Al termine di un anno
speciale per la Costituzione italiana, quello del suo 70° genetliaco, si vuole
riflettere sul fondamento della nostra Repubblica, in modo da verificare se e
quanto esso – a distanza di tempo – sia ancora solido e saldo o invece
scricchioli.
di Alberto Randazzo*
Secondo il noto
incipit della nostra Carta, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro” (art. 1, I comma); in questo modo, i Padri costituenti vollero
imprimere il senso dell’intera Costituzione e in un certo senso tracciare il
cammino, per il futuro, della società italiana.
Si mette in chiaro che
l’Italia è una Repubblica (esito del referendum del 2 giugno del 1946, dal
quale – si badi – non si può tornare indietro: a norma dell’art. 139 Cost., la
forma repubblicana non è soggetta a revisione costituzionale), democratica
(tangibile reazione al regime totalitarista che aveva afflitto gli italiani) e,
appunto, fondata sul lavoro, quasi a voler significare che essa sia “il
prodotto di un reiterato sforzo collettivo” (A. Morrone) e, al tempo stesso,
offrire una “chiave di lettura dell’intero testo” (R. Bin-D. Donati-G.
Pitruzzella); come ebbe a dire Fanfani, il 22 marzo 1947, in Assemblea
Costituente, “l’espressione ‘fondata sul lavoro’ segna quindi l’impegno, il
tema di tutta la nostra Costituzione”.
Centralità
della tematica del lavoro
In un’era come quella
che stiamo vivendo, nella quale per un verso si discute di disoccupazione e di
neet (quei giovani che sono senza lavoro e non lo cercano) e, per altro verso,
di “intelligenza artificiale” e di “Industria 4.0” – espressioni che connotano
l’avvento della “quarta rivoluzione industriale” – sembra urgente chiedersi
quale sia lo “stato di salute” di uno dei cardini dell’impianto costituzionale
e, soprattutto, quali prospettive si aprano per il lavoro in Italia.
Potrebbe dirsi,
semplificando al massimo, che anche (o forse soprattutto) da questo dipende il
futuro della nostra “Repubblica democratica”, per la semplice considerazione in
base alla quale il venire meno del suo principale fondamento non potrebbe che
indebolirne la “struttura” e, forse, la sua stessa sopravvivenza.
Legge
e società
Lungi dal voler fare
catastrofismi, non si può non ricordare che, in generale, il fenomeno giuridico
cammini di pari passo con quello sociale, che la Costituzione debba essere
considerata nel suo essere “dinamica” e non “statica” e che il progresso è anzi
incoraggiato dalla Carta (si veda, ad es., l’art. 9, I comma, Cost., in base al
quale “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica”).
Detto questo, però,
sembra palese che la diffusione di nuove tecnologie, che sono programmate per
avere un’“intelligenza” tale da poter sostituire l’essere umano nello
svolgimento delle più svariate mansioni, possa porre un serio problema di
effettività del diritto-dovere al lavoro, proclamato nell’art. 4 Cost. (da
leggere insieme al già cit. art. 1 Cost.). Proviamo a definire la cornice entro
la quale ci muoviamo. Appare opportuno ricordare che costante preoccupazione
dei Framers fu quella che si rischiasse di riconoscere in Costituzione un
diritto non esigibile, in quanto non azionabile dinanzi a nessun giudice, non
potendosi avanzare allo Stato una pretesa di lavorare e non configurandosi
quindi un diritto ad ottenere un posto di lavoro.
Diritto al lavoro?
Come osservò Ruini,
infatti, si trattava di un “diritto potenziale”, inscritto in Costituzione
perché “il legislatore ne promuova l’attuazione” (v. la Relazione al Progetto
di Costituzione); pertanto, ciò che è certo è che il tema dell’occupazione
dovesse (e debba) essere ai primi posti dell’“agenda politica” (per inciso,
preoccupa la recente misura, frutto proprio di una scelta politica, con la
quale sono state bloccate le assunzioni a tempo indeterminato nella P.A. fino
al 15 novembre 2019).
Tuttavia, la proclamazione del lavoro
quale oggetto di un diritto-dovere volto a favorire “il progresso materiale e
spirituale del Paese” (art. 4 Cost.), sebbene sconti il problema della sua
esigibilità, è però fondamentale per una serie di diritti disseminati fra le
trame della Carta, che da esso ricevono forza e legittimazione e che ad esso sono
strettamente connessi, in quanto sue esplicazioni o manifestazioni (e che sono
ben azionabili in sede giudiziaria).
Le tutele costituzionali dei lavoratori
Si fa riferimento al
fatto che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé
e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36, I comma) o al
“diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite” (art. 36, III
comma); si pensi, inoltre, alla tutela della donna, che “ha gli stessi diritti
e – a parità di lavoro – le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”,
venendo salvaguardato “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare” e
protetta la sua condizione di madre (art. 37, I comma), e a quella dei minori
(art. 37, III comma) e degli inabili (art. 38).
Viene inoltre sancita
la libertà sindacale (art. 39) e il diritto allo sciopero (art. 40), ma anche
“il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle
leggi, alla gestione delle aziende” (art. 46).
Non si dimentichi poi
che, a norma dell’art. 35, “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue
forme ed applicazioni” (I comma), anche “cura[ndo] la formazione e l’elevazione
professionale dei lavoratori” (II comma) e promuovendo e favorendo la tutela
apprestata al diritto al lavoro sul piano internazionale (III comma); assai
significativo, poi, anche alla luce delle vicende di attualità che coinvolgono
il nostro Paese, è il riconoscimento della “libertà di emigrare” e la tutela
del “lavoro italiano all’estero” (IV comma).
A quest’ultimo
proposito, per un fatto di “coerenza”, non si potrebbero non prestare idonee
garanzie a chi si trova costretto ad emigrare dal proprio Paese per cercare
lavoro nel nostro; ma questo è un altro discorso che non si può fare in questa
sede.
Lavoro, solidarietà, dignità
Inoltre, non si può
non mettere in luce lo stretto collegamento che sussiste tra il lavoro e i
valori di dignità e solidarietà; il primo, infatti, nel suo essere oggetto di
un diritto, appare servente alla realizzazione della seconda ed, al tempo
stesso, nel suo essere oggetto di un dovere, è espressione della terza.
Se ne ha, quindi, che
la crisi del lavoro, dal quale dipende lo sviluppo della persona, non possa
avere ricadute significative sui valori ora richiamati. In particolare, come ha
affermato papa Francesco il 27 maggio 2017, “gli uomini e le donne si nutrono
del lavoro: con il lavoro sono ‘unti di dignità’ ”, ma la dignità di ogni
lavoratore non potrà mai essere tutelata (e realizzarsi) senza la “dignità del
lavoro”, come accade nel caso del “lavoro in nero, quello gestito dal
caporalato” o dei “lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una
disabilità” (passaggi, gli ultimi due, del Messaggio che il Sommo Pontefice ci
ha rivolto il 26 ottobre 2016, in occasione della 48° Settimana Sociale che si
è svolta a Cagliari). In definitiva, allora, “non ci può essere lavoro senza
dignità, né dignità senza lavoro” (G.M. Flick).
Tutela del lavoro e progresso tecnologico
Se quello appena
delineato in estrema sintesi è il modello costituzionale del diritto-dovere al
lavoro, ci si può chiedere come esso sia conciliabile con la crescente
sostituzione della macchina all’uomo, specialmente a fronte dei già alti tassi
di disoccupazione presenti nel nostro Paese.
Inoltre, alla luce di
quanto detto, occorre domandarsi quale sia la strategia migliore per
contrastare il lavoro nero e quale debba essere l’operazione culturale da
compiere perché si comprenda che si lavora non esclusivamente per il
raggiungimento di interessi personali ma per il perseguimento dell’interesse
collettivo (i primi, infatti, che sono innegabili, non possono che essere
funzionali al secondo).
Spunti per una riflessione
Lungi dal volere
azzardare risposte nel ristretto spazio di un post, si vuole qui offrire solo
qualche spunto da affidare alla riflessione del lettore, perché ognuno possa
sentirsi interpellato e possa provare a fare la propria parte. È necessario
infatti un impegno sia sul piano politico ma anche, appunto, su quello
individuale; prezioso e irrinunciabile è infatti il contributo che ognuno, in
quanto “parte di un tutto”, può (meglio, deve) offrire a servizio del bene
comune, ma ciò richiede un rinnovato “senso del lavoro” ed un’etica del (e nel)
lavoro che ci si augura possano essere sempre più avvertiti e “vissuti” perché
possa aversi davvero quel “progresso materiale e spirituale” (art. 4 Cost.) del
quale la società italiana ha tanto bisogno.
Insomma, il futuro
della Repubblica non può non dipendere da quanto saranno salde le sue
fondamenta; a tutti noi – nessuno escluso – il compito di non farle
scricchiolare.