreso quello che tanti credenti faticano ad accettare, la fede è un incontro! Si potranno scrivere valanghe di libri, si potranno indire valanghe di Concili e documenti ma se noi credenti dimentichiamo o non sperimentiamo l’incontro con Gesù Risorto, sempre vivo, allora il nostro cuore non si potrà mai infiammare come avvenne ai discepoli di Emmaus che ascoltavano Gesù lungo il cammino. Se la vita di fede non esperimenta l’incontro personale con Dio, attraverso i suoi testimoni che incontriamo lungo la nostra vita, allora potremo parlare di tutto ma non di una storia d’amore. Diceva Carlo: “Essere sempre unito a Gesù, ecco il mio programma di vita”.

Al cuore della vita

Il suo stretto rapporto con Gesù Eucarestia ci interroga non solo sull’immensa ricchezza che il Signore ci ha donato e che ci dona ogni giorno tramite la Chiesa, ma anche su un modo nuovo di guardare la vita. Carlo, come tutti i santi, non era alienato dal mondo e dalle sue dinamiche. Basti conoscere la sua storia per rendersi conto di quanti interessi e passioni orbitassero attorno a lui, ma allo stesso tempo, l’Eucarestia, che Carlo definiva “la mia autostrada per il cielo”, era in grado di far sì che quello sguardo si posasse sulle cose del mondo, e non le sorvolasse distrattamente. L’adorazione eucaristica educa lo sguardo a diventare “contemplativo”, a scendere più in profondità, a scavare la superficie del reale. Mons. Bruno Forte, che al mistero trinitario dedica lo splendido libro “Trinità come storia”, sottolinea: “[…] all’esigenza teologica di conoscere Colui che per primo ci ha amati, si congiunge la domanda antropologica di conoscere in Lui e nel Suo amore l’uomo, il senso della vita e della storia. Questa seconda conoscenza si rivela pienamente possibile soltanto a condizione della prima: le profondità dell’uomo, grazie alla rivelazione del mistero, appaiono radicate nelle profondità di Dio! […] [Nel tabernacolo] ci si approssima, in umiltà e povertà adorante, alla soglia del mistero, non per catturare Dio, quanto piuttosto per lasciarsi fare prigionieri da Lui, non per mortificare la nostra umanità, quanto piuttosto per vivere fino in fondo il rischio di volersi veramente umani”. Ed è questo il rischio su cui siamo chiamati a riflettere. Un rischio che Carlo non ebbe paura di correre perché intuì che nel rapporto con Gesù si giocava sì la sua salvezza e quella degli altri, ma allo stesso tempo tutta la sua umanità: “Tutti nascono come originali – diceva – ma molti muoiono come fotocopie”. Il parroco della chiesa che Carlo era solito frequentare ricorda queste sue parole: “ [l’adorazione eucaristica] mi aiuta ad essere più leggero, Mi fermo qui per imparare a stare con gli altri”. Non due mondi distanti, due universi separati, ma un’ amicizia intima, “resta con noi perché si fa sera, e il giorno già volge al declino” (Lc 24, 29).

Profondità e leggerezza

In fondo, una vita vissuta alla luce del Vangelo, è una vita trasfigurata, una vita vista con occhi diversi. “La conversione – diceva Carlo – non è altro che lo spostare lo sguardo dal basso verso l’Alto, basta un semplice movimento degli occhi”. Quando la leggerezza diventa connaturata in noi ecco che tutto si fa più semplice e vero, più credibile. La leggerezza ha accompagnato la vita di Carlo sino al momento della sua scomparsa avvenuta in soli tre giorni, dopo avere offerto le sue sofferenze al Signore e alla Chiesa. Il beato Carlo Acutis non ci ha lasciato una formula magica per una vita felice, ma una testimonianza vera a cui possiamo guardare con speranza, ricordandoci che la santità non appartiene a pochi eletti, ma a tutti! Vivere la profondità della vita e del mondo con gli occhi di Cristo rende leggeri e non ci appesantisce, “Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,25-30). Il cristiano vive con leggerezza non perché si sia lasciato alle spalle i problemi del mondo e dell’uomo e cammini in un cielo di nuvole bianche, ma perché al contrario ha sperimentato in Cristo il senso della vita e della storia, consapevole che la morte non avrà mai l’ultima parola, “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1Cor 15, 55).  La ricetta per una vita santa? Diceva Carlo “Non io ma Dio!”

www.tuttavia.eu

venerdì 30 ottobre 2020

EDUCAZIONE, ECOLOGIA INTEGRALE E BENE COMUNE

Turkson: ecologia integrale 

vuol dire pensare 

al bene comune

Il Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale ha ricordato l’importanza dell’educazione, in particolare in questo tempo scosso dalla pandemia, intervenendo ad una conferenza promossa dalla Fondazione Centesimus Annus - Pro Pontifice

 Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

 Se si vuole cambiare il mondo, si deve cambiare l’istruzione e i modelli legati all'educazione. È questa una delle sottolineature che hanno scandito il secondo ed ultimo appuntamento della conferenza internazionale “The milestones of the Integral ecology for a human Economy”, promossa dalla Fondazione Centesimus Annus - Pro Pontifice. A causa dell’emergenza Covid-19, anche questa sessione si è svolta attraverso una piattaforma digitale.  I lavori sono stati aperti da Anna Maria Tarantola, presidente della Fondazione, che ha citato l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco: “l’umanità ha bisogno di cambiare”. “Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione”. Dopo l’intervento di Giovanni Marseguerra, coordinatore del comitato scientifico della stessa Fondazione, la relazione d’apertura è stata affidata al cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale.

Turkson: l’educazione è un manuale di istruzioni

Soffermandosi sul tema dell’incontro odierno, “Education and Training”, il cardinale Turkson ha ricordato un avvenimento reale che ha avuto come sfondo la sua terra natia in Ghana. In un villaggio ghanese, ha affermato il cardinale Turkson, un professore aveva ricevuto un computer ed una stampante che erano accompagnati da manuali di istruzione. Il docente aveva spiegato agli studenti che ogni nuovo dispositivo prevede sempre un libretto esplicativo per facilitarne l’utilizzo. I ragazzi hanno poi chiesto al professore: se tutte le cose nuove richiedono un manuale, perché quando nasce un bambino non c’è un libretto con le istruzioni? “Per questo motivo - ha risposto il professore rivolgendosi ai propri studenti - voi siete qui a scuola”. Il compito dell’educazione, ha sottolineato il cardinale Turkson, è quello di “fornire un manuale di istruzioni”. L’educazione all’ecologia integrale - ha sottolineato infine il cardinale Turkson - è un obiettivo fondamentale. L’educazione all’ecologia integrale si basa sulla necessità di pensare al bene comune nelle tre componenti essenziali. Sono quelle della vita, della terra e di una triplice relazione: quella con l’altro, con se stessi e con Dio.

Alfabetizzazione finanziaria

Alle parole del cardinale Turkson si sono aggiunte quelle di monsignor Guy-Réal Thivierge, segretario generale Fondazione Gravissimum Educationis. Educare, ha sottolineato, significa imparare dagli altri. Annamaria Lusardi, professore di economia e contabilità , ha poi ricordato che l’alfabetizzazione finanziaria è cruciale, soprattutto in questo momento di pandemia, per fare in modo che la società possa essere più resiliente da un punto di vista finanziario. Senza una adeguata alfabetizzazione finanziaria in tutti i livelli di istruzione - ha spiegato Annamaria Lusardi  - crescono le disuguaglianze. In particolare aumentano le disuguaglianze tra chi è in grado di cogliere le opportunità del mercato e coloro, invece, che non possono sfruttare tali possibilità. 

Alfabetizzazione digitale

Alessandro Vespignani, fisico ed esperto di epidemiologia computazionale, docente all’università di Boston, si è soffermato sul concetto di “alfabetizzazione digitale”: capire cosa è un algoritmo, ha affermato, è cruciale per avere una visione del mondo. Viviamo in una società che sta diventando algoritmica, con “pezzi di codice scritti da altri esseri umani”. E se non acquisiamo competenze che ci permettano di capire il tutto, non potremo capire il mondo. Non si tratta di essere programmatori o scienziati, ma bisogna essere in grado di capire e di comunicare. I modelli, le previsioni “non sono oracoli indiscutibili”. Si deve alfabetizzare la popolazione in modo completo, ha detto infine Vespignani, anche nella dimensione digitale. Mariya Gabriel, Commissaria europea all'Innovazione, ha poi ricordato che il digitale è un’opportunità ma anche un rischio se, ad esempio, non permette alle persone che vivono nelle zone rurali di avere le stesse possibilità di sviluppo. L’uomo deve essere il cuore di tutte le forme di educazione. La società europea, ha affermato Mariya Gabriel, si sforza per costruire una società più inclusiva e per dare risposte più adeguate alle sfide attuali.

Galantino: è urgente investire nell' educazione 

Al dibattito moderato da fra Martijn Cremers, professore di Finanza presso il Mendoza College of Business dell’università di Notre Dame, ha partecipato anche monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica  (Apsa). Si è soffermato in particolare su due parole evocate durante l’incontro odierno: economia ed educazione. “Invocare lo sviluppo umano integrale di cui parla Papa Francesco e spendersi per promuoverlo - ha affermato Galantino - è molto di più di un auspicio. È un progetto trasformativo delle nostre società che si oppone al modello della crescita lineare”. È un progetto sul quale “dobbiamo tutti investire di più”. “Un progetto che coinvolge la politica e l’economia”. Monsignor Galantino ha sottolineato infine che si deve smettere “di attribuire una funzione educativa al Coronavirus”: “non sembra che da questo dramma siano scaturiti particolari insegnamenti”. “Il virus - ha affermato - non ci rende migliori”. “Il Coronavirus ha apportato ulteriori guasti nei sistemi educativi o comunque ha accentuato quelli esistenti”. “Ciò rende, allora, davvero urgente investire in educazione”.

 

Leggi: Parolin: educare alla "cura" per orientare economia e politica

Vatican News

 

 

COVID, UN MALE COMUNE PER RISCOPRIRE IL BENE COMUNE

Papa Francesco ne è certo e lo ripete a tutti: dalla pandemia si esce migliori o peggiori. La crisi globale chiede un ripensamento dei parametri della convivenza umana in chiave solidale. 

Su questa idea si basa il Progetto “Covid 19 Costruire un futuro migliore”, Creato in collaborazione dal Dicastero per la Comunicazione e dello Sviluppo Umano Integrale: offrire un percorso che dalla fine della pandemia porti all’inizio di una nuova fraternità.

 VATICAN NEWS

 Sanità, scuola, sicurezza sono l’architrave di qualsiasi nazione e per questo non possono sottostare al gioco dei profitti. L’economista Luigino Bruni, uno degli esperti chiamati da Papa Francesco a far parte della Commissione vaticana Covid-19, è convinto che la lezione della pandemia aiuterà a riscoprire la verità profonda connessa all’espressione “bene comune”. Perché, sostiene, tutto è fondamentalmente bene comune: lo è la politica nel suo senso più alto, lo è l’economia che guarda all’uomo prima che al tornaconto. E in questo nuovo paradigma globale che può nascere dal post-Covid la Chiesa, afferma, deve farsi “garante” di questo patrimonio collettivo, in quanto estranea alle logiche del mercato. La speranza, per Bruni, è che questa esperienza condizionata da un virus senza confini non faccia dimenticare “l’importanza della cooperazione umana e della solidarietà globale”.

Lei fa parte della Commissione vaticana COVID 19, il meccanismo di risposta istituito da Papa Francesco per far fronte a una pandemia senza precedenti. Personalmente, cosa spera di imparare da questa esperienza? In che modo la società, nel suo complesso, potrà trarre ispirazione dal lavoro della Commissione?

R. – La cosa più importante che ho imparato da questa esperienza è l’importanza del principio di precauzione e dei beni comuni. Il principio di precauzione, pilastro della Dottrina della Chiesa, il grande assente nella fase iniziale dell’epidemia, ci dice qualcosa di estremamente importante: il principio di precauzione è vissuto in modo ossessivo a livello individuale (basti pensare alle assicurazioni che stanno occupando al mondo) ma è totalmente assente a livello collettivo, il che rende le società del 21° secolo estremamente vulnerabili. Ecco perché quei Paesi che avevano salvato un po’ di welfare state si sono dimostrati molto più forti di quelli gestiti interamente dal mercato. E poi i beni comuni: come un male comune ci ha rivelato cosa sia il bene comune, la pandemia ci ha fatto vedere che con i beni comuni c’è bisogno di comunità e non solo del mercato. La sanità, la sicurezza, la scuola non possono essere lasciate al gioco dei profitti.

Papa Francesco ha chiesto alla Commissione COVID 19 di preparare il futuro invece che di prepararsi per il futuro. In questa impresa, quale dovrebbe essere il ruolo della Chiesa cattolica come istituzione?

R. – La Chiesa Cattolica è una delle pochissime (se non l’unica) istituzione garante e custode del bene comune globale. Non avendo interessi privati, può perseguire l’interesse di tutti. Per questo oggi è molto ascoltata, per questa stessa ragione ha una responsabilità da esercitare su scala mondiale.

Quali insegnamenti personali (se ce ne sono) ha tratto dall’esperienza di questa pandemia? Quali cambiamenti concreti spera di vedere dopo questa crisi, sia da un punto di vista personale che globale?

R. – Il primo insegnamento è il valore dei beni relazionali: non potendo abbracciarci in questi mesi, ho riscoperto il valore di un abbraccio e di un incontro. Il secondo: possiamo e dobbiamo fare molte riunioni online e molto smart working, ma per decisioni importanti e per gli incontri decisivi la rete non basta, c’è bisogno del corpo. Quindi il boom del virtuale ci sta facendo scoprire l’importanza degli incontri in carne e ossa e dell’intelligenza dei corpi. Mi auguro che non dimenticheremo le lezioni di questi mesi (perché l’uomo dimentica molto velocemente), in particolare l’importanza della politica come la abbiamo riscoperta in questi mesi (come l’arte del bene comune contro i mali comuni), e che non ci dimenticheremo l’importanza della cooperazione umana e della solidarietà globale.

Preparare il mondo post-covid significa anche preparare le generazioni future, quelle che un domani saranno chiamate a decidere, a tracciare nuove vie. L’educazione, in questo senso, non è solo una “spesa” da contenere, anche in tempo di crisi?

R. – L’educazione, soprattutto quella dei bambini e dei giovani, è molto più di una “spesa” ... È l’investimento collettivo con il più alto tasso di rendimento sociale. Mi auguro che quando, nei Paesi dove la scuola è ancora chiusa, questa verrà riaperta, si indica un giorno di festa nazionale. La democrazia comincia nei banchi di scuola e lì rinasce in ogni generazione. Il primo patrimonio (patres munus) che ci passiamo fra generazioni è quello educativo.

Decine di milioni di ragazzi e ragazze nel mondo non hanno accesso all’educazione. Si può ignorare l’articolo 26 della Dichiarazione dei diritti umani che afferma il diritto all’educazione per tutti, gratuita e obbligatoria, almeno per l’insegnamento elementare?

R. – Chiaramente non si dovrebbe ignorare, ma non possiamo chiedere che il costo della scuola venga sostenuto interamente da Paesi che non hanno sufficienti risorse. Dovremmo dar vita presto ad una nuova cooperazione internazionale sotto lo slogan: “la scuola per bambini e adolescenti è bene comune globale”, dove Paesi con più risorse aiutino quelli con meno a rendere effettivo il diritto allo studio gratuito. Questa pandemia ci sta mostrando che il mondo è una grande comunità, dobbiamo trasformare questo male comune in nuovi beni comuni globali. 

Anche nei paesi ricchi, le parti di bilancio dedicate all’educazione hanno subito tagli, a volta ingenti. Ci può essere un interesse a non investire sulle generazioni future?

R. – Se la logica economica prende il sopravvento aumenteranno i ragionamenti del tipo: “perché debbo fare qualcosa per le future generazioni, che cosa hanno fatto loro per me?”. Se il “do ut des”, il registro commerciale, diventa la nuova logica delle nazioni, investiremo sempre meno per la scuola, faremo sempre più debiti che pagheranno i bambini di oggi. Dobbiamo tornare generosi, coltivare virtù non economiche come la compassione, la mitezza, la magnanimità.

La Chiesa cattolica è in prima linea per offrire un’educazione ai più poveri. Anche in condizioni di grande difficoltà economica, perché come vediamo in questo periodo di pandemia, i lockdown hanno avuto un impatto considerevole sulle scuole cattoliche. Ma la chiesa c’è e accoglie tutti, senza distinzione di fede, facendosi spazio di incontro e di dialogo. Quant’è importante quest’ultimo aspetto?

R. – La Chiesa è sempre stata una istituzione del bene comune. La parabola di Luca non ci dice che fede avesse l’uomo mezzo morto soccorso dal Samaritano. È proprio durante le grandi crisi che la Chiesa recupera la sua vocazione di “Mater et magistra”, che cresce la stima dei non cristiani nei suoi confronti, che ritorna quel mare che accoglie tutto per ridonare tutto a tutti, soprattutto ai più poveri, perché la Chiesa ha sempre saputo che l’indicatore di ogni bene comune è la condizione dei più poveri.

L’insegnamento della religione, delle religioni, in un mondo sempre più tentato da divisioni, e che favorisce l’intrattenimento della paura e della tensione; quali risultati può portare?

R. – Dipende come la si insegna. La dimensione etica che pur c’è in ogni religione non è sufficiente. Il grande insegnamento che le religioni oggi posso dare riguarda la vita interiore e la spiritualità perché la nostra generazione nel giro di pochi decenni ha dilapidato un patrimonio millenario fatto di saggezza antica e di pietà popolare. Le religioni devono aiutare i giovani e tutti a riscrivere una nuova grammatica della vita interiore, e se non lo fanno la depressione diventerà la peste del 21° secolo.

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CORONA VIRUS. NESSUNO SCAGLI LA PRIMA PIETRA

DI CHI E' LA COLPA?

-          Giuseppe Savagnone *

 A differenza di quello che era accaduto prima dell’estate – quando era sembrato che il Paese si stringesse intorno al governo, perdonandogli le non poche incertezze e contraddizioni con cui aveva affrontato la pandemia –, il clima che si respira in questi giorni in Italia appare fortemente deteriorato. Le proteste di piazza sono solo la punta dell’iceberg. Il malcontento, la sfiducia, la rabbia si sono diffusi con la stessa rapidità del virus. Anche qui, naturalmente, ci sono livelli diversi di contagio: dietro quelli che gridano, ce ne sono molti altri – gli asintomatici – che la preoccupazione e la disillusione se la portano dentro.

Di nuovo colti di sorpresa!

Ad essere sul banco degli imputati, in questo processo virtuale, è naturalmente il governo, e, prima di tutti, il presidente del Consiglio. Gli si rimprovera di non avere saputo prendere le misure necessarie – né sul piano sanitario, né su quello economico – per fronteggiare la prevedibile (e ampiamente prevista) “seconda ondata”. Oggi ci ritroviamo con l’acqua alla gola, come e peggio che a marzo, costretti di nuovo a contare con ansia i posti ancora liberi negli ospedali, soprattutto nei reparti di terapia intensiva, e a prendere atto della carenza di personale medico e infermieristico. Si ha la netta sensazione che sia mancato un progetto organico e che siamo stati di nuovo “colti di sorpresa”, come a marzo. Con la differenza che allora la sorpresa era legittima, adesso no.

La mancata elaborazione di un piano complessivo

Anche sul piano economico, non sembra che il governo abbia elaborato un piano complessivo per fronteggiare la crisi che inevitabilmente – lo si sapeva – avrebbe colpito il Paese, soprattutto la piccola imprenditoria e alcuni settori. E anche quando ha cercato di predisporre misure per proseguire alcune attività, queste non sono state abbastanza tempestive e risolutive da evitare che il ritorno in forze del virus costringesse, dopo tante spese, a una parziale chiusura o – come è stato nel caso delle lezioni nella scuola superiore – a un sostanziale ridimensionamento.

Il carente apporto dell’opposizione

Abbiamo dunque un colpevole da lapidare? A farne dubitare è la prova offerta, a sua volta, dall’opposizione. I leader dei partiti di destra hanno ragione di criticare lo stile verticistico del premier. Ma, quando si va a vedere nel merito quali sono state, in questi mesi, le loro proposte, si constata che esse hanno oscillato da un estremo all’altro, come se fossero ispirate più alla necessità di far sentire la propria voce critica nei confronti del governo, che non a una coerente progettualità. Ed anche per quelle poche rivendicazioni su cui l’opposizione è stata schierata univocamente, è difficile rimpiangere che non siano state prese in considerazione. Basti pensare alla richiesta ossessivamente ripetuta di nuove elezioni, del tutto irrealistica, nel contesto attuale di emergenza, o a quella di chiudere i porti, accusando i migranti di essere la causa dell’aumento dei contagi. Accusa smentita dai dati oggettivi, secondo cui solo il 3-5% degli immigrati erano positivi e molti a causa delle disumane condizioni dei nostri centri di accoglienza.

Le responsabilità delle regioni

Insomma, se il governo ha fatto degli errori, neanche i partiti di opposizione è innocente. Tanto più che ad essi appartengono i governatori di ben quindici regioni su venti, tra cui la Lombardia, che è stata e rimane l’epicentro della pandemia. E, per quanto riguarda i servizi relativi alla tutela della salute dei cittadini, dal punto di vista giuridico, la competenza delle regioni e quella dello Stato si intrecciano strettamente, rendendo difficile stabilire le rispettive responsabilità di ciò che sta accadendo.

Ma la colpa non è solo della politica

La colpa di tutto, allora, è della classe politica nel suo insieme? Ancora una volta, si tratta di una risposta troppo semplice e troppo comoda, anche se molti se ne accontentano e la traducono in slogan qualunquisti. La verità è che anche gli italiani nel loro complesso hanno sottovalutato la minaccia. Pur con l’attenuante del comprensibile bisogno di libertà e di svago, dopo la cupa stagione del lockdown, i nostri giovani si sono scatenati nelle discoteche e nella movida, ed anche gli adulti hanno preso spesso alla leggera le raccomandazioni degli esperti che invitavano alla prudenza, affollandosi nelle code delle vacanze e sulla spiagge – ovviamente senza mascherina –, o festeggiando senza alcuna cautela, in locali privati e pubblici, matrimoni, lauree, battesimi, successi professionali.

Perché il governo non è intervenuto?

Certo, il governo avrebbe potuto bloccare tutto questo con rigorosi divieti. Ma dobbiamo dargli atto che a impedirlo erano due ordini di difficoltà. Le prime, quelle derivanti delle esigenze oggettive di categorie legate al turismo e alla ristorazione, che avevano particolarmente sofferto per le chiusure dei mesi precedenti. L’altro ordine di difficoltà è stato costituito dalle prese di posizione di quegli scienziati che, contrapponendosi alla maggioranza dei loro colleghi, hanno dato man forte al partito di coloro (ancora una volta l’opposizione in questo ha avuto il suo peso) che accusavano il governo di sfruttare il virus per limitare le libertà personali. Ricordiamo tutti i nomi di questi medici che irresponsabilmente – oggi posiamo dirlo senza esitazioni – hanno cavalcato la voglia diffusa di spensieratezza, invitando le persone a non preoccuparsi più del virus e a vivere la propria vita “normalmente”.

Davvero essere positivi non significa nulla?

«Essere positivi non significa essere malati», è stato lo slogan di questi illustri studiosi, applauditi dalla folla dei negazionisti o semi-negazionisti. Ed è vero. Ma hanno dimenticato di aggiungere quello che essere positivi significa: poter infettare altri, che invece il virus fa ammalare e può uccidere o menomare gravemente (sempre più i medici segnalano dei seri danni anche nell’organismo di coloro che risultano guariti). Che l’aumento vertiginoso dei positivi “non significhi nulla” lo smentisce clamorosamente il rapporto con la crescita dei casi di malattia vera e propria. Oggi in Italia ci sono più 16.000 pazienti che hanno avuto bisogno di essere ricoverate in ospedale e di esse 1.500 sono in terapia intensiva. E si tratta di numeri purtroppo in costante, rapidissima crescita. Per non parlare dei decessi, che in sole ventiquattr’ore ormai raggiungono e superano la soglia dei 200. Chi ha convinto gli italiani a sfidare le regole della prudenza, suggerite e ribadite dalla maggioranza del corpo scientifico, forse dovrebbe riflettere sulle responsabilità dei cattivi maestri.

Gli scenari mondiali ed europei relativizzano i nostri errori

Nessuno, in questo contesto, ha il diritto di tirare la prima pietra. Tanto più che, per quanto grandi siano stati gli errori commessi da tutti nel nostro Paese, la situazione degli altri – a livello mondiale, come a quello europeo – ci avverte che le difficoltà oggettive create dal virus sono immani. Questo vale anche per il governo. Avremmo voluto Macron, o Johnson, o Sánchez oppure Trump, al posto di Conte? I loro Paesi stanno peggio del nostro. Perfino la Germania, le cui strutture sono da sempre ben più solide ed efficienti di quelle italiane, si trova oggi a decretare misure ancora più drastiche di quelle che suscitano le proteste degli italiani.

Lasciamo cadere le pietre e tendiamoci a vicenda le mani

Forse sarebbe il caso, allora, di cambiare tutti atteggiamento e di passare, dalla caccia ai colpevoli, al riconoscimento degli sforzi che ognuno, comunque, con i suoi limiti, ha fatto e sta facendo e alla decisione di collaborare al bene comune del Paese in questo concreto momento storico. L’urgenza vera non è un governo di unità nazionale – che sarebbe, nel clima attuale, solo l’occasione per una diversa suddivisione delle famose “poltrone” –, ma l’unità nazionale, di cui questo governo se mai potrebbe essere, successivamente, l’espressione. A questo ognuno può fin da ora contribuire, tendendo la propria mano, dopo aver lasciato cadere la pietra che stringeva.

 *Pastorale Cultura – Diocesi Palermo

 www.tuttavie.eu

 

giovedì 29 ottobre 2020

EDUCAZIONE CIVICA. IL PORTALE DEL MINISTERO


 Educazione Civica, quante ore, chi la insegna, chi valuta. 

Online FAQ e portale Ministero Istruzione

Un portale con informazioni e materiali utili sul nuovo insegnamento dell’Educazione civica obbligatorio, da quest’anno, fin dalla scuola dell’infanzia. Lo mette a disposizione da oggi il Ministero dell’Istruzione all’indirizzo www.istruzione.it/educazione_civica. Costituzione, Diritto (nazionale e internazionale), legalità e solidarietà. Sviluppo sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio.

Cittadinanza digitale. Sono questi i tre assi su cui si basa il nuovo insegnamento e attorno a cui ruotano i contenuti della pagina dedicata dove, oltre alle Linee Guida sull’Educazione civica emanate a giugno, sono presenti, e verranno costantemente integrati, ulteriori materiali di approfondimento relativi alle esperienze che le singole scuole stanno realizzando.

Inoltre, la sezione è arricchita con un'area dedicata agli strumenti per la formazione e con risposte alle domande frequenti sul tema. Sulla pagina sono poi disponibili link utili, su temi strettamente connessi alla formazione delle cittadine e dei cittadini di domani: la lotta a bullismo e al cyberbullismo, l’educazione finanziaria, storia e cittadinanza europea.

​​​​​​​“Come Ministero - commenta la Ministra Lucia Azzolina - stiamo cercando di dare al personale, agli studenti e anche alle famiglie strumenti utili per approfondire i singoli argomenti di interesse. Con questa pagina sull’Educazione civica raccoglieremo in un’unica sezione i materiali utili, ma anche le buone pratiche per dare visibilità al grande lavoro che si fa ogni giorno nei nostri istituti scolastici, su temi fondamentali per crescere come cittadini attivi, consapevoli, capaci di analizzare con spirito critico la realtà e viverla responsabilmente”.

 Link: https://www.istruzione.it/educazione_civica/

 

martedì 27 ottobre 2020

EUROPA, RITROVA TE STESSA!

   ll Papa: sogno un’“Europa comunità”, solidale, amica delle persone

 In una lettera al cardinale Parolin per i 50 anni di collaborazione tra Santa Sede e istituzioni europee, Francesco ripercorre la storia e i valori del continente, auspicando una svolta di fraternità in un periodo di grandi incertezze e rischi di derive individualistiche. Non serve guardare “all’album dei ricordi” ma al futuro che si può “offrire al mondo”

                                                                  Alessandro De Carolis – Città del Vaticano

 Quattro sogni – perché secoli di civiltà non hanno esaurito la loro spinta propulsiva – sorretti da un’unica sostanziale convinzione: non può esserci autentica Europa senza i pilastri sui quali venne progettata fin dalla prima intuizione e cioè uno spazio di popoli uniti dalla solidarietà, dopo essere stati uno scacchiere tragico di guerra e muri. Quella che Francesco indirizza al cardinale Pietro Parolin è una sorta di lettera aperta al Vecchio continente, nella quale la sua visione – ideale e insieme ancorata al realismo dell’era del virus - si innesta sui sogni di due predecessori diversamente illustri, Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Europa, e San Giovanni Paolo II, che ne difese strenuamente le radici cristiane.

Il bivio: divisioni o fraternità

L’occasione che ispira a Francesco la sua lunga lettera è un intreccio di anniversari e di relativi appuntamenti celebrativi che vedranno impegnato il segretario di Stato, dai 50 anni di collaborazione tra Santa Sede e istituzioni europee, ai 40 dalla nascita della COMECE, la Commissione degli Episcopati delle Comunità Europee. Due ricorrenze inserite nella più ampia cornice dei 70 anni dalla Dichiarazione Schuman, con la quale l’Europa voltava le spalle alle divisioni della guerra. E sono proprio le divisioni oggi possibili, in un frangente storico che chiede invece compattezza, a spingere il Papa a ripetere un concetto molto sentito. “La pandemia – scrive – costituisce come uno spartiacque che costringe ad operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella “strada della fraternità”.

“Europa ritrova te stessa”

Proprio la crisi del Covid, osserva Francesco, “ha posto in evidenza tutto questo: la tentazione di fare da sé, cercando soluzioni unilaterali ad un problema che travalica i confini degli Stati”, mentre sin dalle origini l’Europa postbellica “nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che – come affermato nell’Evangelii gaudium – ‘l’unità è superiore al conflitto’ e che la solidarietà può essere ‘uno stile di costruzione della storia’”. Nel cuore di Francesco risuona l’eco di quanto Giovanni Paolo II esclamò il 9 novembre 1982 da Santiago de Compostela, alla fine del suo pellegrinaggio in Spagna.

Radici profonde

Quel celebre “Europa ritrova te stessa, sii te stessa” viene reinterpretato da Francesco con analoga energia e allora, scrive, all’Europa “vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi”, giacché “nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più”. Ritrovare se stessa equivale, asserisce, a ritrovare gli “ideali che hanno radici profonde”. Vuol dire, per il Papa, “non avere paura” della propria “storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato”. E dunque non temere il “bisogno di verità” stimolato dagli interrogativi del pensiero greco antico, il “bisogno di giustizia” sviluppato dal diritto romano, il “bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana”.

Europa, una famiglia

Da questi valori Francesco fa scaturire le sue quattro visioni. “Sogno allora – sottolinea per prima – un’Europa amica della persona e delle persone. Una terra in cui la dignità di ognuno sia rispettata, in cui la persona sia un valore in sé e non l’oggetto di un calcolo economico o un bene di commercio”. Un’Europa con questa sensibilità è quindi, per il Papa, una terra che “tutela la vita”, il lavoro, l’istruzione, la cultura, che sa proteggere “chi è più fragile e debole, specialmente gli anziani, i malati che necessitano cure costose e i disabili”. E per naturale conseguenza in certo modo questa prima visione porta alla seconda, che fa dire a Francesco: “Sogno un’Europa che sia una famiglia e una comunità”, in altre parole una “famiglia di popoli” capace di “vivere in unità, facendo tesoro delle differenze, a partire da quella fondamentale tra uomo e donna”. E qui Francesco sintetizza il sogno parlando di “Europa comunità”, solidale e fraterna, l’opposto di una terra scomposta in “realtà solitarie ed indipendenti”, che facilmente si troverà “incapace di affrontare le sfide del futuro”.

Europa che apre sguardo e porte

Il terzo sogno del Papa è quello di “un’Europa solidale e generosa”, un “luogo accogliente ed ospitale, in cui la carità – che è somma virtù cristiana – vinca ogni forma di indifferenza ed egoismo”. E dal momento che, nota, “essere solidali implica farsi prossimi”, questo “per l’Europa significa particolarmente rendersi disponibile, vicina e volenterosa nel sostenere, attraverso la cooperazione internazionale, gli altri continenti, penso – dice il Papa – specialmente all’Africa”, aiutata a ricomporre i tanti conflitti che la dilaniano. E sollecita anche verso i migranti, non solo assistiti nei bisogni immediati ma accompagnati lungo la strada dell’integrazione. Insomma, insiste Francesco, “un’Europa che sia ‘comunità solidale’”, la sola in grado di “fare fronte a questa sfida in modo proficuo, mentre – evidenzia – ogni soluzione parziale ha già dimostrato la propria inadeguatezza”.

Oltre confessionalismi e laicismo

E poi il quarto sogno, che il Papa esprime così: “Un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”. Il che per Francesco vuol dire una terra “aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società”. Un’Europa per la quale, il Papa riconosce che “sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma si spera – è il suo augurio – anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana”.

Un futuro da scrivere

Le ultime considerazioni sono per la “grande responsabilità” dei cristiani nell’animare il cambiamento in tutti gli ambiti “in cui vivono e operano” e per l’affidamento della “cara Europa” ai suoi santi patroni, Benedetto, Cirillo e Metodio, Brigida, Caterina, Teresa Benedetta della Croce. Nella “certezza – che Francesco coltiva – che l’Europa abbia ancora molto da donare al mondo”.

Vatican News

 Leggi: EUROPA,RITROVA TE STESSA!



 


lunedì 26 ottobre 2020

LE DONNE ARTEFICI DI SVILUPPO E ARMONIA

 Le donne promotrici di un futuro economico sostenibile

 -         Stefania Celsi *

 La pandemia da COVID-19 ha provocato una crisi economica e sistemica senza precedenti, per ampiezza, per caratteristiche e per profondità. La crisi ha messo in evidenza le fragilità del nostro sistema aggravando le disuguaglianze economiche e di genere.

In questo contesto come rendere il lavoro delle donne vero fattore di sviluppo sociale? Quali le principiali azioni che devono essere intraprese a breve e a lungo termine? Sono queste le domande di fondo dell’evento “Seminare per costruire. Le donne promotrici di un futuro economico sostenibile” organizzato dall’Istituto di Studi Superiori sulla Donna (ISSD) dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA), nell’ambito della Categoria Dintorni del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2020 promosso dall’ASviS, che si è svolto  in live streaming.

L’iniziativa, che si inserisce anche tra gli appuntamenti previsti dalla terza edizione dei “Value@Work Open Talks” dal titolo “Pensieri per la ripartenza”, ha cercato di rispondere a tali interrogativi per comprendere meglio lo specifico contributo delle donne nella costruzione, in alleanza con l’uomo, di un futuro diverso e più sostenibile.

 Ad affrontare la questione è stata Stefania Celsi, business advisor di strategie aziendali e di sviluppo della leadership, nonché consigliere direttivo ISSD (APRA) e membro del comitato direttivo Value@Work. Nel suo intervento, ha illustrato l’impatto sanitario, sociale, culturale/valoriale ed economico della pandemia sulle disuguaglianze di genere. Ha parlato delle caratteristiche di leadership necessarie in tempi di pandemia e di come hanno reagito le donne leader durante l’emergenza COVID-19 per poi soffermarsi su quali azioni sono necessarie da mettere in campo per affrontare le sfide della crisi pandemica.

“La rinascita del nostro Paese non può prescindere dal miglioramento della condizione femminile lavorativa, sociale ed economica. I punti di PIL che perdiamo ogni giorno per il divario di genere sono allarmanti. Nessuna remora nel chiedere che la Rinascita al femminile sia voce importante del piano di ripresa del nostro Paese. La fase economica che sta per aprirsi può essere davvero una opportunità per riallineare ai blocchi di partenza uomini e donne, competenze, meriti, valori, sanando disuguaglianze croniche nel nostro paese (genere, provenienza, età)” ha dichiarato Stefania Celsi durante la conferenza.

La crisi ci costringe dunque a cambiare sguardo e a ripensare in modo nuovo, sostenibile e plurale la realtà. L’economia sta sollevando tante criticità e molte domande, ma ci offre anche tante nuove opportunità, per le quali oggi più che mai si rende necessario lo sguardo delle donne.  È fondamentale dare spazio alla loro visione e alle loro competenze, indispensabili per ripartire con un cambio di rotta, dove solo la diversità dello sguardo garantirà scelte più universali per un lavoro, un’economia ed un ambiente più sostenibili.

Le donne, ha concluso Stefania Celsi, “sono risorse consapevoli, parte integrante della nostra società, artefici della crescita e dello sviluppo in armonia e alleanza con sé stesse e con l’altra metà del cielo”.

 

*Business Advisor Strategie per lo Sviluppo della Leadership

 

Link: https://www.upra.org/istituto-di-studi-superiori-sulla-donna/le-donne-promotrici-di-un-futuro-economico-sostenibile/?mc_cid=920a41a7af&mc_eid=86ba6b1a74